IL MIO PENSIERO SULLA SOSTENIBILITÀ E IL POSSIBILE (AUSPICABILE) RUOLO DEL RETAIL (MIO INTERVENTO SUL N.315 DI MARKUP)

Cercate su Google la parola “sostenibilità” e osservate a quali immagini è associata: molto spesso una mano che si prende cura della terra, di una foglia, di una pianta. Verde poi è il colore di questa parola. Una parola positiva, che rassicura e ci fa subito sentire BUONI e in sintonia con tutto il mondo.

Eppure, eppure… la sensazione è che siamo molto MOLTO DISTANTI dal poter dare una patente di sostenibilità alla maggior parte delle nostre azioni, perché abbiamo sempre ottime scuse per rimandare SCELTE che risultano dolorose nella misura in cui il cambiamento è di per sé doloroso (solo a posteriori possiamo, solitamente, apprezzarne i benefici).

Se è oramai chiaro che le modalità con le quali la nostra società ha perseguito lo SVILUPPO- intendo con “nostra” la parte del mondo ricca, non solo l’Occidente che è uso fare mea culpa anche per colpe non solo proprie…- non sono sostenibili per il nostro PIANETA e per le PERSONE che lo abitano, ed è quindi facile capire cosa dovremmo proteggere- appunto la Terra che teniamo amorevolmente in mano- ben più difficile è capire COME dovremmo farlo.

La risposta non può essere certo quella di annullare un paio di millenni di scoperte che hanno portato l’uomo sì ad avere un impatto nefasto sulla Natura, ad esempio accrescendo paurosamente le emissioni di CO2 nell’atmosfera- col conseguente riscaldamento della pianeta con effetti che oramai misuriamo quotidianamente- ma anche ad aumentarne la vita media (e la sua qualità) in tante parti (non tutte, a onor del vero) del mondo, piuttosto che eliminare la “POVERTÀ” (termine troppo generico, me ne rendo conto) per vaste parte della popolazione mondiale.

La realtà è che viviamo (?) vite sempre più VELOCI, consumando il tempo in modo bulimico come se esistesse solo l’oggi e i nostri radar mentali fossero INCAPACI di pensare al domani e, troppo spesso, siamo troppo concentrati su NOI STESSI per accorgerci dell’altro.

Per poter AGIRE in modo sostenibile serve PENSARE in modo sostenibile; pensando cioè al DOMANI e agli ALTRI.

Qui si pone, a mio avviso, il grande problema, ovvero il fatto che le nostre scelte dell’oggi influiranno soprattutto sul futuro degli altri.

Infatti, per quanto siamo tutti pronti a STUPIRICI e a LAMENTARCI per la “bomba d’acqua” vista nel telegiornale serale o al grado in più che ci porta ad accendere i condizionatori anche a settembre (a proposito di sostenibilità…), questi effetti sono nulli rispetto a quelli che si vivono nelle zone più povere del pianeta, come alcuni territori dell’Africa sub-sahariana dove la SICCITÀ ha quasi dimezzato le aree agricole provocando gravi CARESTIE e incentivando i movimenti migratori.

In questo complesso contesto quale può essere, quindi, il ruolo del RETAIL?

Sarebbe irreale, per il Retail, pensare di poter essere da solo un supereroe della sostenibilità sventolando come grandi successi l’utilizzo della carta riciclata per i propri volantini promozionali o l’installazione di pannelli solari sui propri punti vendita.

Il Retail dovrebbe e potrebbe avere un approccio più umile ma, al contempo, molto più efficace sul tema.

Un ruolo fondamentale proprio perché si trova ad essere- ben più dell’industria- a stretto CONTATTO col consumatore finale, ovvero colui che compie le scelte e col quale può instaurare un DIALOGO sui valori della sostenibilità (non solo ambientale ma anche sociale) rifuggendo l’idea di essere lui “educatore” del cliente, anzi sapendo restare in ASCOLTO dei desideri, dei bisogni e dei feedback proprio dei clienti.

Il ruolo del Retail può essere fondamentale anche per la capacità di agire sulle FILIERE produttive, attraverso la selezione dei propri fornitori, e la capacità di guida di quelli verso gli obiettivi di sostenibilità (anche economica, ovvero in grado di garantire la corretta retribuzione a tutti gli anelli della filiera).

