“Ovvio”, si potrebbe dire leggendo il titolo di questo post. Dopo tutto propongo un ben strano paragone: perché mai avvicinare due luoghi così distanti (e non intendo dal punto di vista geografico)?
Ma forse il volo non è così pindarico se partiamo dal concetto di marketing esperienziale.
Il marketing emozionale, o esperienziale, teorizzato da B. H. Schmitt alla fine degli anni Novanta, si basa su un concetto a ben vedere semplice e di “buon senso”: coinvolgere i clienti offrendo loro un’esperienza memorabile, soddisfacendo (o, meglio ancora, anticipando e superando) i loro bisogni o desideri, può rivelarsi un importante vantaggio competitivo soprattutto in mercati caratterizzati da una scarsa differenziazione del prodotto/servizio o in cui sia molto alta la concorrenza in termini di offerta.
Come dice la dottrina, un’esperienza di consumo è memorabile quando è capace di arrivare in profondità nei sentimenti del cliente e di rimanervi a lungo, associata a sensazioni e ricordi creando un legame profondo e personale tra il cliente e l’azienda (o prodotto o brand).
In questo ambito l’obiettivo primario della strategia di marketing è quello di individuare che tipo di esperienza valorizzerà al meglio il prodotto o servizio che si intende offrire.
Secondo Schmitt esistono 5 tipi diversi di esperienza, da lui denominati Strategic Experiential Modules:
1- Sense Experience: esperienze che coinvolgono la percezione sensoriale (lasciando una forte impressione) attraverso la vista, l’udito, il tatto e all’olfatto del consumatore.
2- Feel Experience: esperienze che coinvolgono i sentimenti e le emozioni dei consumatori.
3- Think Experience: esperienze creative e cognitive che invita e sfida il consumatore, offrendo loro esperienze di problem solving spingendoli ad interagire cognitivamente e/o creativamente con l’azienda ed il prodotto.
4- Act Experience: esperienze che coinvolgono la fisicità e quindi intervengono sull’ambiente in cui si realizza la relazione tra cliente e azienda (o prodotto o brand).
5- Relate Experience: esperienze risultanti dal porsi in relazione con un gruppo, con le persone e con il contesto culturale. Esso fa riferimento al più profondo desiderio di progresso personale, del proprio stato socio-economico e della propria immagine. Gli stimoli relazionali mettono in evidenza un gruppo di persone- che può essere identificato in un target customer- associate da interessi o aspirazioni comuni.
Il manager potrà costruire per i consumatori queste esperienze mediante il communication mix (Schmitt parla di Expros o di Experience Providers) ovvero l’insieme degli strumenti che parlano del brand, inclusi i siti internet, i punti vendita e il personale.
Ma veniamo- finalmente!- al titolo dell’articolo, visto che il tema del marketing esperienziale anche in ambito GDO è spesso citato quale nuova (sigh!) frontiera o perlomeno come strumento in grado di attivare diversamente (e positivamente) la relazione col cliente, sorpassando per una volta tanto, la famelica leva promozionale o la mera competizione di prezzo.
Ma si può davvero pensare che il marketing emozionale sia possibile in (o per) un ipermercato? Difficile… Eppure se ne parla sempre più spesso, forse perché tanti marketing manager non sanno più “a che santo votarsi” per reagire alla perdurante crisi (e rimodulazione) dei consumi, o cercano nuove leve per difendere i propri budget sotto assedio dalla forza drenante delle promozioni mass market.
Difficile, dicevo. Pensiamoci bene. Arriviamo nel parcheggio di un moderno centro commerciale: posti auto stretti, segnaletica mancante o contraddittoria, macchine in doppia fila, mancanza di passaggi pedonali; così si fa un po’ di gimcana tra le auto destreggiandosi alla guida del carrello. Ah sì, il carrello: dotato spesso di propria volontà sbanda a destra e a sinistra all’improvviso. Vogliamo poi parlare della pulizia media dei carrelli di un ipermercato? Al loro interno si accumulano strati di vita e di spese passate tanto da invogliarci a riempirli il prima possibile per non costringerci a vederli vuoti e sporchi…
Entriamo finalmente nell’ipermercato e siamo sovrastati dal caos di isole promozionali dalle geometrie improvvisate, mentre sulla nostra testa penzolano provvisori cartelli sempre in procinto di cadere.
Ci rifugiamo in qualche corsia per scoprire altri espositori di cartone- messi lì proprio davanti al prodotto che volevamo comprare- o carrelli pieni di merce appena portati fuori dai magazzini e in attesa che qualche addetto non ne determini la destinazione sull’apposito ripiano.
La nostra attenzione a un certo punto è attirata dallo spot della radio interna che annuncia una promozione, ma poco prima di sentire il prezzo lo spot è interrotto dal richiamo alla cassa dodici di un addetto ai freschi…
Passa il tempo e finalmente ci troviamo alle casse, dove dopo aver litigato col cliente prima di noi (troppo lento a imbustare!) e con quello alle nostre spalle (troppo impaziente di riempire coi propri prodotti il nastro della cassa!) ed esserci ricordati il pin della carta di credito, sotto lo sguardo distratto della cassiera troppo occupata a parlare con la collega della cassa successiva.
Qualcuno sa dire in questo caos dove e come sia possibile parlare di marketing emozionale?
Ma passiamo al secondo termine di paragone, attingendo al ricordo (ahimè lontano) di una breve ma splendida vacanza estiva nelle murge tarantine presso una masseria di assoluto fascino (http://www.masseriabagnara.it).
Un accoglienza personalizzata, una costante attenzione alle nostre esigenze, la capacità di proporre suggestioni per escursioni (che mi piace chiamare evasioni) assolutamente ritagliate sui nostri interessi, il sentirsi arricchiti dopo una chiacchierata proposito di una buratta o di un vino locale, una capacità di far sentire come unico e personale ogni singolo istante del soggiorno. Insomma: la summa del marketing emozionale (e la summa del piacere)!
Certo il turismo è un settore in cui il marketing emozionale dovrebbe essere leva strategica, e dico dovrebbe perché purtroppo anche in tale ambito l’offerta- anche nel nostro splendido Paese- è spesso standardizzata e piatta (senza attenzione al cliente e ai servizi) tanto da far assomigliare buona parte delle nostre strutture alberghiere a ipermercati del soggiorno, dove la relazione si limita alla prenotazione della camera e al successivo check-out con pagamento di quanto dovuto, lasciando nel mezzo un gran vuoto (di relazioni e di opportunità). Ma per fortuna esistono eccezioni come quella che ho avuto il piacere di vivere, e che sarebbe limitativo pensare debbano per forza essere riservate a target premium e di nicchia: la centralità del Cliente è questione di cultura, non di budget!
E’ quindi evidente la forzatura nel paragonare un ipermercato a una bellissima masseria, ma il punto cruciale è che finché la GDO non saprà realmente mettere al centro delle proprie strategie il Cliente, tutte le iniziative che metterà in campo saranno comunque deboli e inefficaci, lasciando agio a quanti (tanti) continuano a credere che l’unica leva sia il prezzo…