Gli ipermercati e il #nonfood: aspettare Godot o ascoltare Einstein?

aspettando godot

GS1 Indicod-Ecr (www.indicod-ecr.it) ha presentato ieri a Milano i risultati dell’Osservatorio Non Food 2013. La presentazione è stata ricca di spunti, dati, analisi e suggestioni assolutamente interessanti; riporto qui di seguito alcuni dati ed elementi da cui partirò per alcune riflessioni:

– dal 2002 al 2012 i consumi non alimentari non sono cresciuti: negli ultimi anni, dopo una leggera crescita nel periodo 2003-2006, hanno registrato dei cali, dapprima in linea con quello generale dei consumi, ma peggiorando sempre più fino al drammatico dato del 2012 (-8,7%);

–  nel periodo 2007-2012 il calo dei consumi alimentari (-9,6%) è stato peggiore del calo dei consumi alimentari (-8,4%), con punte ancora più negative nei comparti abbigliamento (-13%), elettronica di consumo (-12%) e mobili (-16%);

–  l’incidenza deli consumi non alimentari sul totale consumi è pertanto calata nel periodo 2002-2012 dal 21% al 16%;

–  nonostante il calo dei consumi sono paradossalmente aumentati i punti vendita e, soprattutto, i canali di vendita, alcuni a dire il vero- come segnalato dal moderatore/provocatore dell’incontro Luigi Rubinelli direttore di www.retailwatch.it -non ancora ben tracciati e nell’ombra: pensiamo a Ebay (www.ebay.it) o alla vendita dell’usato, ai “cinesi”, ai mercatini etc.;

–  come combinato disposto dei dati sopra riportati (calo consumi sommato a un aumento della pressione concorrenziale) nel canale ipermercati il peso del Non Food è sceso dal 32% del 2004 al 24% del 2012 e sarà destinato ancora a scendere visto che, ad esempio, Auchan e Coop hanno anticipato progetti per rivedere tutto il comparto Non Food, riducendo l’assortimento- se non addirittura lo spazio fisico nei negozi- e rivedendo le categorie;

La crisi in effetti è la prima preoccupazione dei manager italiani del FMCG, come rilevato da GFK Eurisko (www.gfk.it): il dato è superiore a quello medio europeo (dove i manager sono più preoccupati dai nuovi trend di consumo ad esempio) e segnala il rischio che le imprese italiane si pongano in una situazione di attesa (“Aspettando Godot” di Beckett è stato più volte citato…) sperando forse che qualcosa o qualcuno tolga dal tavolo la crisi (!?) e permetta loro di riprendere le vecchie abitudini.

Non potrebbe esserci atteggiamento più sbagliato!

Oltre alla crisi, che comunque ridisegnerà le abitudini di acquisto e il rapporto stesso degli Italiani con lo shopping alimentare e non (“non c’è solo la rinuncia, ma anche un consumo più consapevole” De Rita dixit) , i retailers dovrebbero tenere conto di un ulteriore aspetto: l’atteggiamento sempre più multicanale dei consumatori, oramai avvezzi a informarsi on line prima di effettuare un acquisto in un negozio fisico o viceversa (anche se, in base a un ricerca commissionata in Europa, lo showrooming pare in realtà interessare solo il 10% dei consumatori).

L’e-commerce appare ancora una sfida ancora lontana dalle strategie dei retailers, per quanto l’ingresso di Amazon (e di altri players) sul nostro mercato dovrebbe invece indurli ad accelerare su questo fronte. Forse è anche per questo motivo- ovvero la scarsa attitudine in tal senso dei retailers- che le recenti stime sull’e-commerce diffuse da eMarketer (www.emarketer.com) collocano le prospettive del commercio elettronico nel nostro Paese Italia ben al di sotto di tanti altri Paesi europei [ne parleremo in un prossimo post]. Un esempio può dare meglio di tante parole il polso della situazione.