Un ruolo cruciale pertanto, ma estremamente difficile da interpretare proprio perché- tornando a quando dicevo sopra- si tratta di fare scelte oggi i cui benefici si vedranno domani.

Una scelta strategica, in sintesi, in un Retail troppo spesso votato alla tattica…

Daniele Cazzani

IL RETAIL E IL SACRO GRAAL (L’ENNESIMO) DELLA GENERAZIONE Z

Ipsilon, Millennials, Zeta, Alpha… Alzi la mano chi di fronte al fiorire dei nomi delle nuove generazioni non avverte spesso una sensazione di spaesamento.

Soprattutto in questi ultimi anni il retail si è concentrato sulle ultime arrivate di questa lunga (infinita) lista, nel tentativo di diventarne interlocutore e conquistarne fiducia e portafoglio.

Gli studi sociologici su queste ultime generazioni per comprendere quali siano ne siano le caratteristiche valoriali e di approccio al consumo si sprecano. Oltre alla scontata dimestichezza con tutto ciò che è digitale– il sottoscritto, invece, può ancora ricordarsi lo stupore nel giocare a Space Invaders con la prima consolle Atari 2600- gli studi raccontano di come siano molto attenti alla sostenibilità sociale e ambientale, alle esperienze da condividere più che ai consumi da ostentare e naturalmente… social.

Il fatto che si tratti di generazioni con un minore potere d’acquisto- molti sono infatti ancora studenti e dipendenti dalle famiglie- sembra interessare poco il retail che negli anni ha moltiplicato i touchpoints per prendere all’amo questi consumatori e vendere loro qualcosa, trascurando forse troppo la loro ricerca di ascolto e dialogo che i sociologi invece non mancano mai di sottolineare.

Anche in questo caso il retail ha dimostrato spesso di muoversi in base a un riflesso condizionato più tattico che strategico: come nel caso dell’adozione delle nuove tecnologie (quanti siti di e-commerce abbiamo visto nascere senza considerarne i connessi aspetti logistici!?) anche alla parola d’ordine “la generazione z deve essere nostra!” abbiamo registrato una fioritura di iniziative approssimative con brand dalla secolare tradizione tentare goffe e poco credibili virate verso linguaggi e marketing da startupper.

In tutto questo affaccendarsi il retail rischia spesso di perdere di vista uno dei tasselli fondamentali di qualsiasi strategia di marketing che è la definizione del proprio target.  Pensiamo ad esempio alla GDO, per cui la demografia dovrebbe contare davvero poco: nelle corsie di un supermercato si vedono giovani studenti e coppie di anziani, così come single o famiglie con bimbi al seguito. Insomma uno spaccato della nostra società.

Immaginare di parlare solo a una porzione di quei clienti può essere pericoloso così come illudersi che basti personalizzare il linguaggio (anziché il messaggio) in base all’età del cliente: il rischio, in quel caso, sarebbe una cacofonia di difficile interpretazione.

Inoltre dobbiamo considerare come anche le ricerche che prima citavo siano spesso riassunte in fotografie alquanto semplicistiche delle diverse generazioni.

Scorrendo questi riassunti scopriremmo ad esempio come i baby boomers risultino essere persone affezionate ai brand, con reddito medio alto, salvo poi riflettere sul fatto che buona parte sono oggi pensionati (con limitata capacità di spesa)…

Personalmente credo che il retail dovrebbe fare proprio l’approccio di Amartya Sen che (nel suo famoso saggio “Identità e violenza” dall’ancora più profetico sottotitolo “L’illusione del destino”) metteva in guardia dall’applicare semplicistiche etichette a una persona (o a una generazione, nel nostro caso).

Il lockdown ad esempio ha portato a una (forzosa) digitalizzazione anche dei baby boomers che non hanno impiegato molto a trovarsi a loro agio negli spazi dell’e-commerce: anzi, recenti analisi, dicono proprio che una quota importante della crescita dell’online sia imputabile a questi nuovi adopters. In pratica la loro fotografia si è rapidamente modificata.

