#MDD: UN VOLANO PER LE ECCELLENZE #AGROALIMENTARI DEL #MADEINITALY

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L’Italia da anni si conferma come il Paese europeo col maggior numero di prodotti certificati DOP, DOC e SGT, arrivati alla ragguardevole cifra di 814. Questo dato conferma la ricchezza e la pluralità della nostra produzione agroalimentare che è parte importante dell’export madeinitaly nel mondo- con una quota del 21% sulle esportazioni agroalimentari- che continua a segnare importanti tassi di crescita (poco meno del 10% nell’ultimo anno) come evidenziato dall’ultimo rapporto Ismea Qualivita (www.qualivita.it)

L’importanza di queste produzioni si conferma anche sulla tavola degli italiani che dimostrano di apprezzare i prodotti certificati, con una leggera crescita dei consumi che va comunque integrata in un contesto di mercato di generale compressione degli acquisti food.

Se quel che serve per migliorare ancora l’export- ricordiamoci infatti che pur potendo vantare cifre in crescita l’export food & wine tricolore è di gran lunga inferiore ai risultati della Germania, il che è tutto dire…- è la capacità di fare sistema e promozione all’estero, attivando efficaci canali retail (non dimenticandoci che anche l’e-commerce potrà aiutare questa crescita), sul fronte interno certamente vi sono ampi margini di manovra per quanto concerne la comunicazione e il marketing di questi prodotti.

Di per sé le sigle DOP, DOC e SGT si basano su disciplinari di produzione alquanto rigidi e importanti, con rigorose filiere di controllo, ma di tutto questo, spesso, ben poco arriva al consumatore.

E’ come se questi prodotti- e chi li distribuisce- si accontentasse di dire al consumatore “accontentati del marchio, al resto abbiamo già pensato noi”.

Credo invece che viviamo un’epoca in cui il consumatore/cliente pretende (e premia) la trasparenza, l’apertura, il racconto.

Ma questo aspetto spesso si scontra con la pulviscolare realtà dei produttori– fatta di piccole realtà che non hanno forza di entrare in contatto col consumatore- e con consorzi di tutela spesso bravi nella gestione della filiera interna, ma poco aperti ed efficaci verso l’esterno, verso il consumatore (penso ad alcune imbarazzanti pubblicità del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano, due autentici monstre del nostro panorama agroalimentare, che in trenta secondi con scelte comunicative quanto meno discutibili hanno banalizzato secoli di storia…).

In questo contesto ritengo che la Distribuzione possa svolgere un ruolo importante per lo sviluppo del mercato interno, attraverso la leva dei propri prodotti mdd.

I dati recentemente diffusi a Marca, hanno infatti evidenziato una crescita dei prodotti premium, all’interno dei quali un ruolo importante lo giocano- oltre ai prodotti bio e ai nuovi prodotti “con” e “senza”- i prodotti certificati.

Per questo motivo sono confidente che la Distribuzione attraverso il volano dei propri prodotti a marchio possa ancora di più avvicinare il consumatore/cliente ai prodotti DOP, DOC e SGT, presentandoli, valorizzandoli, promozionandoli e raccontandoli non uno per uno, ma all’interno di una strategia più ampia che sia in grado di valorizzarne l’effetto corale dell’offerta, non il singolo attore/prodotto.

Il brand MDD diverrebbe così l’ombrello sotto il quale ricomprendere una serie di prodotti di per sé unbranded, conferendo loro identità e riconoscibilità. La “firma” del distributore diverrebbe inoltre un ulteriore elemento di garanzia agli occhi del consumatore/cliente.

Nel contempo la Distribuzione dovrebbe, potrebbe, aiutare i consorzi a scendere dallo scranno per andare verso il consumatore/cliente aprendo le porte dei produttori, facendo conoscere cosa si cela dietro un marchio, anche sorpassando la retorica fine a se stessa del madeinitaly (cosa ne sarebbe ad esempio del nostro latte madeinitaly senza la forte presenza di comunità sikh nella pianura padana?) in uno sforzo di trasparenza certamente non facile, ma oggi quantomai necessario.

Infine, lo sviluppo del prodotti certificati significa anche sviluppo dei territori e tutela delle competenze, delle storie e delle professionalità che sono alla base di quelle eccellenze che siamo tutti bravi a lodare ma di cui spesso ignoriamo le basi.

Una motivazione in più per quella parte della Distribuzione che senta l’appartenenza ai territori come elemento fondante del suo essere azienda sociale.

Si tratta a mio avviso di una sfida importante per tutto il nostro Paese e in particolare per la ricca filiera agroalimentare di qualità, che parte della Distribuzione ha già saputo cogliere (penso a IlViaggiatorGoloso di Unes U2 e a Sapori&Dintorni di Conad) e che, ne sono certo, saprà premiare chi avrà il coraggio di affrontarla.

@danielecazzani

Il mercato dei #media e della #pubblicità (tra #Sanremo, #giornali e #web)

La crescita del mercato pubblicitario registrata da Nielsen (vedere grafico sotto riportato) è un segno che va accolto con positività perché può contribuire a sostenere i consumi ed è indice di una ripresa di fiducia (perlomeno da parte degli inserzionisti).

Ma più che sul numero macro mi interessa porre l’attenzione sul peso dei diversi media.

In primis non si può non sottolineare che, per quanto data come sulla via del tramonto da anni, la cara vecchia TV continui ad essere il media pubblicitario per eccellenza con un peso superiore al 60%.

A ben guardare questo dato è spiegabile col fatto che non si tratta più (o solo) della “cara vecchia TV”: infatti l’offerta è aumentata tra canali digitali terrestri, satellitari, on demand e web. Un’offerta più ricca di canali e contenuti in grado di segmentare ancora meglio i target e offrire così all’Industria e alle agenzie pubblicitarie nuove opportunità.

