Dalle special promotion alle SOCIAL promotion

Sono oramai numerosi i contributi accademici e le analisi che indagano la dimensione emozionale ed esperienziale dello shopping, tanto che oggi è possibile parlare di marketing experienziale anche nel settore della grande distribuzione senza suscitare perplessità di sorta.  Si è soliti parlare di shopping experience– sia inteso come scelta del punto vendita che come  momento di acquisto- intendendola come il risultato di una serie di fattori ambientali e tangibili (il layout del punto vendita, l’assortimento, ecc)  ma anche  intangibili, più afferenti alla sfera psicologica ed emozionale.

Tralasciando i fattori fisici e tangibili, ritengo invece che si possa sviluppare una riflessione che partendo dalle componenti psicologiche ci porti a valutare il ruolo attuale e futuro delle attività che, con un termine a mio avviso troppo vago, si è soliti etichettare come special promotion.

Parlando di componenti psicologiche, ma senza entrare nell’ambito della psicologia ambientale, dobbiamo partire dalla considerazione, che auspico sia largamente condivisa, che nello shopping vi sia una dimensione sociale, sia dal punto di vista della relazione cliente-cliente che nella relazione cliente-retailer (mediato dal personale del punto vendita).

Fino ad alcuni anni fa i retailers ritenevano però fosse sufficiente fungere da mero spazio fisico, ovvero da piattaforma passiva di relazione, intesa come ambiente fisico composto da attrezzature, schematizzate in corsie e reparti, ove invitare il cliente. L’obiettivo era rendere da un lato agevole e razionale il momento dell’acquisto, ma dall’altro anche di presentare tutta l’offerta merceologica del punto vendita, per massimizzare i contatti del cliente con l’assortimento e incentivare gli acquisti d’impulso.

Successivamente si è capito come anche l’architettura del punto vendita potesse svolgere il ruolo di leva di differenziazione del negozio rispetto alla concorrenza, come l’assortimento, il pricing, le promozioni, ecc. Da qui l’obiettivo, attraverso una corretta architettura degli spazi e una maggiore ricerca nelle attrezzature, di agevolare e incentivare in alcuni ambiti, settori e reparti le interazioni cliente-cliente e cliente-personale: pensiamo ad esempio ai banchi freschi serviti di un supermercato dove ritrovare l’intimità e l’atmosfera del negozio di vicinato è sempre stato un obiettivo, spesso non raggiunto, di tante insegne, sia dal punto di vista architettonico che relazionale col cliente.

Ma il mutato contesto sociale- ovvero la crisi e la revisione degli stili e modalità di consumo con la crescita della multicanalità- e la sempre più forte concorrenza tra insegne unita a una riduzione delle leve di differenziazione- come gli assortimenti sempre troppo determinati dall’industria seppure insidiati dalla crescente importanza delle private label, e il pricing, stretto dall’assurda e oramai quasi ingestibile contrazione dei margini- stanno determinando dei cambiamenti di cui le insegne della GDO non potranno non tenere conto, e che ne stanno ridefinendo anche il ruolo.

In questo ambito le special promotion, nate come mero strumento di sostegno alle vendite e aumento del traffic store, si stanno dimostrando un’importante leva non tanto o non solo promozionale, ma di sostegno o, talvolta, di costruzione della brand image, grazie anche alla loro valenza sociale.

Tali risultati sono raggiunti perché tali attività hanno dimostrato di poter scatenare e rivitalizzare la dimensione sociale dell’acquisto, ovviamente laddove il progetto sia stato coerente con l’insegna e i desiderata dei consumatori e clienti, e non a prescindere da tali elementi di progetto, (anche se sarebbero molti ad essere felici se vi fosse una così facile lampada di Aladino per risollevare le sorti della GDO).

Da questo punto di vista promotion di successo come quelle recentemente realizzate da Esselunga (carte giocabili Pixar) o Billa (figurine Avventure Animali ) sono state indiscutibilmente caratterizzate anche da una importante e tangibile “dimensione sociale”, verosimilmente non prevista in questa misura all’origine e in parte forse “subita” dai punti vendita, che si è tradotta in momenti di incontro sul punto vendita o a scuola, blog su internet, ecc.

Senza entrare nello specifico delle singole operazioni tali iniziative si sono dimostrate di fatto come un incredibile momento di contatto, se non proprio di dialogo, tra retailer e cliente: condizione e ambito sempre più difficile da creare e gestire in anni in cui lo stress promozionale è via via aumentato, cancellando spesso dalla mente dei consumatori altri metri di giudizio sulla qualità di un insegna se non il mero prezzo.

