Una strategia #disruptive per il #turismo in #Italia: dall’abolizione del #Mibact a un moderno #crm

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Il turismo può essere una formidabile opportunità di crescita e sviluppo economico per il nostro Paese, nonché uno strumento di valorizzazione delle nostre eccellenze e tradizioni.

Da anni sentiamo ripetere come un mantra questa frase, ma pur a fronte di un mercato del turismo mondiale in continua crescita (oltre il 4% nel 2015) grazie all’aumento di nuovi turisti (pensiamo ai cinesi) e nel quale l’Europa continua ad assorbire oltre il 50% del traffico, l’Italia sembra non essere ancora in grado di cogliere questa opportunità, trovandosi dietro altri Paesi europei per flusso turistici; e questo nonostante numerose ricerche mondiali la indichino come uno dei luoghi più desiderati e ambiti per le proprie vacanze.

I dati che seguono (fonte UNWTO) fotografano bene la situazione.

Top 10 destinazioni del turismo internazionale

Arrivi internazionali (milioni)

Introiti (miliardi di US$)

var. % moneta locale

graduatoria 2015

2014

2015

var. %

graduatoria 2015

2014

2015

1 Francia

83,7

84,5

0,9

1 USA

177,2

178,3

0,6

2 USA

75,0

n.d.

n.d.

2 Cina

105,4

114,1

8,3

3 Spagna

64,9

68,2

5,0

3 Spagna

65,1

56,5

4,0

4 Cina

55,6

56,9

2,3

4 Francia

57,4

45,9

-5,4

5 Italia

48,6

50,7

4,4

5 Thailandia

38,4

44,6

22,0

6 Turchia

39,8

n.d.

n.d.

6 Regno Unito

46,6

42,4

-2,0

7 Germania

33,0

35,0

6,0

7 Italia

50,5

39,4

3,8

8 Regno Unito

32,6

n.d.

n.d.

8 Germania

43,3

36,9

1,9

9 Messico

29,3

32,1

9,5

9 Hong Kong (Cina)

38,4

35,9

-6,6

10 Russia

29,8

31,3

5,0

10 Macao (Cina)

42,6

31,3

-26,5

Fonti: UNWTO World Tourism Barometer, vol.14 – July 2016

A fronte di un 2015 che ha registrato una crescita del turismo nel nostro Paese (grazie anche all’effetto Expo), il primo semestre del 2016 evidenzia purtroppo un segno negativo (-3,3% arrivi, -1,3% presenze) secondo i dati diffusi dall’Enit.

Un segno non positivo che cozza con le parole di ottimismo che sentiamo spesso spendere sulle magnifiche sorti e progressive che attenderebbero il turismo per il nostro Paese.

La composizione dei turisti (dati Istat) per provenienza fotografa inoltre come buona parte dei turisti in Italia sia costituita da cittadini europei (un’utile riflessione per i detrattori della moneta unica) ma allo stesso tempo evidenzia la potenzialità costituita da Paesi quali Cina il cui numero di turisti sta rapidamente aumentando, grazie alla crescita delle economie domestiche.

I principali 15 mercati di provenienza (in ordine decrescente di arrivi 2015)

 

2015

Variazioni % 2014/2015

Quota % su totale 2015

Rank

Paesi

Arrivi

Presenze

Arrivi

Presenze

Arrivi

Presenze

1

Germania

10.858.540

53.294967

3,1

1,4

20,4

28,1

2

Stati Uniti

4.531.141

11.657.085

-4,2

-3,1

9,2

6,4

3

Francia

4.331.623

13.010.397

11,0

9,5

7,6

6,4

4

Cina

3.338.040

5.378.298

45,3

54,5

4,4

1,9

5

Regno Unito

3.316.921

12.482.716

6,7

5,2

6,0

6,4

6

Svizzera

2.691.106

10.046.878

12,0

7,8

4,7

5,0

7

Austria

2.320.615

8.807.043

4,9

2,2

4,3

4,6

8

Paesi Bassi

1.941.555

10.218.449

1,4

-3,1

3,7

5,6

9

Spagna

1.779.258

4.582.106

3,9

-3,1

3,3

2,5

10

Polonia

1.203.526

4.688.076

8,9

8,5

2,1

2,3

11

Russia

1.194.656

4.417.359

-33,1

-35,2

3,5

3,7

12

Belgio

1.177.933

4.749.500

5,3

1,4

2,2

2,5

13

Giappone

1.109.491

2.303.854

-15,3

-10,7

2,5

1,4

14

Australia

906.224

2.428.671

4,6

7,5

1,7

1,2

15

Brasile

872.736

2.196.001

14,4

16,9

1,5

1,0

Fonte: Istat

In questo contesto di chiaroscuri (crescita del turismo mondiale, ma nostra difficoltà nel coglierne le opportunità) sono numerosi i motivi che possono spiegare il ritardo italiano, e sarebbe troppo impegnativo volerli citare tutti.