Queste ultime paiono però in crisi di identità: forse a causa del deserto che hanno attraversato negli ultimi anni- con ristrutturazioni e fusioni che spesso hanno disperso know how, idee e talenti- mi sento di dire che la qualità media degli spot TV sia diminuita. Le campagne memorabili si contano sulle dita di una mano e l’utilizzo di vecchie meccaniche (pensiamo al frequente e indiscriminato ricorso al testimonial/endorser) dimostra pigrizia e scarsa voglia di rischiare e innovare linguaggi (anche da parte dei clienti a onore del vero).

Sull’altro versante il digital, per anni osannato come il media del futuro, arranca. In questo caso il mito della misurabilità e le accresciute possibilità tecniche hanno finito per offuscare idee e capacità progettuali facendo sì che molti utilizzassero il web e il social (soprattutto nel mobile) come una nuova TV dimostrando così di non avere colto le peculiarità dei nuovi media.

Infine la carta stampata: un residuo ottocentesco nel mondo dei media per organizzazione dell’offerta e capacità di innovarsi. Un moloc autoreferenziale sulla via del tramonto (anche per lettori) e qualitativamente sempre peggiore (avete presenti certe campagne di adv con scatti di prestigiosi fotografi, letteralmente umiliate da una qualità di stampa imbarazzante?) che si è spesso buttato sul web con la stessa convinzione di un uomo che bevendo voglia dimenticare la realtà. Il risultato è quello di una risveglio doloroso e coi conti in rosso…

La radio resiste e continua a raccogliere consenso per la capacità di parlare in modo agile con diversi target e a costi tutto sommato contenuti.

Non ci resta che attendere i prossimi dati ma non vi sono elementi che facciano ipotizzare sconvolgimenti in queste classifiche.

Dopo tutto questa è la settima del Festival  di Sanremo- il Superbowl nostrano come amo definirlo- che fa fermare le macchine a tutti gli altri canali TV e raccoglie pubblicità come il vecchio Carosello. Quale esempio migliore per dimostrare che in realtà nel mercato pubblicitario tutto cambia affinché nulla cambi?
@danielecazzani

LA PROMESSA SMARRITA DELLA #LOYALTY E L’INSEGNAMENTO DELLA GOLCONDA DI #MAGRITTE PER UN NUOVO #CRM

Quanti retailer sono veramente interessati a conoscere il proprio cliente? E quanti tra questi possono dire di conoscerlo veramente? All’apparenza si tratta di due domande molto semplici ma che nascondono pericolose insidie.

Andiamo però con ordine.

Per quanto la conoscenza del proprio cliente dovrebbe costituire un patrimonio fondamentale per il retail, spesso l’enorme mole di dati sui cui questi letteralmente siedono non è divenuta patrimonio comune e non è riuscita a influenzare le scelte strategiche, di posizionamento e commerciali degli stessi.

Ecco perché parlo di promessa smarrita, o peggio ancora persa; perché non valorizzando quella conoscenza il retailer hanno di fatto rinunciato a dialogare coi propri clienti.

Nascono così progetti loyalty che iniziano e finiscono in un pezzo di plastica, frettolosamente consegnatoci alla cassa e di cui spesso ignoriamo i vantaggi. Oppure programmi loyalty fotocopia l’uno dell’altro- con le medesime meccaniche di accumulo e conversione punti ad esempio- mere cornici per collection o cataloghi sempre più poveri e stanchi.

E pensare che la possibilità che il cliente concede al retailer di accedere ai propri dati e transazioni si dovrebbe basare su un patto semplice e chiaro, un moderno do ut des: il cliente acconsente alla lettura dei propri dati per ricevere in cambio valore, servizi, vantaggi. Invece questa promessa viene spesso, troppo spesso, non rispettata (e non certo da parte del cliente, che spesso inconsapevolmente, fornisce al retail una serie impressionante di dati su di sé e le proprie abitudini di consumo).

Per questo sono convinto che il retail debba ridisegnare il rapporto col proprio cliente. Col singolo cliente. Partendo da Magritte e da uno dei suoi quadri più famosi: Golconda

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Osserviamo il dipinto. In apparenza una pioggia di uomini identici l’uno all’altro. Ciascuno vestito nel medesimo modo, con la classica bombetta. Tutti uguali proprio come i clienti si potrebbe dire. Eppure…

Eppure, tutti quegli uomini sono diversi: ciascuno si trova in una posizione diversa, chi rivolto verso di noi chi no, e in una diversa relazione spaziale rispetto agli altri. Attenzione quindi a considerare tutti i clienti uguali!

La sfida per il retail è avvincente. Portare a valore i dati quantitativi (generati dalle transazioni di acquisto) e arricchirli con dati qualitativi che possano misurare, ad esempio, la shopping experience dei clienti, o ancora la loro capacità di divenire ambassador per il propri prodotti o servizi, piuttosto che l’interazione col brand sul web e i social e via dicendo.

Quando parliamo di trasformare in quantitativi elementi qualitativi in molti penseranno al  famoso Net Promoter Score. Ma, aggiungo provocatoriamente, una nota: se ci ricordiamo che questo indice nasce negli anni Settanta è evidente che sia molta la strada da fare per arrivare a costruire nuove metriche per il nuovo cliente/consumatore omnichannel.

Per fare questo percorso non esistono kit pronti all’uso.

Ciascun retailer deve essere capace di costruire dei propri strumenti perché il proprio cliente è unico, così come lo è quella relazione che un moderno CRM e una Loyalty finalmente al centro delle strategie aziendali, potranno costruire e rafforzare.

@danielecazzani