In un recente sondaggio sul sito www.retailwatch.it alla domanda sui motivi della scarsa diffusione del drive in Italia, la risposta più cliccata (63%) è stata “le persone non usano internet per fare la spesa” (vedere grafico).

drive

Incredibile, ma è tutto vero! Se questa è la sensibilità dei retailers italiani sui temi dell’e-commerce, temo che Amazon & C. avranno vita facile…

Ma veniamo agli IPERMERCATI, che oltre a registrare perfomances davvero critiche proprio in ambito Non Food (IRI www.iriworldwide.it nello Scenario Trade di Aprile 2013 registrava un calo del 9% rispetto al già drammatico 2012, con punte del -13% nel comparto tessile), soffre dell’accerchiamento delle GSS (Grandi Superfici Specializzate) moltiplicatesi negli ultimi anni anche al di fuori dei centri commerciali (e quindi non sempre sotto il medesimo “tetto” degli ipermercati).

Proprio il Non Food che doveva costituire il punto di forza e attrazione degli ipermercati, pare esserne divenuto il principale problema, tanto che sempre più operatori della GDO sembrano avere riscoperto il proprio lato “alimentarista” snobbato negli ultimi anni…

Sinceramente, basta dare un’occhiata a tanti reparti (pensiamo proprio al tessile o alla cine-foto-ottica) per rendersi conto di quanto siano ancora confuse le idee di tanti retailers, ma la crisi e l’avvento di nuovi competitors e la multicanalità ha accelerato un esito che pareva scontato: bastava, in fondo in fondo, dare un’occhiata ai margini dei reparti Non Food negli ultimi anni, andati via via assottigliandosi.

Il problema è ora disegnare una nuova via per il Non Food, visto che la pressione concorrenziale potrà solo aumentare nel futuro (ricordiamoci l’e-commerce) e l’introduzione anche in tale ambito di regole più certe per i pagamenti potrebbero generare nuove tensioni e criticità.

Esperimenti come la creazione di shop in shop hanno già dimostrato i propri limiti (perché mai, mi chiedo, un retailers dovrebbe cedere la sovranità su parte del proprio negozio ad altri?) e sono parsi più che altro come il goffo tentativo di intorbidire le acque ed esternalizzare le proprie criticità.

L’unica via è quella di lavorare sulle categorie (sennò i category manager a che servono?), partendo però da una chiara individuazione delle esigenze dei propri clienti, che potranno anche essere diverse da negozio a negozio: è finita l’epoca dell’approccio univoco e arrogante al mercato. I retailers devono riscoprire la capacità di ascolto e lettura dei territori e prepararsi a un lavoro certamente più difficile, ma che è l’unica via per invertire i trend negativi degli ultimi anni (solo parzialmente causati dalla crisi, come dicevamo poco sopra).

Parallelamente gli ipermercati non potranno non investire nell’e-commerce integrato coi propri negozi fisici. Basta dare un’occhiata a quanto accade in altri Paesi per cogliere importanti spunti su cui lavorare [ne parleremo a breve].

La strada certamente non sarà facile, ma evitando di rivedere dal basso le proprie strategie nei comparti Non Food gli ipermercati non riusciranno ad emergere dalla crisi in cui sono attanagliati.

Concludo ancora una volta con una frase di Albert Einstein (ieri chiamato in causa più volte):

Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare il conformismo; invece, lavoriamo duro.

Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla.

per maggiori informazioni sull’Osservatorio Non Food 2013: http://indicod-ecr.it/servizi/osservatori/osservatorio-non-food/

I #discount e la #crisi: un binomio tutto italiano?

Grande-Crisi

Un articolo recentemente pubblicato da @NamNews che evidenzia la forte crescita del discount nel mercato UK  (www.kamcity.com/namnews/asp/newsarticle.asp?newsid=70947&utm_source=feedburner&utm_medium=twitter&utm_campaign=Feed%3A+namnews-kamcity+%28NamNews+-+Latest+Grocery+Retail+News%29) ha attirato la mia attenzione.

nielsen uk

Da qui nasce l’idea di parlare ancora una volta di discount- ma il ragionamento vale a 360 gradi per tutta la GDO- concentrando l’attenzione sul rapporto tra andamento dei consumi e quota di mercato dei discount, pur senza avere la velleità di scrivere qualcosa di definitivo.