In conclusione, il retail, questo è il mio modesto suggerimento, dovrebbe capire quanto sia sbagliato concentrarsi solo su una generazione (solitamente l’ultima) o credere ciecamente alle etichette sociologiche: fare retail significa parlare col singolo cliente non con una “generation” quale che sia.

@danielecazzani

DAL NUMERO 305 DI MARK-UP

APRIAMO AI CLIENTI LE PORTE DELLA C-SUITE

E’ aspettativa diffusa che il livello dei consumi impiegherà alcuni anni per tornare a livelli pre-Covid e, verosimilmente, con velocità diverse in funzione del settore e del Paese.

Concentrandoci sullo scenario italiano, pur volendo fare professione di ottimismo e accogliere quindi anche gli scenari migliori, non possiamo non considerare che a cambiare sarà anche il mix e i canali di consumo (scegliete voi quale proiezione sulla crescita dell’e-commerce preferite…).

Ritengo che il Retail debba sfruttare quanto imparato nella navigazione di questo primo anno di convivenza col Covid per disegnare il proprio futuro, partendo prima di tutto dalla propria organizzazione interna.

Servono oggi nuove competenze e organizzazioni più flessibili, chiamate ad eseguire rapidamente azioni che siano misurabili nel breve e permettano agili cambi di direzione.

La crisi ha riportato al centro dell’attenzione il cliente e con esso il customer service, così come il ruolo dei social come connettori relazionali coi propri clienti e il ruolo del digitale a servizio del cliente (la parola omnichannel finalmente tradotta in realtà) solo per citare alcuni esempi.

Il fatto che abbia ripetuto più volte la parola “cliente” non è un caso.

Il nuovo retail deve essere orientato al cliente più ancora che al prodotto o servizio offerti.

Affinché ciò avvenga, per tornare al punto centrale, anche le organizzazioni devono essere orientate al cliente, spingendo sulla creazione di un Chief Customer Officer che porti nella C-suite la voce, i bisogni e i sogni dei clienti.

E’ il momento che un altro mantra degli ultimi anni, ovvero customer centricity, divenga realtà.

@danielecazzani

IL RETAIL DEVE FARE ROTTA VERSO IL CLIENTE IN QUESTO MARE INCERTO (MA NON CHIAMIAMOLO DESTINO…)

A fine anno si è soliti fare il consuntivo di quanto accaduto nei mesi precedenti e le previsioni (che spesso confondiamo coi nostri buoni propositi) per l’anno che verrà.

Il 2020- con la maledetta comparsa nelle nostre vite del coronavirus- ci ha insegnato come le previsioni (sia nell’area personale che in quella professionale) siano deboli come foglie al vento dell’autunno in un contesto in continuo, inarrestabile e imprevedibile mutamento. Ovviamente questa consapevolezza e quanto successo- ovvero i trend immaginati dai guru del marketing spazzati via come carta straccia…- non devono portare il Retail ad assumere una posizione attendista o, peggio ancora, fatalista.

Oggi più che mai è necessario definire delle proprie strategie per affrontare questo difficile momento, esattamente come di fronte a una tempesta in mare aperto la soluzione non è attendere di vedere dove ci porteranno le correnti- scelta perdente a prescindere!- quanto disegnare una propria rotta e scegliere le vele più adatte e, nel contempo, chiamare alla massima unità d’intenti tutto l’equipaggio.

Nel delicato equilibrio di una barca nella tempesta o di un’’organizzazione in un momento di crisi, lo scollamento di singoli elementi può risultare fatale.Ripartiamo quindi dalle persone: mettendole a centro delle strategie, coinvolgendole nelle scelte, senza raccontare la favola del “un pò di pazienza e tutto tornerà come prima”, ma condividendo in modo trasparente le difficoltà e le opportunità che questo momento offre.

Come ha insegnato la rivoluzione dello smart working a tante organizzazioni si può lavorare in modo diverso e anche migliore, anche quando le scelte sono forzate da elementi esterni.E’ proprio al contesto esterno che bisogna avere il coraggio di guardare, per capirne il nuovo assetto.

