IL #RETAIL E IL #CRM TRA FANTASMI, ASINI E #BIGDATA (CON UN OCCHIO AD #AMAZON)

Martedì 16 ottobre ad Assago ho avuto il piacere di essere inviato quale speaker all’evento IT’S ALL CRM CONTACT CENTER, potendomi così confrontare con altre realtà Retail sui temi legati al futuro del CRM o, per anticipare uno dei mantra dell’incontro, del CXM (dove “X” sta ovviamente per “experience”).

Le parole più ripetute durante l’incontro sono state “cultura”, “organizzazione”, “cliente” (of course!), “dati” e… Amazon 😉

A ben pensarci, proprio Il fantasma che terrorizza i retailers d’Europa (e non solo) è un’ottima sintesi delle “parole d’ordine” sopra elencate.

Ma andiamo con ordine.

Paradossalmente sembra che il combinato disposto tra bigdata e un consumatore sempre più omnichannel abbia negli ultimi anni aumentato la complessità per le aziende retail nel leggere, o meglio nel comprendere attitudini e comportamenti dei consumatori in senso più lato.

Per poter gestire questa nuova complessità servono certamente nuove tecnologie– ampiamente disponibili sul mercato- ma soprattutto una nuova ORGANIZZAZIONE che veda lavorare fianco a fianco IT e Marketing, abbattendo steccati e gelosie che hanno fino ad oggi inficiato gli sforzi di tanti Retailers in questa direzione.

Ma prima ancora di compiere questo passo è necessario creare una nuova CULTURA del DATO e dell’informazione. Serve innanzi tutto definire in modo chiaro (e condiviso tra tutte le funzioni aziendali, a partire dal CEO) quali siano gli obiettivi del proprio business, e all’interno di questo cosa sia richiesto al CRM e quindi quali siano le informazioni necessarie e rilevanti a supporto della costruzione delle più efficaci strategie.

Il focus di questo immenso sforzo richiesto al Retail deve essere, davvero, il CLIENTE.

Il CRM non è una polaroid utile per scattare qualche istantanea del Cliente, che corre il rischio di essere cestinata se la foto che restituisce non è in linea con le attese aziendali.

Il CRM deve e può essere un motore di intelligenza. Ma per cogliere questo obiettivo deve lavorare in stretto legame con tutte le altre funzioni aziendali, in primis con quelle che più di altri sono a stretto contatto col Cliente all’interno dei negozi, evitando di rinchiudersi in qualche stanza e di fronte a qualche powerpoint.

Questa intelligenza deve però partire dalla capacità di sfruttare appieno le numerosissime informazioni (parziali e frammentarie) che il Retail già ha del cliente, mentre spesso la sensazione è che si cerchino sempre nuove informazioni che diventano via via più ingestibili e spesso contraddittorie, con l’effetto finale di vedere il CRM Manager di turno che come l’asino di Buridano resta indeciso nel da farsi finendo per essere superato dai fatti (i dati, si sa, invecchiano molto rapidamente).

Solo i dati e un Marketing intelligente possono aiutare il Retail a comprendere al meglio le journey dei singoli clienti e attorno a questi disegnare la migliore experience, e superare così i limiti dei più tradizionali approcci di CRM, che restano per lo più indistinti o grossolanamente differenziati per cluster che tengono conto solo di alcuni attributi transazionali o socio demografici dei propri Clienti.

E’ un tema culturale e organizzativo, non tecnico. Prima il Retail ne prenderà atto, prima potrà scacciare i fantasmi che ne turbano i sonni…

@danielecazzani

 

Vetrine, vetrine delle mie brame… Il retail e lo specchio dei desideri del consumatore.

RIPRENDO ED ESTENDO L’ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI GIUGNO 2018 DI MARKUP

Raccontare. Emozionare. COINVOLGERE. Suggerire… Sono davvero molti i ruoli che possiamo assegnare alle VETRINE di un negozio.

Proprio per questo motivo le vetrine devono essere considerate come un vero e proprio MEDIA.

Nonostante questo potenziale, la  sensazione è che però molti retailer non sappiano bene come gestire questi spazi: basta fare due passi nelle vie di una città o in un centro commerciale per capire come spesso a vincere sia l’improvvisazione, la standardizzazione o, peggio ancora, la BANALITÀ.

Eppure come detto si tratta di TOUCHPOINT fondamentale; le vetrine sono la prima calamita in grado di attrarre anche il consumatore distratto dallo schermo del proprio smartphone. In un’epoca caratterizzata da eccesso (e talvolta appiattimento) di offerta sono davvero pochi i secondi (e i metri) a disposizione del retail per CATTURARE il potenziale consumatore.

