Dinosauri, scarafaggi e… brutti anatroccoli. Il futuro delle agenzie pubblicitarie (e del retail).

È indubbio che il panorama del mercato pubblicitario si sia fortemente modificato negli ultimi anni, principalmente per l’avanzata dell’ADVERTISING DIGITALE e l’ingresso di nuovi e “anomali” PLAYERS quali Facebook, Google piuttosto che nuovi STRUMENTI di pianificazione e gestione delle campagne.

Di fronte a quello che in molti commentatori- spesso soliti alle esagerazioni- hanno descritto come un “cataclisma epocale” (quasi il concetto di evoluzione non dovesse appartenere ai mercati…) la reazione delle grandi agenzie pubblicitarie- WPP, Omnicom, Publicis ecc- dopo un iniziale RIGETTO e rifiuto del nuovo, si è concretizzato in un grande processo di consolidamento caratterizzato da fusioni e acquisizioni, che ha potuto beneficiare di una forte crescita del settore (grazie allo sviluppo di nuovi mercati) che in qualche modo ha ridotto lo shock evolutivo.

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Ottimizzare i costi fissi, INTEGRARE in strutture con l’allure nostalgica da “mad men” l’energia di giovani START-UP e il know how di piccole e dinamiche agenzie, è stata una risposta efficace nel breve periodo che ha permesso alle grandi di schivare il destino da “media DINOSAURI” e confermarsi ancora una volta come resistenti “SCARAFAGGI”, in grado di sopravvivere alle più nefaste previsioni [vedere nota in calce all’articolo]

Le nuove tecnologie e i nuovi media hanno cambiato i paradigmi del settore (e in parte i suoi attori) ma il ruolo della pubblicità resta da sempre lo stesso: CONNETTERE brand e consumatori attraverso un racconto, un bridge valoriale e di contenuti.

Pensiamo ai grandi brand che si sono affermati negli ultimi anni. Amazon, Google, Netflix devono il loro successo certamente a molti fattori, tra i quali però la pubblicità (classicamente intesa) non riveste certo il ruolo principale…

Le grandi multinazionali hanno ottimizzato i BUDGET pubblicitari e in parte portato al proprio interno alcune delle funzioni prima svolte dalle agenzie, quali ad esempio il media buying.

Se WPP e le altre big non capiranno come il sistema sia ben lungi dall’essersi assestato illudendosi di essere al riparo dalla tempesta è allora probabile che i prossimi anni siano segnati ancora da nuove delusioni.

Per le grandi agenzie la priorità è rendere più rapide e SMART le proprie strutture (snellendo organigrammi di accounting spesso paragonabili a BUROCRAZIE ministeriali) e soprattutto riscoprire e imparare a lavorare non più con comodi e sontuosi FEE (che potremmo dire hanno spesso lo stesso effetto dei matrimoni sulla passione…) ma per PROGETTI (con revenue variabili in base ai risultati, ancora oggi quasi una blasfemia il solo pensarlo…) e tornando a investire tempo e risorse per CAPIRE davvero il prodotto e la brand strategy del Cliente. Si eviterebbero così le tante pubblicità “copia e incolla” che infestano i media…

D’altro canto le aziende hanno l’opportunità di riprendersi il destino dei propri brand senza confidare in salvifici ruoli di agenzie in grado di trasformare un BRUTTO ANATROCCOLO (un prodotto senza “quid” e mercato per intenderci) in un successo.

Per intraprendere con ancora più convinzione questa strada le aziende hanno però la necessità di costruire al proprio interno nuove professionalità in grado di dialogare efficacemente con le agenzie pubblicitarie- senza sindromi da “sudditanza psicologica” verso art director, copywriter & c.- e (penso qui in primi alle aziende RETAIL) attingendo a quell’incredibile PATRIMONIO di informazioni che è dato dal proprio CUSTOMER DATABASE e lavorando in stretta sinergia con un moderno CRM.

Un grande CHALLENGE per tutti!

@danielecazzani

NOTA FINALE

La citazione su dinosauri e scarafaggi prende spunto da una frase attribuita a Rishad Tobaccowala (Chief Growth Officer di Publcis) e ripresa un un recente articolo dell’Economist:

“Everybody says that we’re dinosaurs but we’re not. We’re cockroaches. We know how to scurry around, we hide out in the corner, we figure out where the food is, we reconstitute ourselves.”

#LOYALTY GENERATION GAP

DI SEGUITO L’EXTENDED VERSION DEL MIO ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI MARZO 2018 DI MARKUP.

Baby boomers, generazione x, millennials, generazione z… Non v’è dubbio alcuno che sempre più il concetto di generazione risulti essere importante nelle strategie del moderno retail.

L’attenzione ai millennials e alla- ancora più giovane- generazione z è testimoniata da ricerche, convegni e studi che però spesso sembrano sottacere il fatto che proprio queste giovani generazioni, da tanti retailer viste come nuova terra di conquista, in realtà sono caratterizzate da un basso indice di fedeltà ai brand e, soprattutto, da un basso potere di spesa.