Devo però confessare che termini come “new normal” personalmente non mi appassionano, perché troppo spesso ci si concentra solo su alcuni degli effetti di superficie che la crisi innescata dal Covid-19 ha comportato come la crescita dell’e-commerce. Guarda caso solitamente l’attenzione si concentra sugli elementi positivi e non ad esempio quelli negativi come l’aumento dei lavoratori in cassa integrazione, la riduzione della propensione al consumo e l’inasprimento delle differenze sociali…

Senza quindi distogliere lo sguardo dalla realtà che lo circonda credo il Retail abbia oggi l’opportunità- ma vorrei dire l’obbligo- di tornare a focalizzarsi su due aspetti fondamentali.Innanzi tutto i propri clienti. E’ giunto il momento che una parola quale “customer experience” si traduca in reali progetti. I retailers devono compiere un grande sforzo per disegnare le journeys dei propri clienti (il plurale è già indice della difficoltà del compito in un mondo omnichannel…), misurare l’efficacia della customer experience che offrono (quanti ancora oggi non misurano l’NPS, che possiamo considerare un primo tassello in questa direzione?), e continuare a migliorarla e arricchirla- ascoltando i feedback dei propri clienti e osservando la concorrenza e il mercato anche fuori dai confini del proprio settore- in un processo di learning by doing che coinvolga appieno tutte le funzioni aziendali.

Solo un questo modo, mettendo al centro dell’attenzione il cliente, il Retail potrà affrontare il nuovo contesto dando un senso alla sua presenza brick & mortar laddove le relazioni tra persone possono fare la differenza.

Il secondo aspetto è legato alle promozioni. Penso sia giunto il tempo di ridefinirne il ruolo: non intendo con questo certo dire che il prezzo non sia più un driver importante nelle scelte dei consumatori, ma prezzo non equivale a promozione. Così come promozione non per forza deve equivalere a taglio prezzo. Anche in questo ambito il Retail è chiamato a innovare passando da approcci mass market ad approcci tailor made, con promozioni (che possono essere intesi anche come nuovi servizi) ritagliate sui bisogni dei singoli così che siano davvero rilevanti e orientanti nelle scelte di consumo.

In conclusione, se nemmeno questa crisi avrà avuto la forza di far cambiare strategie a tanto Retail temo che nei prossimi mesi vedremo sempre più saracinesche abbassate. In quel (drammatico) caso potremo forse dare la colpa anche a qualche DPCM, ma non certo al solo destino…

@danielecazzani

IL RETAIL E L’ILLUSIONE DEL TEMPO (A PROPOSITO DI BLACK FRIDAY)

RIPRENDO IL MIO ARTICOLO PUBBLICATO SU PROMOTION MAGAZINE.

Il Black Friday negli ultimi anni si è affermato come uno dei momenti più importanti dal punto di vista delle vendite per buona parte del retail: è l’evento che dà ufficialmente l’avvio alla stagione natalizia ed è anche per questo supportato da grandi investimenti di comunicazione sui media tradizionali, web e social.

Anche le categorie dapprima più fredde sul tema (o più distanti dallo spirito originario dell’iniziativa) come la GDO si sono via via avvicinati a questo evento e propongono oggi sconti e opportunità extra.

Il Retail però pare essersi lasciato prendere dal gioco, trasformando il day dapprima in una week per finire oggi ad avere in palinsesto quasi un mese di promozioni sotto il cappello (sempre più consunto) “Black Friday”.

Si tratta, a mio avviso, di una pericolosa illusione. Pensare infatti che estendere la durata di una promozione sia la soluzione magica per risolvere i propri problemi di fatturato- non certo quelli di marginalità!- è sintomo di un approccio tattico e non strategico allo sviluppo proprio business.

Se la soluzione fosse così facile perché non anticipare il Natale a settembre? A dire il vero a giudicare dalle corsie di tanti ipermercati invasi da panettoni & c. già ad ottobre, temo che qualcuno vi abbia già pensato…

Tornando all’illusione del Black Friday, sono almeno due gli effetti negativi da considerare. 

In primis l’estensione del periodo promozionale costringe il retail a ridurre la qualità degli sconti, sia in termini percentuali (e quindi di opportunità di reale risparmio per i propri clienti) sia in termini di ampiezza e profondità, arrivando a mettere in sconto prodotti vecchi, dando così l’impressione che l’evento sia visto anche come momento per svuotare i propri magazzini da anticaglie altrimenti invendibili.

