IL RETAIL E IL SACRO GRAAL (L’ENNESIMO) DELLA GENERAZIONE Z

Ipsilon, Millennials, Zeta, Alpha… Alzi la mano chi di fronte al fiorire dei nomi delle nuove generazioni non avverte spesso una sensazione di spaesamento.

Soprattutto in questi ultimi anni il retail si è concentrato sulle ultime arrivate di questa lunga (infinita) lista, nel tentativo di diventarne interlocutore e conquistarne fiducia e portafoglio.

Gli studi sociologici su queste ultime generazioni per comprendere quali siano ne siano le caratteristiche valoriali e di approccio al consumo si sprecano. Oltre alla scontata dimestichezza con tutto ciò che è digitale– il sottoscritto, invece, può ancora ricordarsi lo stupore nel giocare a Space Invaders con la prima consolle Atari 2600- gli studi raccontano di come siano molto attenti alla sostenibilità sociale e ambientale, alle esperienze da condividere più che ai consumi da ostentare e naturalmente… social.

Il fatto che si tratti di generazioni con un minore potere d’acquisto- molti sono infatti ancora studenti e dipendenti dalle famiglie- sembra interessare poco il retail che negli anni ha moltiplicato i touchpoints per prendere all’amo questi consumatori e vendere loro qualcosa, trascurando forse troppo la loro ricerca di ascolto e dialogo che i sociologi invece non mancano mai di sottolineare.

Anche in questo caso il retail ha dimostrato spesso di muoversi in base a un riflesso condizionato più tattico che strategico: come nel caso dell’adozione delle nuove tecnologie (quanti siti di e-commerce abbiamo visto nascere senza considerarne i connessi aspetti logistici!?) anche alla parola d’ordine “la generazione z deve essere nostra!” abbiamo registrato una fioritura di iniziative approssimative con brand dalla secolare tradizione tentare goffe e poco credibili virate verso linguaggi e marketing da startupper.

In tutto questo affaccendarsi il retail rischia spesso di perdere di vista uno dei tasselli fondamentali di qualsiasi strategia di marketing che è la definizione del proprio target.  Pensiamo ad esempio alla GDO, per cui la demografia dovrebbe contare davvero poco: nelle corsie di un supermercato si vedono giovani studenti e coppie di anziani, così come single o famiglie con bimbi al seguito. Insomma uno spaccato della nostra società.

Immaginare di parlare solo a una porzione di quei clienti può essere pericoloso così come illudersi che basti personalizzare il linguaggio (anziché il messaggio) in base all’età del cliente: il rischio, in quel caso, sarebbe una cacofonia di difficile interpretazione.

Inoltre dobbiamo considerare come anche le ricerche che prima citavo siano spesso riassunte in fotografie alquanto semplicistiche delle diverse generazioni.

Scorrendo questi riassunti scopriremmo ad esempio come i baby boomers risultino essere persone affezionate ai brand, con reddito medio alto, salvo poi riflettere sul fatto che buona parte sono oggi pensionati (con limitata capacità di spesa)…

Personalmente credo che il retail dovrebbe fare proprio l’approccio di Amartya Sen che (nel suo famoso saggio “Identità e violenza” dall’ancora più profetico sottotitolo “L’illusione del destino”) metteva in guardia dall’applicare semplicistiche etichette a una persona (o a una generazione, nel nostro caso).

Il lockdown ad esempio ha portato a una (forzosa) digitalizzazione anche dei baby boomers che non hanno impiegato molto a trovarsi a loro agio negli spazi dell’e-commerce: anzi, recenti analisi, dicono proprio che una quota importante della crescita dell’online sia imputabile a questi nuovi adopters. In pratica la loro fotografia si è rapidamente modificata.

In conclusione, il retail, questo è il mio modesto suggerimento, dovrebbe capire quanto sia sbagliato concentrarsi solo su una generazione (solitamente l’ultima) o credere ciecamente alle etichette sociologiche: fare retail significa parlare col singolo cliente non con una “generation” quale che sia.

@danielecazzani

DAL NUMERO 305 DI MARK-UP

IL VALORE DELL’EMPATIA E IL CENTRO DI GRAVITA’ PERMANENTE DEL RETAIL

MIO ARTICOLO DA MARK-UP N.304

Il 2020 ha registrato una crescita impetuosa dell’e-commerce soprattutto nei prodotti (anche grocery). Questa crescita- certamente accelerata dal lockdown rispetto ai trend pre pandemia- non ha accennato a diminuire per tutto il 2021: oramai sono consolidate nuove abitudini di acquisto da parte dei consumatori, non solo da parte delle fasce più giovani d’età.

Questa accelerazione ha costretto di fatto moltissimi retail a non considerare più il sito di e-commerce come il canale “cenerentola” della propria strategia commerciale ma, al contrario, come efficace soluzione per compensare le criticità della propria rete fisica, investendo in esso una parte consistente dei budget.

