Un patto #bio tra #agricoltura, #distribuzione e #consumatori

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In tempi di crisi dei consumi vedere un numero positivo fa sempre piacere.

Fino ancora a pochi anni fa considerato da tanta parte della distribuzione come una nicchia  o una moda passeggera, il biologico è ora al centro dell’attenzione della GDO.

Con una crescita del 21% (anno terminante maggio 2016) il biologico si conferma un settore in piena salute per quanto ancora piccolo nel mondo dei consumi, pesando solo per il 3% sul totale delle spese alimentari delle famiglie italiane (una percentuale però quasi raddoppiata negli ultimi cinque anni).

Ma la passione per il biologico si sta radicando, se è vero che le ricerche dimostrano che il 18% delle famiglie consuma abitualmente prodotti bio, mentre è decisamente superiore il numero delle famiglie che anche occasionalmente li acquista.

In questo contesto vi sono certamente degli heavy users (o dovremmo dire heavy eaters?) del bio se è vero che il 23% delle famiglie acquirenti pesa per oltre il 70% delle vendite, ma il perimetro di consumatori si sta allargando rapidamente, complice la maggiore attenzione alla qualità del cibo, come testimonia ad esempio la parallela crescita del comparto dei prodotti alimentari “senza” (senza glutine, senza olio di palma, senza conservanti e via dicendo).

L’aumento dei consumi bio è dovuta da una parte dall’aumento della produzione– in questi ultimi anni si è registrato un notevole incremento dei terreni per agricoltura biologica- dall’altra dall’entrata in campo della grande distribuzione e dal moltiplicarsi dei canali di acquisto a disposizione dei consumatori: negozi specializzati (pensiamo al grande sviluppo avuto da un’insegna quale NaturaSì), centri di acquisto, vendite dirette da agricoltori e ultimo, ma non meno importante, l’e-commerce.

Ma numerose sono ancora le possibilità di espansione del mercato; basti pensare al mondo della ristorazione (commerciale e non) e alla sua ancora marginale attenzione a questo fenomeno…

Tornando alla GDO l’incremento delle vendite è stato determinato, oltre che dalla domanda, da un aumento dell’assortimento disponibile, cresciuto solo nell’ultimo anno di oltre il 26% e spesso trainato dalle private labels.

In un comparto produttivo caratterizzato dalla presenza di piccoli operatori, quasi pulviscolare, e dove, fatte alcune eccezioni, è risultato finora difficile fare branding sul biologico, le private labels possono giocare un ruolo fondamentale mettendo sul piatto tutto il peso del brand d’insegna.

La tracciabilità del prodotto, il suo luogo di coltivazione e produzione sono elementi ancora più importanti in un mondo, quello del biologico, tutto sommato nuovo per buona parte dei consumatori. Non si può certo pensare che basti il bollino “agricoltura biologica” per convincere all’acquisto i propri clienti. Serve trasparenza e chiarezza. Ecco perché ritengo che le private labels possano giocare un ruolo fondamentale, anche per abbattere una delle barriere all’acquisto più forte per i prodotti bio: il prezzo.

Chi di noi fa la spesa sa bene quale sia il price divide tra un prodotto bio e un prodotto non bio. Spesso, è opportuno dirselo, tale differenza non nasconde fondamentali differenze nella catena del costo; piuttosto il prezzo elevato è stato utilizzato (non so dire quanto impropriamente) come leva di marketing, quale elemento di “certificazione” della maggiore qualità del biologico.

Anche su questo tema la distribuzione può e deve giocare un ruolo importante: per il consumatore moderno il value for money è formula che funziona se entrambi i piatti della bilancia sono equilibrati. Ben disposto a pagare un prezzo superiore quindi per il biologico, ma a fronte di tangibili e trasparenti elementi che ne attestino la superiore qualità e la veridicità della promessa.

Si tratta di una sfida avvincente per quei distributori che sapranno coglierla perché, se è verosimile che i tassi di crescita non saranno infiniti per questo comparto, il prodotto biologico potrebbe divenire un’importante leva di fidelizzazione della propria clientela; invito i distributori a vedere oggi quali siano i propri clienti che acquistano anche bio: sono piuttosto sicuro che il profilo che ne emergerebbe sarebbe quello del cliente fedele, alto-frequentante e alto-spendente. Perché l’acquisto di un prodotto bio presuppone conoscenza e confidenza che solo un cliente fedele può riconoscere a un distributore.

Per concludere quella che si presenta, a mio avviso, è anche una grande opportunità per i produttori bio.

La distribuzione moderna infatti si presta ad essere una grande veicolo di diffusione della cultura e del consumo del biologico. Inoltre le esigenze logistiche e commerciali della distribuzione potrebbero indurre il comparto biologico a fare un ulteriore salto di qualità finalizzato all’innovazione e alla modernizzazione di tutta la filiera con benefici per il consumatore finale.

Certo per fare questo sarà necessario da un lato un ruolo attivo della distribuzione- in realtà sono già molte le insegne soprattutto italiane che dimostrano di avere colto questa sfida…- e una crescita imprenditoriale anche dei produttori che farebbero bene a imparare dal passato quanto sia importante trovarsi al tavolo con la distribuzione con una voce sola, piuttosto che a gruppi sparsi o singolarmente portando con sé ceste di bellissimi e buonissimi ortaggi ma idee poco chiare sul proprio futuro e le proprie strategie.