Nonostante sia evidente quanto siano fondamentali la LEGGIBILITÀ dell’offerta e del messaggio, spesso le vetrine sono invece gestite come repository per una gran quantità di prodotti, quasi si volesse condensare in pochi metri tutta la propria offerta, spinti da un assurdo “horror vacui” che porta a saturare tutti gli spazi.

Altrettanto importante è la COERENZA tra la vetrina e il negozio. La promessa, il racconto, non devono essere smentite appena varcate le soglie d’ingresso; eppure spesso la sensazione è proprio questa, come se vetrina e negozio fossero gestite da aziende diverse (per capirne il motivo basterebbe guardare agli organigrammi interni di tanti retailer… e vedere la frattura tra la funzione che si occupa del visual e le altre funzioni del marketing in primis).

L’altra tendenza è quella di digitalizzare questi spazi, dotandoli di tecnologie di digital signage con moderni schermi led. Quest’ultima moda, che sembra interpretare le vetrine quali grandi TELEVISORI, non tiene conto del tipo di engagement possibile per un consumatore in transito lungo una via o un mall, e non certo comodamente seduto su un divano…

Si tratta di un ERRORE già fatto con gli schermi degli smartphone impropriamente considerati come mini-televisori. In quel caso ciò che non si considera è che i contenuti devono essere personalizzati per essere rilevanti su un mobile device; nel caso delle vetrine invece va considerata la modalità di fruizione di un video (spesso senza audio) da parte di un consumatore poco disponibile a sincronizzare il proprio orologio con uno spot (soprattutto senza avere con sè l’amato TELECOMANDO). 

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Permettetemi ora una provocazione. E se la miglior vetrina fosse una NON VETRINA?

Gli Apple Store ad esempio presentano vetrine senza prodotto. Quello che viene raccontato però è l’ESPERIENZA del cliente all’interno dello store.

Un racconto potente, in grado di ingaggiare il consumatore e invitarlo all’interno del negozio per unirsi alla community degli appassionati di Apple…

Certo un caso che pare limite vista la forza del prodotto Apple, ma uno spunto per tanti retailers alla ricerca di un’identità per le proprie vetrine.

In conclusione se le vetrine vogliono trasformarsi in un efficace specchio dei DESIDERI del consumatore è quanto mai necessario ripensarle trasformandole da cenerentole del marketing a splendide principesse (e perdonate questa confusione di fiabe 😉)

 

@danielecazzani

Emotional Mall: il futuro del centri commerciali è nelle emozioni

DI SEGUITO LA “EXTENDED VERSION” DEL MIO ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI FEBBRAIO DI MARKUP articolo MarkUp feb 2018

L’apertura de Il Centro di Arese nel 2016, la più recente inaugurazione di CityLife Shopping District a Milano e importanti progetti di prossima realizzazione quale Westfield Segrate, dimostrano come il mercato dei centri commerciali sia decisamente florido- pronto ad attrarre sempre più investimenti stranieri e a cogliere le opportunità di sviluppo insite nelle tante aree urbane da riqualificare qua e là in Italia- nonostante in molti negli scorsi anni ne avessero preannunciato una irreversibile crisi.

E’ pur vero che, come contraltare, si possano annoverare numerose strutture che sono oramai in piena crisi, ma si tratta soprattutto di centri realizzati negli anni Novanta, di piccole e medie dimensioni, extra-urbani e con un’offerta commerciale limitata.

In realtà non avremmo di che stupirci che un settore che per anni ha vissuto per anni solo su logiche di stampo immobiliare (molto più raramente commerciali) stia vivendo un momento di passaggio e di crisi (dal greco krisis ovvero scelta, decisione): si tratta di un fatto fisiologico e la circostanza che avvenga in anni di profondo cambiamento nelle abitudini di consumo rende l’occasione quanto mai propizia per chiedersi quali siano le opportunità da cogliere e le sfide da vincere per un settore che dovrà sempre più competere con l’e-commerce e i moderni e-mall.

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Partendo da queste premesse, gli operatori del settore dovrebbero a mio avviso focalizzarsi su tre elementi:

  • La bellezza delle emozioni. I nuovi centri commerciali non dovranno più solo essere contenitori razionali e funzionali di una proposta commerciale, di “cose”, ma luoghi del bello e del piacevole, con spazi “inutili” che possano essere riempiti di contenuti dai clienti, aperti a iniziative di terzi, con logiche bottom-up.

  • L’identità nel marketing. Diciamocelo: i centri commerciali sono spesso una summa di attività commerciali, e difficilmente sono stati in grado di costruire una propria “personalità”. Serve un ruolo diverso del marketing per queste strutture: non più coordinatore di iniziative terze e non più gestore di profili social che fungono, anche qui, da vetrina per gli operatori del mall, ma attore forte e autorevole. Il marketing infatti, ha la possibilità di svolgere un ruolo di aggregatore di dati e informazioni per delineare il profilo del proprio Cliente e attorno a questo costruire non un mero palinsesto non di eventi (la pista di pattinaggio a Natale…) ma una proposta di servizi e di valore che sarà poi il singolo cliente a ritagliare sui propri desiderata.