Tra i più citati vi è la mancanza di infrastrutture.

Si tratta certamente di un deficit che rallenta tanti settori, ma nel caso del turismo, una delle risposta che si è voluta dare, ovvero la moltiplicazione di aeroporti a livello provinciale- con fisiologici conti in profondo rosso e mantenuti in vita solo grazie ai generosi contributi dei soci pubblici- ha dimostrato la profonda ignoranza dei fondamentali del turismo e una inversamente proporzionale conoscenza della gestione dei rapporti politici locali.

Rapporti che vedono come attori una pluralità di soggetti che si occupano di promozione turistica. E questa pluralità costituisce un altro minus del nostro sistema. Facciamone un elenco (certamente non esaustivo):

  • Ministero del Turismo

  • Regione

  • Provincia (o città metropolitane)

  • Camera di Commercio

  • Coldiretti

  • Federalberghi

  • Confesercenti

  • Ascom

  • Unione Agricoltori

  • Università

  • Aziende agrituristiche e relative associazioni

  • Sistemi museali

  • Comunità Montane

  • Associazioni e Consorzi per la promozione di prodotti tipici del territorio

  • Associazione Albergatori

  • Aziende agroalimentari e vinicole

  • e via elencando…

Una moltitudine di soggetti il cui effetto è un cacofonico insieme di iniziative ed eventi spesso non in grado di andare oltre i confini del territorio in cui nascono, senza raggiungere alcun target di potenziali turisti.

Ma se questa è una (opinabilissima e rapidissima) diagnosi, quale potrebbe essere la cura?

Una cura disruptive che abbia il coraggio di cambiare l’approccio al mercato, sia sul lato degli attori, che delle strategie che dovranno essere centrate sul nuovo concetto di turista/ospite.

Iniziamo dall’abolizione del Ministero dei Beni Artistici e Culturali e del Turismo. Che il turismo debba essere abbinato alla tutela dei beni culturali rappresenta una visione limitata, vecchia del turismo. Il turismo non è solo beni culturali; è turismo d’affari, è turismo d’eventi, è turismo enogastronomico ecc.

Serve un nuovo attore, più snello che funga da playmaker nel settore, da facilitatore di connessioni tra gli altri attori in campo, allocando risorse laddove si sappiano costruire network tra enti pubblici e soggetti privati, con la stessa logica che ha dimostrato l’efficacia, in ambito industriale, dei distretti.

Al nostro Paese non servono nuovi loghi o portali turistici il cui unico effetto è arricchire le agenzie che li studiano e progettano, ma che non hanno la forza di divenire brand o raggiungere i clienti finali.

E’ invece necessario prendere atto che la disintermediazione messa in atto dai consumatori alla ricerca del prodotto turistico (pensiamo all’incredibile sviluppo dell’e-commerce in tale ambito) ha cambiato del tutto il paradigma del settore.

Nell’era di Netflix è sempre più il consumatore a costruirsi il proprio palinsesto esperienziale, pertanto perdono di efficacia i pacchetti prefabbricati, mentre diventa fondamentale presidiare tutti i touchpoint che compongono la shopping journey del turista.

L’Italia all’estero non è rappresentata tanto da un buon catalogo turistico, quanto dai propri prodotti (da qui la centralità della tutela del madeinitaly), e da touchpoint esperienziali che possono essere una mostra di pittura, piuttosto che la sede di Eataly a NewYork…

Allo stesso modo deve essere centrale la figura del turista/ospite.

I dati che seguono (elaborazione Enit sui dati della Banca d’Italia) dimostrano che la spesa media giornaliera dei turisti in Italia è superiore a quella degli altri Paesi europei, che invece inseguiamo in termini di traffico.

turismo

Insomma, dobbiamo aumentare il volume dei turisti non certo la nostra capacità di spremerli…

Per questo è fondamentale integrare nelle politiche turistiche un moderno approccio di customer relationship management, che parta innanzi tutto da una conoscenza di chi sia il turista, mettendo a comun denominatore i diversi database e agevolando la condivisione dei dati.

Una volta definitone il profilo, altro obiettivo dovrà essere quello di massimizzare la qualità della journey experience, costruendo metriche che ne misurino la soddisfazione in base a parametri qualitativi e quantitativi.