Tornando in UK, il mercato è caratterizzato non da una contrazione dei consumi, ma da una loro ripresa, come testimoniato dai dati @Eurostat (vedi tabella): quindi pur in un contesto di ripresa dei consumi i discount stanno registrando performances migliori degli altri formati, che sono comunque stati in grado di implementare strategie e attività per intercettare il consumo (ad esempio  con una forte pressione promozionale e con attività, come la distribuzione di buoni carburante, utili per differenziarsi dalla concorrenza).

eurostat

Non entro nel merito delle determinanti della crescita in UK- anche se potremmo citare la riduzione della spesa pubblica, le iniziative di sostegno alle famiglie e la libertà d’azione dovuta all’assenza dei vincoli europei di cui può godere David Cameron- ma non posso non cogliere come l’andamento sincrono dato dalla crescita dei consumi e dalla crescita dei discount sia una chiara dimostrazione di come sia estremamente riduttivo individuare nella sola crisi i motivi della crescita dei discount che stiamo registrando negli ultimi anni anche nel nostro Paese.

Ragionamento simile si potrebbe fare guardando la situazione tedesca, dove l’economia per quanto in sofferenza a causa del rallentamento del mercato europeo, segna ancora dati positivi- come il calo della disoccupazione registrato lo scorso mese- e dove i discount continuano a registrare buone performances.

La crescita dei discount si può spiegare, oltre che come effetto-risposta alla crisi, con una taratura di assortimenti e politiche commerciali più in linea coi nuovi desiderata dei consumatori, sempre meno propensi a perdere tempo tra scaffali pieni di prodotti di dubbia utilità, e meno inclini comprare prodotti inutili e non previsti nella propria wish-list, oppure avezzi, ad esempio nel non food, ad avere un approccio multicanale (privilegiando l’ e-commerce che concede maggiore libertà e controllo al cliente); consumatori che non sono più disposti a comprare extra quantità solo per poter godere di un prezzo migliore, e non riconoscono più automaticamente il brand value all’IDM (basta notare l’incidenza delle private label in Germania e in altri Paesi europei doppia rispetto al nostro Paese; anche in questo caso la strada che dobbiamo percorrere in Italia è ancora molta… se non nei discount, certamente negli altri formati).

In Italia però, come già detto in alcuni miei precedenti interventi sul mondo discount, la crescita della quota dei discount sta rallentando. A mio avviso il motivo è da individuarsi nel fatto che finora il formato ha raccolto parte della spesa in fuga dagli altri canali (pensiamo alla sofferenza degli ipermercati che stanno registrando cali davvero drammatici…) ma, avendo dato  priorità data allo sviluppo (spesso irrazionale) della rete vendita, pare, nella maggior parte dei casi, non essere stato in grado di definire una propria identità, sia in termini di politica commerciale (assortimenti in primis) che di servizi.

Paradossalmente in Italia i discount sembrano addirittura vergognarsi del proprio stesso nome (vedere ad esempio la recente campagna televisiva di una delle catene più importanti nel nostro Paese che ha l’obiettivo di accreditarsi come  “supermercato”), mentre nelle altre esperienze europee, paiono non essersi concentrati tanto su una questione di nome, quanto sull’arricchimento della propria offerta con servizi e con una gestione più strategica dell’assortimento e una politica commerciale più lineare e chiara.

Ennesima dimostrazione dell’attaccamento tutto italiano per le “etichette” e i “titoli” più che per la sostanza delle cose? Voglio sperare che non sia così, ma il rischio, per i discounters, è quello di perdere un’importante (e irripetibile) occasione per consolidare la propria presenza nel vissuto dei consumatori italiani e porre le basi per una crescita della propria quota di mercato.

Daniele Cazzani @danielecazzani