  • Il dialogo col territorio. In ambito agricolo ed alimentare, FICO a Bologna esaspera questo concetto (visto che lì, il “territorio” è l’Italia intera) ma è indubbio che i centri commerciali- esaurito l’effetto food court quale elemento differenziante e caratterizzante la propria offerta- abbiano una grande chance di guardare ai territori per individuare eccellenze nell’offerta (non solo food, sia beninteso) da inglobare e valorizzare al proprio interno. Il centro commerciale può essereinfatti una potente vetrina dei territori, un hub di eccellenze, riuscendo così a proporre un mix merceologico (ed esperienziale, aggiungo) davvero unico evitando il rischio copy&paste sempre più presente (chi non provato la sensazione che i centri commerciali, e spesso i centri città, siano deboli sfumature della medesima offerta?).

Nel mercato italiano l’e-commerce è certamente in crescita ma è ancora poca cosa rispetto ad altri Paesi, quindi gli shopping center fisici hanno poco da piangere e molto da fare… La sfida insomma è aperta.

Resta solo da capire chi vorrà e saprà coglierla per contrapporre ai moderni e-mall i nuovi… emotional mall.

@danielecazzani

Una #GDO fuori forma, una vecchia trapunta e nuove antenne di #marketing (con un occhio a #Google)

E’ legittimo che la GDO si lamenti per la difficile e lenta ripresa dei consumi? Certo! Lo è meno se nel farlo si lasciano per strada opportunità di vendita…

Prendiamo l’esempio del mese di gennaio. Dopo la grande abbuffata di dicembre (le vendite hanno registrato un segno positivo dopo una partenza del mese sottotono) gennaio sembra essere partito col piede sbagliato, in territorio negativo come registrato da A&F e Nielsen.

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Non ho l’ambizione di proporre in poche righe risposte alla domanda “cos’è successo?”, ma segnalo come i numeri negativi arrivino in un inizio anno caratterizzato da forti azioni promozionali da parte della GDO: sconti gridati, come il “30-40-50%” di Esselunga o le “Grandi Marche al 50%” di Carrefour tanto per citare due big del settore.

Queste azioni sono spesso supportate dalla classica “Fiera del Bianco”: promozione le cui origini si perdono nella notte dei tempi…

Eppure a gennaio vi è un grande trend che pare essere stato ignorato dai più.

Gennaio è infatti il mese delle buone intenzioni e del rammarico per gli eccessi alimentari durante le tavole natalizie.

E’ il mese delle iscrizioni in palestra e dell’inizio delle diete (certo, febbraio è tutta un’altra storia…).

Non si tratta di sensazioni ma di fatti. Se non riteneste sufficiente chiedere al collega o all’amico, basterebbe guardare il seguente grafico che identifica l’andamento delle ricerche su Google a livello mondiale per “get fit” e “lose weight” (i numeri sono poi confermabili anche a livelli di singola country) per avere conferma di quanto detto.

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Ebbene, a fronte di questa domanda di benessere e leggerezza la GDO come risponde? Con ipersconti sui soliti prodotti ricchi di grassi e zuccheri e con qualche lenzuolo…

Così una domanda di benessere che va oltre la palestra- una ricerca sul mercato britannico (invito chi vuole a leggere l’articolo citato in calce a questo post) dimostra infatti come vi sia un’impennata di consumi anche di healty food– resta senza risposta, perché inascoltata da un settore che troppo spesso torna vittima dei propri tic promozionali (vedasi la citata Fiera del Bianco).

Per concludere, rapidamente, vi sono molte opportunità da cogliere là fuori, ma bisogna avere antenne pronte e curiose; insomma un nuovo marketing che sia in grado di scaldare i fatturati della GDO più di una vecchia trapunta…

Ready?

@danielecazzani

PS

Per chi fosse interessato ecco l’articolo di The Economist che ha “ispirato” questo contributo:

https://www.economist.com/news/business/21734459-while-low-cost-offerings-democratise-gym-business-fancy-ones-are-raising-bar-gyms

Gli Ipermercati e il Non Food. I pesi massimi della GDO dal gigantismo alla crisi di identità..

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Prendo spunto da un recente articolo di Retailwatch.it Retailwatch -Carrefour – Non Food    nel quale il direttore Luigi Rubinelli si chiedeva cosa ne sarebbe stato del Non Food in Carrefour in seguito alla scelta del CEO George Plassat di concentrarsi sul Food (che già rappresenta l’83% delle vendite del gigante francese della Distribuzione).