In seconda battuta dobbiamo considerare l’effetto “stallo” nella scelta di acquisto: i consumatori oggi attendono le offerte del black friday e quindi procrastinano l’acquisto. Dobbiamo anche considerare che il proliferare delle offerte rende la scelta paradossalmente più difficile e complicata: provate a voler comprare una lavatrice in questo periodo e avrete la quasi certezza di non avere fatto il miglior deal della vostra vita per il timore di avere perso qualche super-offerta in qualche sito su cui non avete nagivato…

Si tratta di un effetto simile a quello dei saldi di fine stagione, della cui efficacia avremmo forse modo di parlare in altra occasione.

In conclusione, l’estensione della durata, il depotenziamento del reale vantaggio/sconto e un’ampiezza dell’offerta non declinata sull’ordinata della qualità ma solo sull’ascissa della qualità rischiano di indebolire la caratteristica dell‘eccezionalità dell’evento Black Friday e i conseguenti risultati.

Anche senza rifarsi al modello (ben più di successo) del Single Day di Alibaba, credo sia arrivato il momento per un profondo ripensamento del Black Friday, altrimenti il rischio che vedo è che ad essere black sia il futuro di un Retail che dovrebbe invece tornare a fare strategia abbandonando la ricerca di evanescenti formule magiche.

 

@danielecazzani

KIERKEGAARD E L’ANGOSCIA NEL #RETAIL

Potremmo così grezzamente sintetizzare i macro fenomeni che hanno caratterizzato il retail negli ultimi anni:

  • la riduzione dei consumi e
  • l’aumento dell’offerta (sia in termini di prodotti che di canali)

Dando come assodato come la moltiplicazione (e ibridazione) dei canali di vendita sia avvenuta soprattutto come risposta all’evoluzione tecnologica (mobile, social network ed esplosione dell’e-commerce) soffermiamoci sul secondo punto.

E’ indubbio che l’aumento dell’offerta di prodotti (o servizi) disponibili sia stata una delle leve più utilizzate dal retail per contrastare proprio la contrazione dei consumi.

Ma un aumento tout court dell’assortimento proposto al cliente può in realtà determinare nel cliente l’angoscia della scelta, intesa- riprendendo la lezione di Kieerkegaard- come conseguenza di una condizione in cui tutto è possibile e l’eccesso di possibilità aumenta le possibilità di errore…

L’aumento delle alternative può paradossalmente portare il consumatore a una situazione di stallo nella scelta con conseguenza negative sull’esperienza propria (e quella del retailer).

In ambito e-commerce la presenza di filtri per la navigazione degli assortimenti riduce talvolta questo rischio anche se spesso la loro impostazione non è fatta in ottica consumer-centrica ma prodotto-centrica replicando gli alberi merceologici dei prodotti che non è affatto detto siano coincidenti con gli alberi decisionali dei consumatori.

Negli store fisici questo compito di guidare il cliente nella navigazione della propria proposta viene quasi sempre dimenticato. Raramente si trovano directory e ancor più raramente il personale in store risulta avere tra i propri compiti (e competenze) il guidare il cliente tra reparti e corsie.

Anche questo aspetto porta molti consumatori a preferire l’e-commerce a uno store brick & mortar; ma se questo avviene la colpa non è di Amazon & c. ma di tanti manager che ancora non hanno capito CHI sia il proprio cliente e quale EXPERIENCE sia necessario disegnare nel 2019 per poter sopravvivere nel complesso mondo del retail.

Ma veniamo ora brevemente al panino del titolo.

Partiamo da una foto.

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Si tratta del menù di un piccolo locale di Milano che propone ottimi panini con un servizio rapido e piuttosto efficace.

Il menù come si può desumere è strutturato in ordine alfabetico. Non per ingrediente principale, non per tipo di panino, non per prezzo, non per categoria (ad es vegano…) ma alfabetico.

Insomma l’assortimento è proposto con una logica che non è coerente con l’approccio del cliente a questo tipo di consumo (a meno di non pensare che qualcuno entri in una paninoteca pensando “oggi mi voglio gustare un panino che inizi con la lettera p”!?).