Un patto bio tra agricoltura e distribuzione che vedrebbe come beneficiario finale anche quel nuovo consumatore che la prolungata stagnazione dei consumi ha plasmato e i cui nuovi valori, la distribuzione tutta farebbe bene a studiare con attenzione.

@danielecazzani

 

NOTA

I dati riportati nell’articolo sono stati estratti da “Trend e prospettive di crescita per l’alimentare e il biologico in Italia” di Nielsen e anticipati per Sana Bologna.

#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

La #Bellezza salverà il #Retail?

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Almeno fino al diciottesimo secolo la Bellezza è stata considerata una qualità delle cose. La bellezza platonica prevedeva un equilibrio delle forme, pensiamo infatti all’arte greca e alla perfezione delle statue delle divinità arrivate fino ai giorni nostri (come l’Afrodite in foto). Anche il Cristianesimo riprese questa impostazione con Sant’Agostino e Tommaso d’Acquino, continuando a ritenere che la bellezza presupponesse armonia e proporzione della cosa in sé e della cosa in relazione all’altro.

E’ con la filosofia moderna- pensiamo a Hume, Kant…- che la Bellezza perde questo carattere di oggettività, divenendo invece soggettiva, della persona, lasciando così spazio alla nascita di nuove forme d’arte che l’Uomo è stato in grado di accettare e sentire proprie.

Ma, qual è il nesso tra Bellezza e Retail?

Lo spunto per questo contributo nasce dalla recente intervista rilasciata da Marco Brunelli a Cristina Lazzati per Mark-Up (http://www.mark-up.it/una-conversazione-con-il-signor-brunelli/) nel corso della quale il concetto di Bellezza ritorna più volte, ricordando alcuni particolari de IlCentro di Arese, ma anche realizzazioni meno recenti come l’intervento urbanistico e paesaggistico realizzato al Portello di Milano.

Nulla di cui stupirsi conoscendo la passione e il gusto per l’Arte e della Bellezza del patron di Finiper.

In questo contesto la ricerca del Bello, l’attenzione al dettaglio, al particolare che sfugge ai più, sono a mio avviso sintomo della consapevolezza che il Signor Brunelli ha dell’importanza della Bellezza, anche nel Retail.

A mio avviso cioé non si tratta affatto di una ricerca estetica. La sua attenzione è invece frutto di una ricerca etica.

Etica nel senso aristotelico del termine, ovvero come manifestazione di una scelta, di un costume (ethos) che, nella fattispecie, mette al centro il Cliente e la sua esperienza.

Infatti, a mio avviso, la Bellezza è una dimensione (soggettiva) valoriale dell’esperienza d’acquisto che troppi finora nel Retail hanno dimostrato di trascurare.

Le linee guida per il disegno di uno store spesso sono frutto solitamente di scelte estetiche o solo funzionali ma che hanno al centro il prodotto e l’organizzazione del personale, finalizzate all’esposizione dell’offerta, per garantire massimizzazione della rendita della superficie, efficienza nella gestione dello stock ecc.

E il Cliente, con la sua decantata centralità?

Gli store andrebbero disegnati in modo tale che vi sia spazio per il Cliente, lasciando a questi momenti di “respiro” nel corso della sua shopping experience, rappresentando la propria offerta in modo da agevolarne la lettura, senza sovra-sistemi comunicativi che hanno spesso l’effetto di creare confusione e disorientare il Cliente (in questo, mi sia concesso, gli ipermercati della “grande I” spesso rasentano la cacofonia…) ricordandosi sempre che la coerenza dei toni e nei messaggi della comunicazione  (tra negozio, volantino, media, web, social…) non vive a comparti stagni, ma deve essere un unicum per il Cliente.

La luce naturale, l’assenza di barriere architettoniche, il nuovo disegno degli spazi all’interno dell’ipermercato e l’integrazione di questo con il mall e la ristorazione sono solo alcune delle scelte che caratterizzano IlCentro di Arese e testimoniano non tanto (non solo) un gusto architettonico, quanto una reale attenzione al Cliente e al modo in cui questi può fruire degli spazi, in modo da migliorarne l’esperienza.

Quindi la piacevolezza, la bellezza del momento d’acquisto (non solo la bellezza dei luoghi) deve essere uno degli obiettivi dei retailers.

Perché attenzione alla Bellezza significa attenzione al Cliente e alla sua esperienza.

Questa attenzione potrà essere un’eccezionale leva nel confronto tra retail fisico e retail online., soprattutto se coniugata con un’altrettanto forte attenzione alla relazione.

Ricordando che non ha più senso distinguere tra online e offline- perché il Cliente non fa più certe distinzioni…- il Retail ha nelle sue mani la possibilità di dare un nuovo senso al negozio fisico, per evitare che si avveri la previsione (che preferisco considerare monito) di Marco Brunelli, ovvero che i centri commerciali divengano dei grandi cataloghi per Amazon.

Serve una nuova capacità di disegnare gli spazi, non lasciandola nelle mani di pur bravi designer e architetti, nella quale giochi un ruolo centrale il Marketing e la sua capacità (dovere, direi) di farsi portavoce forte delle esigenze del Cliente.

La Bellezza: ecco la nuova leva del marketing mix.

 

@danielecazzani