E’ a tutti noto come proprio il Food sia stato il comparto della GDO che più ha sofferto in questi anni, sia a causa  della riduzione dei consumi che della concorrenza delle GSS (anch’esse in grande crisi a onor del vero) e della crescita dell’e-commerce (che invece, per ora, ha solo marginalmente toccato l’ambito grocery)

Un insieme di fattori certamente critici che però ha colto la GDO impreparata, come già prevedevo nel lontano 2013 La GDO e il Non Food: aspettando Godot!?

La Grande Distribuzione ha infatti sempre gestito il Non Food come un complemento dell’offerta, gestendolo lungo gli assi dell’ampiezza e profondità dell’assortimento, con minimi investimenti sulla formazione del personale dedicato, contrariamente a quanto fatto nel Food dove si è capito quanto sia importante coltivare le competenze e i mestieri.

Da questa visione (miope) nascevano i gigantismi (tipici di Carrefour) con spazi del Non Food moltiplicati all’infinito, dove a perdersi non era solo la ratio dell’assortimento e della strategia commerciale, ma anche il cliente che per effettuare una spesa minima era costretto a chilometri di faticosa ricerca tra scaffali e “mondi” (di dubbia concezione).

L’e-commerce ha poi evidenziato come non vi sia gigantismo che regga di fronte agli infiniti spazi d’offerta di una piattaforma on line.

Dal sostanziale fallimento di quella stagione si è passati al momento dei tagli, ovvero alla riduzione di superficie di tanti di quegli ipermercati-monstre che erano stati salutati come il sole all’avvenire per la Distribuzione,

Ecco quindi il concentrarsi sul Food. Infatti i più interessanti sviluppi dei formati della distribuzione negli ultimi anni hanno avuto proprio come focus il Food, soprattutto su negozi di piccole e medie dimensioni: la prossimità è divenuta così il nuovo spazio per testare nuove soluzioni di vendita, nuovi assortimenti, nuovi servizi.

La scelta di un ipermercato di concentrarsi sul Food se intesa solo come una redistribuzione degli spazi e un lavoro sui consueti assi assortimentali rischia però a mio avviso di non essere efficace. Aumentare l’offerta Food non può essere sufficiente.

Ampiezza  e profondità sono certamente elementi importanti, ma un iper non può pensare di vincere la sfida Food rispetto a supermercati o superstore solo quel fronte: il servizio, la prossimità al bisogno, la frequenza d’acquisto, la conoscenza del cliente sono elementi importanti che hanno premiato (o penalizzato meno) i formati più piccoli in questi anni.

Infatti alcuni di questi elementi (pensiamo alla frequenza d’acquisto) vedono in partenza gli ipermercati perdenti, non fosse altro che per la localizzazione normalmente extra-urbana (almeno nel nostro Paese).

Per questo non posso immaginare che il prossimo step evolutivo degli iper sia quello di essere solo dei supermercati per così dire iper-vitaminizzati.

Il cambiamento deve essere a mio avviso più culturale e di approccio ai mercati. Da questo punto di vista aprirsi ai territori è certamente un passaggio importante: non più assortimenti generalisti ma declinati sulla storia dei territori e sui comportamenti di consumo di chi li abita.

Finiper da questo punto di vista rappresenta un esempio nel mondo degli ipermercati, offrendo in tanti casi ai propri clienti (penso a ortofrutta e formaggi) un’importante proposta di prodotti locali che avvicinano il Cliente e l’Insegna rendendo tangibile una comunione di interessi che è parte importante della nuova relazione che il consumatore ricerca.

Ciò detto, l’aspirazione a rispondere a un ampio ventaglio di bisogni del consumatore può (deve) restare obiettivo importante e fondante della formula iper.

Certo i bisogni Non Food vanno individuati con attenzione, focalizzandosi su quelli più importanti e integrabili coerentemente con la propria offerta Food, costruendo attorno ad essi assortimenti mirati, competenze e professionalità dedicate (ambito nel quale anche gli specialisti Non Food hanno tanto spazio da recuperare…).

Nel passato abbiamo visto ipermercati vendere autovetture, contratti luce e gas e chissà cos’altro!? Non è certo quello il modello che propongo. In quei casi si è trattato quasi sempre di insuccessi perché ogni volta l’insegna non era che il paravento dietro al quale si muovevano altri fornitori e quell’offerta era “straniante” per il cliente.

La nuova offerta andrà poi integrata laddove necessario con altrettanto efficaci piattaforme di e-commerce, perché la GDO può legittimamente continuare a ignorare che il consumatore sia multicanale ma il consumatore no…

In sintesi il nuovo Non Food deve essere presidiato dall’Insegna, dalle sue Persone e deve essere coerente con le proprie strategie, per divenire punto di forza del proprio posizionamento.

Anche in questo caso vi sono esempi virtuosi (penso sempre a Finiper e alla proposta di alcuni mondi Non Food come shop in shop all’interno dei propri ipermercati) a dimostrazione che questa strada, certamente non facile, è percorribile.