L’operazione di special promotion è inoltre uno strumento eccezionale per unire nel momento dello shopping tutta la famiglia, contemperando la componente più emozionale e impulsiva dei bambini (ma sarebbe sbagliato non ricordare come anche molti adulti amino rivivere le meccaniche dei collezionamenti) a quella più razionale e programmatica degli adulti, divenendo così un, involontario, aggregatore familiare-sociale.

Infine la meccanica stessa di una special promotion, che prevede un forte coinvolgimento del cliente nella fase di acquisto- si pensi, ad esempio, alla ricerca dei prodotti sponsor dell’operazione in grado di accelerare la raccolta delle figurine- determina un incremento della componente emozionale dello shopping, a vantaggio della shopping experience che viene così più fortemente connotata da elementi di unicità e memorabilità.

La consapevolezza del valore sociale di tali iniziative dovrebbe divenire così un elemento cardine già nella fase di progettazione, per permettere alle insegne di gestire non più una special promotion ma quella che potremmo definire, con una forzatura lessicale che auspico possa essere perdonata, come social promotion.

Per i motivi brevemente esposti e le esperienze delle operazioni fin qui realizzate, ritengo in conclusione che a fronte di questi cambiamenti i retailers anche, ma non solo, attraverso leve come quelle delle special promotion possono ambire al ruolo di aggregatori sociali, riscoprendo così quel ruolo sociale del commercio, seppure rivisto rispetto ai paradigmi del passato, che l’avvento delle grandi superfici di vendita aveva rischiato di cancellare per sempre.

 

Daniele Cazzani

Private Label – Il difficile rapporto tra copacker e retailer

A gennaio in occasione di Marca 2011 (Fiera Bologna) ho assistito a un interessante convegno sulla marca commerciale in Europa, ascoltando le interessanti testimonianze dei partecipanti al dibattito non ho capito se la marca privata è lo strumento per migliorare i margini delle categorie– sempre più compressi tra l’estenuante braccio di ferro con l’industria (vedasi tema aumenti materie prime) e la pressione promozionale che, frutto oltre che della crisi della maggiore concorrenza nei territorio, sembra essere l’unica leva per aggiudicarsi fette del sempre più striminzito paniere di spesa del consumatore italiano (abbiamo letto tutti cosa dicono Istat e altri istituti  di ricerca a proposito…)- oppure è una risposta alle nuove esigenze del consumatore, sempre meno legato alla marca-industriale e alle sue promesse, e sempre più razionale nei comportamenti d’acquisto (per lo meno in ambito alimentare e grocery). E’ mia convinzione che le private label possano essere una delle chiavi di volta per la ridefinizione dei rapporti tra insegna e cliente– e in questo ambito Mercadona testimonia quanto tale scelta possa essere premiante- mentre il dibattito vagamente “mercatista” tra distributore e copacker cui ho assistito a Bologna mi fa temere che in Italia siamo ben lungi da tale approdo,

La modifica degli stili di consumo, la sempre maggiore attitudine alla multicanalità dei consumatori oltre che, ca va sans dire, la crisi stanno determinando un profondo mutamento dell’ambiente in cui si muovono retailers e copackers. Non tenere conto delle modifiche ambientali è forse il peggiore tra gli errori che si possano compiere!

Il tema vero a mio avviso è il rapporto tra copacker e distributore. Vedendo le dinamiche degli stand di Bologna, sentendo alcuni partecipanti, ho avuto la sensazione che il copacker resti per il distributore un fornitore tout court. Non un partner. Anche le rivendicazioni, emerse nel dibattito, da un lato dei limiti “tecnologici” di tanti fornitori (ad esempio la mancanza di un listino prezzi in formato elettronico, che in effetti è risibile nel 2011, ma che non credo possa essere considerato IL problema) quanto della rigidità da parte dei distributori a farsi carico di parte degli aumenti, lasciandone l’onere maggiore al copacker di turno- alcuni dei quali hanno denunciato di rischiare un default- hanno evidenziato quanta sia la distanza tra i due attori.

Si è detto, non so quanto convintamente, che bisogna partire dal cliente– “el jefe” direbbero i mercadonisti- per tarare assortimenti, offerte ecc. Se siamo convinti di questo, credo non vi sia altra strada che lasciare la logica del muro contro muro per definire un reale patto tra copacker e distributore: avremmo da una parte il distributore che possiede i dati sui comportamenti d’acquisto dei clienti (attenzione non dei consumatori, ma dei PROPRIO REALI clienti), dall’altra l’industria copacker che col proprio know how, e la capacità di ricerca e innovazione potrebbe divenire lo strumento per portare sugli scaffali i prodotti che il cliente/consumatore chiede.

In caso contrario il rischio è che i distributori farciscano i propri assortimenti di private label anziché di prodotti dell’industria di marca, con l’unico risultato di disorientare ancor di più il cliente di fronte a scaffali che iniziano sempre più ad assomigliare a versioni merceologicamente moderne della Babele biblica!