Ora bisogna evitare il rischio che il focus si concentri sull’e-commerce dimenticando il retail brick & mortar che anche le nuove generazioni dicono comunque di preferire per le proprie esperienze di acquisto.

Quello che serve è trasformare anche il retail b&m in un… e-commerce, dove la “e” però stia a significare “empatia”.

La possibilità di costruire relazioni umane in tempo reale resta il punto di forza del retail fisico: di fatto l’empatia- che qui interpreto come predisposizione all’ascolto e alla scoperta dei desideri e delle necessità del cliente- costituisce la versione umana dell’intelligenza artificiale.

Una persona che entra nel negozio deve diventare in quel momento il centro di gravità dell’intero store. Ogni ingresso è opportunità per un incontro.

Perché ciò accada serve però investire sulle proprie risorse per costruire questa cultura dell’empatia e riscoprire il vero potenziale dei negozi.

Quanto stanno investendo i retailers in questa direzione?

@danielecazzani

LA SEDIA VUOTA

OPINIONE SUL NUMERO 303 DI MARK-UP.

Certamente customer centricity è termine che è risuonato più e più volte all’interno delle meeting room dei board di tante aziende retail. Peccato che solitamente ad ascoltare quella parola d’ordine non vi sia alcun rappresentante dei clienti.

Per capire quale sia il gap da colmare nella cultura del cliente all’interno della vostra azienda vi invito ad analizzare il vostro organigramma aziendale per verificare se- a pari grado rispetto a CMO, CFO e affini- sia prevista una figura dedicata al cliente che, per semplicità, potremmo chiamare Chief Customer Officer.

Una volta verificata la sua presenza provate a capire che potere abbia all’interno dell’organizzazione, che leve possa manovrare, con quale funzioni sia interconnessa: in sintesi che capacità abbia di influire sulle vostre scelte di indirizzo strategico.

Il cliente infatti non è solo la persona che invitiamo a mettere un like a un nostro post sui social o ad effettuare un particolare acquisto: è, o meglio dovrebbe essere, il vero stakeholder del retail.

Lo sappiamo tutti: ascoltare la voce del cliente può essere difficile, fastidioso, urticante. Il cliente è, in fondo, come uno specchio che restituisce la nostra vera immagine, a volte molto distante da quella che pubblicizziamo sui media.

Dicevo, un atto forse fastidioso ma necessario. I nostri clienti oggi ci danno migliaia di feedback, attraverso i loro acquisti, la loro valutazione dell’esperienza d’acquisto (pensiamo a tutto il potenziale, in parte ancora inespresso, del Net Promoter Score), l’interazione col nostro sito o il customer service: un’autentica miniera d’oro cui attingere.

Per questo il retail non può più permettersi che quella sedia resti vuota: anche nelle board room deve arrivare, forte e chiara, la voce del cliente.

@danielecazzani

LA NON ISOLA E I SUOI TESORI (CLIENTI E FILIERE)

CONSIDERAZIONI PER IL RETAIL SUMMIT DEL 22.09.2021 PUBBLICATE SUL NUMERO 302 DI MARKUP MAGAZINE

Citando una frase di J.Donne- resa famosa dallo spot del principale player del settore- potremmo dire che nessun insegna della GDO è un’isola.

Se nello spot si intendeva dire che un supermercato vive in un territorio fatto di persone, passioni, storia e cultura, la mia provocazione vuole essere quella di invitare gli attori della GDO a non immaginarsi come isole autosufficienti.

Il rischio, altrimenti è di bloccare le propria evoluzione come evidenzia il caso degli ipermercati, ieri punta più evoluta del retail, oggi è sempre di più in difficoltà.

Partendo da questa consapevolezza la GDO dovrebbe aprirsi a collaborazioni con soggetti terzi, guardando ad esempio al mercato delle start-up, non tanto per comprare licenze quanto per studiare nuovi approcci al mercato e ai clienti.

Il tutto in ottica omnichannel, senza illudersi che basti un sito di ecommerce o il click&collect  per sentirsi “al passo coi tempi”.

Servono ibridazioni di forma ma, soprattutto, serve disegnare nuovi modelli di business: pensiamo al potenziale della membership economy che potrebbe divenire la chiave di (s)volta per esprimere il grande potenziale delle carte fedeltà della GDO finora rimasto inesplorato (i clienti sono il vero tesoro!).

Allo stesso modo serve una nuova visione anche sul ruolo delle filiere, facendo evolvere il paradigma del fornitore in quella di una moderna partnership che spinga all’innovazione, alla qualità e alla sostenibilità (delle risorse e delle persone).

Il prossimo Retail Summit ci dirà se e quanto questa consapevolezza sia diffusa e le organizzazioni pronte a puntare nell’unica direzione corretta: quella che porta al cliente.

@danielecazzani