Un Distribuzione che giochi in difesa, scappando dal Non Food, rischia solo di compiere il primo passo verso un ulteriore arretramento, quando i nuovi player dell’e-commerce saranno pronti a presidiare in modo efficace anche una propria offerta Food.

Un comportamento assurdo se pensiamo alla forza della Distribuzione, alla sua capillarità territoriale e alla conoscenza del cliente (se solo si mettessero a valore i dati transazionali e comportamentali del Cliente raccolti negli anni coi programmi loyalty!).

Ecco perché ritengo che quella del Non Food sia per la GDO una sfida ancora tutta da giocare, certamente non persa a meno di non voler restare in attesa ancora una volta di Godot…

@danielecazzani

 

Il futuro delle #privatelabels: da #mdd a #mdc (marca del Cliente). Riflessioni a margine di #marca2017

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Anche quest’anno MARCA, la prestigiosa rassegna bolognese che ogni anno è il punto d’incontro tra la Distribuzione e l’Industria (ma il consumatore dov’è?)  per parlare di private labels- ma non solo…- ha fornito numerosi spunti e tanti numeri.

Intanto i numeri. Le private labels nel 2016 hanno raggiunto in Italia una quota del 18,5% (come sempre la media cela valori molti diversi tra le diverse insegne) registrando una crescita rispetto al 2015: 1,7% a valore- grazie soprattutto alla perfomance dei prodotti premium- e 0,2% a volume.

Una crescita non certo impetuosa che sembra confermare quasi l’esistenza di un tetto alle potenzialità di crescita del comparto (ne parlavo già anni fa…) e che si conferma se diamo uno sguardo alle percentuali di altri Paesi (vedi grafico)

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Altro tema importante è la sinergia tra Distribuzione e Industria. Pensado soprattutto al mercato italiano le private labels rappresentano un’incredibile opportunità di sviluppo per tante piccole e medie aziende produttrici.

Le private labels hanno dimostrato appieno la capacità di divenire cardine di un processo di fidelizzazione della clientela come dimostrano Sapori & Dintorni di Conad e ViaggiatorGoloso di Unes-U2. In quest’ultimo caso i successi dei temporary natalizi e del nuovo store di Milano sono il segno che la MDD può divenire insegna.

Ma, ribadito che mi è parso che a Marca mancasse il consumatore (o, meglio, il Cliente), a mio avviso le reali possibilità di successo per le private labels sono legate alla capacità che la Distribuzione avrà di trasformarle da MDD a MDC, ovvero a Marche del Cliente caratterizzate da:

  1. trasparenza/tracciabilità (i clienti vogliono sempre più sapere e conoscere mentre l’opacità è un freno alla fiducia)
  2. value for money (che non significa prezzo basso, ma prezzo giusto, anche nei comparti come i prodotti “bio” e “senza” o “con” nei quali spesso il “light” si sposa con prezzi davvero troppo “heavy”) e ridotto ricorso alla leva promozionale
  3. attenzione alle nuove tendenze e stili di consumo (anche le nicchie quindi, non solo il mainstream)
  4. innovazione nel packaging, nel servizio (pensiamo al ViaggiatorGoloso su Amazon)
  5. educazione (ad un consumo corretto e consapevole, non promozionale e coercitivo).
  6. esposizione e valorizzazione all’interno del punto vendita (quante volte abbiamo la sensazione che il distributore quasi si vergogni dei propri prodotti? assurdo!)

Per la Distribuzione si tratta di un’occasione imperdibile, visto che l’IDM dimostra tutta la sua rigidità e schizofrenia (lanciando ogni anno sul mercato prodotti flop) e pare ancora concentrata su investimenti in advertising e in uno storytelling che assomiglia troppo spesso ad un moderno tentativo di affabulazione più che a un racconto sincero dei propri valori e della propria promessa.

Fra un anno vedremo se (e da chi) sarà colta appieno questa opportunità.

 

@danielecazzani

 

PS

Un suggerimento agli organizzatori di Marca: inviate un biglietto anche al consumatore/Cliente per la prossima rassegna. Sono certo che vederlo tra gli stand non potrà che fare bene ai tanti espositori (e relatori) 😉

Grazie!

#Occhiali duepuntozero: un nuovo #marketing per il #retail dell’occhiale

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Riprendo con piacere un mio vecchio articolo di quasi quattro anni fa (era il lontano 12 marzo 2013…) in cui parlavo del retail nel settore dell’ottica, visto che il mio percorso professionale mi ha portato oggi a lavorare proprio nell’azienda leader di questo settore in Italia, e da poco entrata a far parte del più grande gruppo mondiale del settore.