Io ho dovuto cercare con attenzione nel ricco menù per trovare il mio panino alla bresaola 😦

Insomma anche da un menù correttamente strutturato il retail potrebbe trarre l’insegnamento che la rappresentazione della scelta è al cuore dell’esperienza dei clienti, ai quali va evitata una condizione di angoscia che porta molto spesso a un non consumo.

@danielecazzani

 

NOTA FINALE

Suggeriamo sul tema la lettura del libro “Troppa scelta” del prof. Guido Lugli dell’Università di Parma.

INFLUENCER: I NUOVI TULIPANI DEL RETAIL

Di seguito la mia opinione da Mark Up n. 282 (settembre 2019) sul tema sempre più dibattuto degli influencer: una moda o un nuovo canale per intercettare i propri target?

L’influencer marketing è un “tool” sempre più utilizzato dal retail e sempre più complesso da maneggiare. Versione social di uno strumento cardine dell’advertising soprattutto televisivo, ovvero l’endorsement. A fare la differenza è la disintermediazione: oggi è l’influencer a relazionarsi direttamente con il consumatore, con un proprio linguaggio di comunicazione, solitamente non coerente con quello del brand. L’utilizzo tattico di questa nuova leva e la reale mancanza di una struttura certificata di metriche, rendono però labili tutte le asserzioni circa la sua reale efficacia.
I sempre maggiori investimenti sono spesso il riflesso condizionato della riduzione dei budget da altri strumenti che non hanno saputo evolversi rapidamente tanto quanto lo ha fatto il consumatore.
Oggi chi si permette di evidenziarne i limiti viene spesso guardato con disapprovazione, così come lo erano quanti nel Seicento avevano provato in Olanda a sottolineare l’insensata ed esagerata quotazione dei bulbi di tulipani. La storia dei tulipani è nota ai più, mentre quella dell’influencer marketing può ancora essere scritta e con un finale auspicabilmente migliore, sempre che si voglia davvero adottare un approccio più pragmatico per la sua gestione.
Potremmo infine soffermarci sul motivo per il quale la maggior parte dei retailer non sia capace di sfruttare appieno l’enorme patrimonio di advocacy costituito dai propri clienti, piuttosto che andare alla ricerca di più o meno reali influencer. Ma per farlo dovremmo parlare dei limiti del Crm nel retail e della sua spesso assurda sudditanza alle altre aree del marketing …

Qual è la vostra opinione in merito? Utilizzate influencer? Come li selezionate e come ne misurate le performance?

@nmr_italy

LA GDO E’ DISSOCIATA DALLA REALTÀ?

La GDO è solita lamentarsi per la contrazione dei CONSUMI, la sempre maggiore concorrenza tra format (…i discount non sono più quelli di una volta!) e l’avvento dell’E-COMMERCE e dei grandi player come Amazon che sembrano imbattibili.

Eppure dobbiamo ammettere che proprio la GDO sembra essere per prima responsabile delle proprie sorti perché incapace nel leggere i mutamenti della società, degli STILI DI VITA e quindi dei consumi.

La sua relazione quotidiana con milioni di consumatori le permetterebbe di indirizzare le scelte dell’industria (che manca spesso del rapporto diretto col consumatore), invece la GDO ne continua a subire le scelte (a volte assurde) in termini di assortimenti e prodotti (quanti prodotti falliti si trovano sugli scaffali!?).

Facciamo un esempio.

Settembre è il terzo periodo dell’anno in cui si ha un’impennata nella ricerca di informazioni in merito a DIETE e prodotti salutistici, subito dopo giugno (la prova costume! la prova costume!) e la prima settimana dell’anno (come smaltire panettoni & c.?). Vedere grafico sotto (fonte Google trends).

DIETA GOOGLE

Eppure i volantini della GDO sembrano IGNORARE questa domanda e, anzi, presentano “speciali prima colazione” ricchi di carboidrati e zuccheri, per poi magari stupirsi della riduzione dell’efficacia promozionale (e come soluzione che si fa? si aumenta la pressione promozionale!).