Poco sopra ho parlato di turista/ospite, non di turista/cliente. Quella che a prima vista potrebbe sembrare un banale distinguo lessicale, nasconde invece una profonda differenza.

Il concetto di ospite prevede un rapporto paritario tra chi ospita e chi viene ospitato.

L’obiettivo primario in questo contesto deve essere quello della retention per mantenere e rafforzare la base di turisti/ospiti, massimizzandone la soddisfazione così che possano essere a loro volta i migliori sponsor dell’Italia una volta rientrati nei propri Paesi.

Mentre sul lato dell’acquisition le risorse devono essere investite per fare in modo di presidiare in modo coerente ed efficace tutti i touchpoint, come sopra accennato.

Come detto non ho certamente toccato tutti i punti critici della nostra attuale offerta turistica, ma il mio obiettivo (forse fin troppo ambizioso) era solo quello di attivare una riflessione su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

E’ certamente più difficile il nuovo contesto del turismo, ma ritirarsi dalla sfida sarebbe il modo migliore per perdere l’ennesima grande opportunità per un Paese, il nostro, alla ricerca del proprio futuro e che dovrebbe trovare la forza di guardare con meno nostalgia e compiacenza al proprio passato, concentrando forze ed energie sulle sfide dell’oggi e del domani.

@danielecazzani

NOTA FINALE

Parte di questo articolo nasce dalla rilettura di un mio progetto del 2013 sottoposto all’allora Presidente della Camera di Commercio di Pavia, e rimasto inerte in qualche cassetto, mentre una commissione istituita ad hoc studiava le migliori azioni da intraprendere per sfruttare il volano di Expo2015 per lo sviluppo del turismo in una delle province (da questo punto di vista) più arretrate del Nord Italia. E’ inutile dire che Expo2015 è passato e di quelle azioni non se ne è avuta notizia…

#bigdata, #bigfoot e… #bigbubble. La conoscenza del cliente nel #loyalty #retail

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In tanti dicono di averli visti, ma in pochi nella realtà ne saprebbero documentare la reale conoscenza…

Il destino del bigfoot sembra stranamente assomigliare a quello dei bigdata, di cui si parla molto- soprattutto in convegni, ricerche e workshop- e nel quale la maggior parte delle aziende retail giura di credere. E di investire sempre di più come testimoniano ricerche recenti (vedi http://www.techweekeurope.it/data-storage/forrester-crescono-gli-investimenti-in-big-data-98697), pur rappresentando ancora una quota minima degli investimenti IT.

Prima però di vedere quanto viene investito in questa “nuova frontiera”, la domanda da porsi è perché lo si faccia, o meglio ancora, quali siano gli obiettivi che attraverso i bigdata si possano conseguire.

E’ infatti piuttosto evidente che l’interconnessione tra diversi sistemi attraverso i quali transitano i dati delle transazioni e dei profili dei clienti, unita alla multicanalità del consumatore, siano dei fantastici generatori di dati, di fronte alla cui mole però la reazione può essere paradossalmente di stallo.

Partiamo da due (mai troppo banali) considerazioni preliminari:

  1. la conoscenza del Cliente è un patrimonio inestimabile per il Retail

  2. la carta fedeltà è lo strumento centrale della strategia di relazione e conoscenza col Cliente

Se la prima asserzione troverebbe tutti d’accordo, nella realtà dobbiamo registrare come in tanti casi la situazione sia ancora ferma, con retailer che dimostrano di considerare il cliente un unico soggetto, senza attività specifiche per distinti target; e senza che le analisi dei comportamenti d’acquisto (o non acquisto) incidano sulle scelte commerciali, promozionali, di assortimento ecc.

Lo testimoniano i grandi investimenti in campagne promozionali e media mass market, e l’ancora ridotto peso degli investimenti nel CRM.

La carta fedeltà, a sua volta, è ancora troppo spesso un’appendice delle strategie aziendali: un qualcosa che si deve avere in una short list degli strumenti di marketing da spuntare, ma della cui reale utilità molti paiono dubitare…

Quello che manca è talvolta la consapevolezza che alla base di un programma loyalty vi deve essere un semplice patto col Cliente, un sorta di moderno do ut des. Il Cliente permette di analizzare il proprio comportamento d’acquisto se in cambio di questa analisi, il retailer si dimostra in grado di offrire una migliore esperienza d’acquisto fatta ad esempio di promozioni più efficaci e servizi dedicati.