Certo, rispetto al momento della prima redazione, le premesse sono fortunatamente cambiate- il mercato non è in sofferenza e la maggiore forza del retail ha permesso a molti operatori di coglierne le tante opportunità di crescita- ma restano forti i margini per un ulteriore crescita in un mercato estremamente frammentato, in cui l’integrazione verticale dalla produzione al consumatore pare essere oramai strada segnata (per chi avrà forza e capacità per percorrerla) con strategie che vedano al centro il cliente e i suoi bisogni.

Proprio perché convinto degli spunti allora proposti, ho deciso di riproporre oggi quell’articolo- scritto allora, lo ammetto, da outsider rispetto al settore- senza ritoccarne nemmeno una parola per quanto alcune delle semplificazioni (in parte obbligate per lo spazio a disposizione) oggi, mi rendo conto, potrebbero sembrare fin troppo forzate…

Ecco l’articolo.

 

I retailers del settore dell’occhialeria stanno registrando performances negative sia in termini di volumi che di valore- sia nel comparto “vista” che “sole”- in funzione di due tendenze:

  1. nel comparto delle montature, un aumento dell’incidenza degli home brands a danno della quota dei luxury brands, e
  2. un allungamento del tempi di sostituzione degli occhiali (oramai superiore ai 3 anni).

Mi permetto di semplificare il contesto (evitando fini distinzioni tra lenti e montature, tra occhiali e lenti a contatto, e via dicendo) ed evidenziare quelli che a mio avviso sono due forti elementi di debolezza:

  1. la indistintività dell’offerta commerciale tra le diverse insegne, e la conseguente forte dipendenza dall’industria dell’occhiale che, come sappiamo, è fortemente concentrata nelle mani di alcuni players nazionali;
  2. l’aumento della pressione promozionale per sostenere i volumi di vendita.

In merito al primo punto, non vi è dubbio che gli aspetti della moda e del brand siano ancora molto forti, visto che per molti consumatori l’occhiale è un accessorio fortemente personale, che parla dello stile o del modo di essere di chi lo indossa: anche gli occhiali da vista infatti da mero strumento correttivo di difetti oculistici, sono oramai divenuti uno shopping goods. Tale considerazione è ancor più valida nell’ambito degli occhiali da sole, ove l’acquisto presenta caratteri più impulsivi e la comunicazione pubblicitaria riveste un ruolo ancora più importante.

Ma se davvero l’acquisto di un occhiale branded è per il consumatore un modo per entrare nel mondo dei luxury goods, mi chiedo, provocatoriamente, per quale motivo i retailers non investano nella shopping experience del cliente, che risulta invece estremamente povera e indistinta nelle principali catene. Senza con questo negare la componente “tecnica” e “medicale” del mondo dell’occhiale, i negozi dovrebbe superare l’aspetto normalmente freddo e ambulatoriale, ispirandosi a brand del settore moda: l’acquisto di un occhiale (correttivo o meno che sia) potrebbe essere decisamente più emozionale, vivace, interessante, sociale. Per fare questo i retailers dovrebbero iniziare dall’analisi della shopping journey del cliente multicanale e disegnare percorsi flessibili di avvicinamento al punto vendita fisico, con servizi di personalizzazione delle offerte, ed enfatizzando la componente social (condivisione) dell’acquisto.

Anche gli assortimenti dovrebbero essere più narrati e meno caotici: per quanto alcuni negozi abbiano provato ad organizzare l’offerta inventandosi cluster sinceramente opinabili (penso alla suddivisione in “stile”, “eleganza”, “colori” e via dicendo di uno dei leader del settore) la sensazione che vive il cliente è quella spesso dello spaesamento e dell’eccesso di offerta, che, come insegna il Prof.Lugli dell’Università di Parma in altri contesti, può portare alla paralisi, e all’ansia (e quindi al non consumo). E’ prioritario migliorare la rappresentazione della scelta.

Pensiamo anche al mondo junior: un altro target cui molti retailers paiono assolutamente indifferenti, mentre molto si potrebbe fare per rendere meno “traumatica” l’esperienza di acquisto per un bambino “costretto” a utilizzare fin da piccolo gli odiati occhiali, e minimizzare la sindrome “Quattrocchi”. Potrebbe divenire un elemento di distinzione per il primo player che vi si applicasse con interesse e intelligenza.

Venendo al secondo punto il rischio è che- come già capitato nella GDO- il progressivo aumento della pressione promozionale porti non tanto a un incremento dei volumi e dei valori, ma a una riduzione dei margini (per tutta la filiera) e a un’alterazione del comportamento d’acquisto dei clienti, trasformati sempre più in soggetti price sensitive, con l’effetto di vanificare gli interventi effettuati sul primo punto.
Almeno finché con un’azione di lobbying gli attori del settore non riusciranno ad imporre una regolamentazione che  preveda un “tagliando” obbligatorio ai propri occhiali correttivi (per quanto gli italiani paiano non prestare molta attenzione alla cura delle proprie lenti, dobbiamo sempre ricordare che si tratta di presidi medici) così da ridurre i tempi di sostituzione (almeno) delle lenti, ritengo che la strada obbligata sia quella di lavorare sugli assortimenti (e la loro architettura e narrazione) e sulla costruzione di una shopping experience più appagante e distintiva, che parta da un ridisegno fisico del punto vendita e da un salto di qualità nel marketing (anche sul fronte della relazione e fidelizzazione del cliente).