Non che vi sia nulla di cui stupirsi: pensando al panorama italiano, basta considerare come queste generazioni siano in realtà composte da giovani spesso disoccupati, o con contratti a tempo determinato o stage- cui sono correlati bassi livelli salariali- e che vivono in molti casi coi propri genitori fin oltre i trent’anni.

Potere di spesa a parte, certamente l’entrata nel mercato di queste generazioni- avvezze fin da subito ai nuovi digital device- ha avuto un impatto anche sui media utilizzati dai retailer, visto che la tv (almeno quella tradizionale) diventa sempre meno importante nella dieta mediatica quotidiana dei giovani, a favore del web e del social, arene nelle quali infatti tanti retailer si sono forzosamente e spesso affannosamente gettati.

E’ inoltre importante non cadere in facili stereotipi, come quello che abbina nuove generazioni ed e-commerce.

Come dimostra infatti una recente ricerca svolta da Accenture nel mercato USA i giovani consumatori nati dopo il 2000 (la generazione z di cui sopra) preferiscono effettuare acquisti negli store brick & mortar, non via e-commerce, pur pretendendo di trovare i retailer presenti anche sul web o nei social, con un coerente approccio multicanale.

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Se cerchiamo però di valutare l’impatto del nuovo composit generazionale sui programmi loyalty, dobbiamo prendere atto di come si siano registrate minime innovazioni su questo fronte negli ultimi anni.

Come se i retailer, su altri fronti pronti a rivedere assortimenti, politiche promozionali e piani media, sul lato della loyalty avessero immaginato che tutto potesse rimanere com’era.

Purtroppo non è così.

Millennials e generazione z sono, come clienti, ben diversi dalla precedente generazione x o ancor più dai baby boomers. Non parlo ovviamente di gusti o preferenze per questo o quel prodotto, ma di approccio al consumo e di orizzonti temporali.

Le precedenti generazioni- mi si permetta di semplificare qui alcuni insight tratti da diverse ricerche sociologiche (lettura sempre da consigliare al retail)- vedevano nel prodotto un fine (l’attestazione del raggiungimento di un traguardo) e l’orizzonte temporale delle proprie scelte era quello medio-lungo, quello per intenderci del piano di risparmio per l’acquisto della casa e l’accensione del mutuo o della lunga carriera (fata di tanti, solidi, gradini) all’interno di un’organizzazione aziendale e sociale.

Millennials e generazione z vivono l’oggi, e per essi il prodotto è elemento di un’esperienza non un obiettivo in quanto tale.

La loro infedeltà (al brand, ma anche al posto di lavoro, come lamentano tanti forum di hr manager) nasce da questo nuovo approccio culturale al consumo, non da altro.

Inoltre millennials e generazione z sono caratterizzati da un maggiore individualismo (che si apre agli altri nel momento della condivisione ex post di una propria esperienza), rispetto alla precedenti generazioni che condividevano un più ampio paniere di ideali (spesso contrapponendosi gli uni agli altri proprio in funzione di questi) e di obiettivi sociali e di vita (il matrimonio, la casa e il lavoro erano il trittico di questo “altare culturale”).

Per citare Bauman, sono la generazione della connettività, non della collettività.

Certo, l’età non dice tutto dei propri clienti, né è pensabile che si possa costruire una strategia di loyalty basata solo su questo parametro, ma un moderno retail deve prendere atto che, oggi più che ieri, è necessario tenerne conto anche in ambito loyalty e, in tal senso, ripensarsi e reinventarsi.

Non solo nei contenuti (come premi meno “cose” e più “esperienze” o “cose che abilitano esperienze”), nelle meccaniche (la formula “1 euro uguale 1 punto” è equazione della banalità, quando invece si potrebbero considerare numerosi altri comportamenti del cliente) e nei tempi (chiedere a un giovane di programmare acquisti per molti mesi per arrivare all’obiettivo è chiedere quasi un comportamento contro-natura).

Ad esempio, in relazione a quest’ultimo parametro il programma Vodafone Happy, che ogni venerdì premia i propri iscritti con un “regalo”, dimostra di avere ben compreso questa nuovo approccio.

Soprattutto per non perdere appeal verso le nuove generazioni- senza dimenticare con questo le precedenti- i programmi loyalty potrebbero essere strutturati non più come rigidi palinsesti, ma in modo flessibile, permettendo ai singoli clienti (quindi anche alle nuove generazioni) di costruire un proprio programma, sulla falsariga di quanto è successo con l’arrivo di Netflix nel mondo televisivo.

Non si tratta certamente di un cambiamento facile, ma siamo certi che vi sia un’altra strada e che i programmi loyalty possano continuare a ignorare la realtà?

@danielecazzani