Altrimenti il rapporto risulta sbilanciato e, nell’epoca del prosumerismo, i clienti non sono più disposti a premiare chi li consideri dei semplici numeri.

La conoscenza del cliente può aiutare i retailer nella definizione delle proprie strategie e soprattutto nello sviluppo dei propri programmi loyalty, ma affinché ciò avvenga sono necessari tre elementi:

  • una chiara definizione degli obiettivi. Navigare nel mare magnum dei dati può essere oltremodo faticoso e oneroso, se non si hanno chiari quali siano i dati rilevanti per il proprio business…

  • la costruzione di metriche/kpi’s che permettano di misurare le perfomances delle diverse attività. Bisogna andare oltre le valutazioni manageriali di pancia e avere il coraggio di leggere e analizzare dati, anche quando, come uno specchio di mattina, non ci restituiscono l’immagine dei nostri sogni…

  • la condivisione di una cultura aziendale del dato e della loyalty che parta dal CEO e arrivi fino a tutto il personale del negozio. Senza il supporto delle persone, nessuna infrastruttura IT può essere in grado di dare vita a un efficace programma di loyalty.

E tutto questo senza più confini tra negozio fisico, piattaforme social, sito di e-commerce.

Sono confidente che questi e altri temi emergeranno venerdì 21 a Parma nel corso dell’annuale convegno dell’Osservatorio Fedeltà promosso dall’Università di Parma (www.osservatoriofedelta.it) perché la sfida è cruciale per disegnare il futuro del loyalty management: evitare che i bigdata si trasformino nell’ennesima… bigbubble senza cioè mai trasformarsi in driver dei processi manageriali, è l’ambizioso obiettivo che, prima ancora dei propri fornitori di soluzioni IT, i retailer più avveduti oggi si devono dare.

@danielecazzani

Il futuro del #retail tra #disruption #ecommerce e antichi mestieri #retail2016

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Anche quest’anno il Consumer & Retail Summit organizzato da GDOWeek, MarkUp e IlSole24Ore è stato l’occasione per fare il punto sullo stato di salute del retail e parlare delle opportunità e delle sfide dell’oggi e del futuro.

Il contesto non positivo dei consumi certamente descrive una situazione non facile, ma che nel contempo registra importanti novità, come la crescita dell’ecommerce, che non possono che spingere il retail verso l’innovazione.

Nonostante vi sia chi pensa ancora che lo sviluppo delle reti sia la strada per lo sviluppo dei fatturati, è parsa sempre più condivisa la consapevolezza che sarebbe illusorio attendersi la ripresa dei consumi senza fare nulla; è invece prioritario innovare format, servizi e strategie per rispondere a un consumatore che a sua volta ha innovato il proprio stile di consumo e che si dimostra sempre più selettivo (e meno fedele).

La crescita dell’e-commerce appare ancora per molti una terribile minaccia, anziché una splendida opportunità: questa visione di Amazon come spettro che si aggira per …il retail appare sinceramente eccessiva, frutto più di paranoia piuttosto che di un’analisi dei numeri.

Tale reazione è spesso il sintomo di una visione ancora dicotomica del retail tra online e offline che porta tanti retailers a vedere nel click & collect un buon compromesso anziché solo come uno dei tanti touchpoint col cliente.

Ma non è tempo per manicheismi: il retail invece deve essere uno, perché questo è ciò che sia attende il cliente. Un cliente multichannel che è più difficile da conquistare e da fidelizzare, ma è questa, lo si voglia o meno, la sfida che attende il retail.

Ciò che serve è un approccio disruptive (con un briciolo di pazzia per citare Mario Gasbarrino, AD di Unes/U2) che sappia ripensare processi, strategie, organizzazioni. Ma l’innovazione che serve non è un adattamento del “famolo strano” di verdolina memoria: il cliente non chiede novità fini a se stesse– la GDO negli ultimi anni ne ha già proposte molte spesso naufragate- né vuole essere stupito da effetti speciali; cerca piuttosto servizi reali e una semplice, reale attenzione alle proprie esigenze.

Essere disruptive vuole dire anche rimettere le Persona al centro delle strategie del retail, riscoprendo mestieri e saperi. Lo sviluppo delle competenze delle risorse che  lavorano nel retail- come ha raccontato Crai- è una strada forse faticosa ma necessaria per dare valore ai negozi fisici, dove la relazione tra personale e cliente deve diventare il valore aggiunto.

In conclusione sono tante le sfide che attendono il retail, ma solo il prossimo Summit ci dirà se i buoni propositi si sono trasformati in buone strategie…

@danielecazzani