Daniele Cazzani @danielecazzani

#bigdata, #bigfoot e… #bigbubble. La conoscenza del cliente nel #loyalty #retail

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In tanti dicono di averli visti, ma in pochi nella realtà ne saprebbero documentare la reale conoscenza…

Il destino del bigfoot sembra stranamente assomigliare a quello dei bigdata, di cui si parla molto- soprattutto in convegni, ricerche e workshop- e nel quale la maggior parte delle aziende retail giura di credere. E di investire sempre di più come testimoniano ricerche recenti (vedi http://www.techweekeurope.it/data-storage/forrester-crescono-gli-investimenti-in-big-data-98697), pur rappresentando ancora una quota minima degli investimenti IT.

Prima però di vedere quanto viene investito in questa “nuova frontiera”, la domanda da porsi è perché lo si faccia, o meglio ancora, quali siano gli obiettivi che attraverso i bigdata si possano conseguire.

E’ infatti piuttosto evidente che l’interconnessione tra diversi sistemi attraverso i quali transitano i dati delle transazioni e dei profili dei clienti, unita alla multicanalità del consumatore, siano dei fantastici generatori di dati, di fronte alla cui mole però la reazione può essere paradossalmente di stallo.

Partiamo da due (mai troppo banali) considerazioni preliminari:

  1. la conoscenza del Cliente è un patrimonio inestimabile per il Retail

  2. la carta fedeltà è lo strumento centrale della strategia di relazione e conoscenza col Cliente

Se la prima asserzione troverebbe tutti d’accordo, nella realtà dobbiamo registrare come in tanti casi la situazione sia ancora ferma, con retailer che dimostrano di considerare il cliente un unico soggetto, senza attività specifiche per distinti target; e senza che le analisi dei comportamenti d’acquisto (o non acquisto) incidano sulle scelte commerciali, promozionali, di assortimento ecc.

Lo testimoniano i grandi investimenti in campagne promozionali e media mass market, e l’ancora ridotto peso degli investimenti nel CRM.

La carta fedeltà, a sua volta, è ancora troppo spesso un’appendice delle strategie aziendali: un qualcosa che si deve avere in una short list degli strumenti di marketing da spuntare, ma della cui reale utilità molti paiono dubitare…

Quello che manca è talvolta la consapevolezza che alla base di un programma loyalty vi deve essere un semplice patto col Cliente, un sorta di moderno do ut des. Il Cliente permette di analizzare il proprio comportamento d’acquisto se in cambio di questa analisi, il retailer si dimostra in grado di offrire una migliore esperienza d’acquisto fatta ad esempio di promozioni più efficaci e servizi dedicati.

Altrimenti il rapporto risulta sbilanciato e, nell’epoca del prosumerismo, i clienti non sono più disposti a premiare chi li consideri dei semplici numeri.

La conoscenza del cliente può aiutare i retailer nella definizione delle proprie strategie e soprattutto nello sviluppo dei propri programmi loyalty, ma affinché ciò avvenga sono necessari tre elementi:

  • una chiara definizione degli obiettivi. Navigare nel mare magnum dei dati può essere oltremodo faticoso e oneroso, se non si hanno chiari quali siano i dati rilevanti per il proprio business…

  • la costruzione di metriche/kpi’s che permettano di misurare le perfomances delle diverse attività. Bisogna andare oltre le valutazioni manageriali di pancia e avere il coraggio di leggere e analizzare dati, anche quando, come uno specchio di mattina, non ci restituiscono l’immagine dei nostri sogni…

  • la condivisione di una cultura aziendale del dato e della loyalty che parta dal CEO e arrivi fino a tutto il personale del negozio. Senza il supporto delle persone, nessuna infrastruttura IT può essere in grado di dare vita a un efficace programma di loyalty.

E tutto questo senza più confini tra negozio fisico, piattaforme social, sito di e-commerce.

Sono confidente che questi e altri temi emergeranno venerdì 21 a Parma nel corso dell’annuale convegno dell’Osservatorio Fedeltà promosso dall’Università di Parma (www.osservatoriofedelta.it) perché la sfida è cruciale per disegnare il futuro del loyalty management: evitare che i bigdata si trasformino nell’ennesima… bigbubble senza cioè mai trasformarsi in driver dei processi manageriali, è l’ambizioso obiettivo che, prima ancora dei propri fornitori di soluzioni IT, i retailer più avveduti oggi si devono dare.

@danielecazzani

#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

La #Bellezza salverà il #Retail?

Afrodite

Almeno fino al diciottesimo secolo la Bellezza è stata considerata una qualità delle cose. La bellezza platonica prevedeva un equilibrio delle forme, pensiamo infatti all’arte greca e alla perfezione delle statue delle divinità arrivate fino ai giorni nostri (come l’Afrodite in foto). Anche il Cristianesimo riprese questa impostazione con Sant’Agostino e Tommaso d’Acquino, continuando a ritenere che la bellezza presupponesse armonia e proporzione della cosa in sé e della cosa in relazione all’altro.

E’ con la filosofia moderna- pensiamo a Hume, Kant…- che la Bellezza perde questo carattere di oggettività, divenendo invece soggettiva, della persona, lasciando così spazio alla nascita di nuove forme d’arte che l’Uomo è stato in grado di accettare e sentire proprie.

Ma, qual è il nesso tra Bellezza e Retail?

Lo spunto per questo contributo nasce dalla recente intervista rilasciata da Marco Brunelli a Cristina Lazzati per Mark-Up (http://www.mark-up.it/una-conversazione-con-il-signor-brunelli/) nel corso della quale il concetto di Bellezza ritorna più volte, ricordando alcuni particolari de IlCentro di Arese, ma anche realizzazioni meno recenti come l’intervento urbanistico e paesaggistico realizzato al Portello di Milano.

Nulla di cui stupirsi conoscendo la passione e il gusto per l’Arte e della Bellezza del patron di Finiper.

In questo contesto la ricerca del Bello, l’attenzione al dettaglio, al particolare che sfugge ai più, sono a mio avviso sintomo della consapevolezza che il Signor Brunelli ha dell’importanza della Bellezza, anche nel Retail.

A mio avviso cioé non si tratta affatto di una ricerca estetica. La sua attenzione è invece frutto di una ricerca etica.

Etica nel senso aristotelico del termine, ovvero come manifestazione di una scelta, di un costume (ethos) che, nella fattispecie, mette al centro il Cliente e la sua esperienza.

Infatti, a mio avviso, la Bellezza è una dimensione (soggettiva) valoriale dell’esperienza d’acquisto che troppi finora nel Retail hanno dimostrato di trascurare.

Le linee guida per il disegno di uno store spesso sono frutto solitamente di scelte estetiche o solo funzionali ma che hanno al centro il prodotto e l’organizzazione del personale, finalizzate all’esposizione dell’offerta, per garantire massimizzazione della rendita della superficie, efficienza nella gestione dello stock ecc.

E il Cliente, con la sua decantata centralità?

Gli store andrebbero disegnati in modo tale che vi sia spazio per il Cliente, lasciando a questi momenti di “respiro” nel corso della sua shopping experience, rappresentando la propria offerta in modo da agevolarne la lettura, senza sovra-sistemi comunicativi che hanno spesso l’effetto di creare confusione e disorientare il Cliente (in questo, mi sia concesso, gli ipermercati della “grande I” spesso rasentano la cacofonia…) ricordandosi sempre che la coerenza dei toni e nei messaggi della comunicazione  (tra negozio, volantino, media, web, social…) non vive a comparti stagni, ma deve essere un unicum per il Cliente.

La luce naturale, l’assenza di barriere architettoniche, il nuovo disegno degli spazi all’interno dell’ipermercato e l’integrazione di questo con il mall e la ristorazione sono solo alcune delle scelte che caratterizzano IlCentro di Arese e testimoniano non tanto (non solo) un gusto architettonico, quanto una reale attenzione al Cliente e al modo in cui questi può fruire degli spazi, in modo da migliorarne l’esperienza.

Quindi la piacevolezza, la bellezza del momento d’acquisto (non solo la bellezza dei luoghi) deve essere uno degli obiettivi dei retailers.

Perché attenzione alla Bellezza significa attenzione al Cliente e alla sua esperienza.

Questa attenzione potrà essere un’eccezionale leva nel confronto tra retail fisico e retail online., soprattutto se coniugata con un’altrettanto forte attenzione alla relazione.

Ricordando che non ha più senso distinguere tra online e offline- perché il Cliente non fa più certe distinzioni…- il Retail ha nelle sue mani la possibilità di dare un nuovo senso al negozio fisico, per evitare che si avveri la previsione (che preferisco considerare monito) di Marco Brunelli, ovvero che i centri commerciali divengano dei grandi cataloghi per Amazon.

Serve una nuova capacità di disegnare gli spazi, non lasciandola nelle mani di pur bravi designer e architetti, nella quale giochi un ruolo centrale il Marketing e la sua capacità (dovere, direi) di farsi portavoce forte delle esigenze del Cliente.

La Bellezza: ecco la nuova leva del marketing mix.

 

@danielecazzani