Sincronizzare i propri OROLOGI PROMOZIONALI ai desiderata dei clienti potrebbe essere una scelta semplice ed efficace per ridurre le difficoltà di un settore che, altrimenti, continuando nel suo miope “paste and copy” strategico, rischia di essere messo a dieta dai propri clienti.

Alla GDO serve un cambio di visione e di cultura manageriale.

Buon rientro a tutti!

@nmr_italy

INTELLIGENZA ARTIFICIALE (AI) E RETAIL

Pubblico di seguito il mio intervento riportato sul numero di settembre 2018 di MarkUp.

 

Intelligenza Artificiale.

Argomento sempre più trattato in incontri, seminari e convegni. Di fatto fattore che sempre più nei prossimi anni sarà disruptive per strategie e organizzazioni nel retail.

Anziché sull’aggettivo vorrei però porre l’attenzione sul sostantivo. Intelligenza: con questa parola intendo didascalicamente riferirmi alla capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e dall’esperienza.

E dunque, oggi quanto è intelligente il retail? Si parla di Big data e non c’è dubbio che la quantità di informazioni oggi disponibili sui nostri clienti sia davvero impressionante. Eppure da consumatori si ha spesso la sensazione che il retail non ci conosca e continui a farci proposte che non tengono conto delle nostre preferenze. Certo si dirà che questo challenge è più facile per gli eTailer. Tuttavia che un retailer “tradizionale” non sappia riconoscere un cliente in modo univoco nonostante i sempre più numerosi touchpoint dimostra, più che una lacuna tecnica, una lacuna culturale, forse solo in parte dipendente da una storica contrapposizione tra It e marketing.

Se il cliente deve essere al centro delle strategie del retail (da quanti anni sentiamo ripeterlo?) il retail deve conoscerlo, anche abbattendo barriere di incomunicabilità e gelosie tra funzioni.

All’interno di questo nuovo paradigma le carte fedeltà possono, devono, assurgere a un ruolo centrale attraverso i diversi touchpoint. Ancora una volta è Amazon a dimostrare come questa sia la strada vincente con la trasformazione di Amazon

#LOYALTY GENERATION GAP

DI SEGUITO L’EXTENDED VERSION DEL MIO ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI MARZO 2018 DI MARKUP.

Baby boomers, generazione x, millennials, generazione z… Non v’è dubbio alcuno che sempre più il concetto di generazione risulti essere importante nelle strategie del moderno retail.

L’attenzione ai millennials e alla- ancora più giovane- generazione z è testimoniata da ricerche, convegni e studi che però spesso sembrano sottacere il fatto che proprio queste giovani generazioni, da tanti retailer viste come nuova terra di conquista, in realtà sono caratterizzate da un basso indice di fedeltà ai brand e, soprattutto, da un basso potere di spesa.

Non che vi sia nulla di cui stupirsi: pensando al panorama italiano, basta considerare come queste generazioni siano in realtà composte da giovani spesso disoccupati, o con contratti a tempo determinato o stage- cui sono correlati bassi livelli salariali- e che vivono in molti casi coi propri genitori fin oltre i trent’anni.

Potere di spesa a parte, certamente l’entrata nel mercato di queste generazioni- avvezze fin da subito ai nuovi digital device- ha avuto un impatto anche sui media utilizzati dai retailer, visto che la tv (almeno quella tradizionale) diventa sempre meno importante nella dieta mediatica quotidiana dei giovani, a favore del web e del social, arene nelle quali infatti tanti retailer si sono forzosamente e spesso affannosamente gettati.

E’ inoltre importante non cadere in facili stereotipi, come quello che abbina nuove generazioni ed e-commerce.

Come dimostra infatti una recente ricerca svolta da Accenture nel mercato USA i giovani consumatori nati dopo il 2000 (la generazione z di cui sopra) preferiscono effettuare acquisti negli store brick & mortar, non via e-commerce, pur pretendendo di trovare i retailer presenti anche sul web o nei social, con un coerente approccio multicanale.

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Se cerchiamo però di valutare l’impatto del nuovo composit generazionale sui programmi loyalty, dobbiamo prendere atto di come si siano registrate minime innovazioni su questo fronte negli ultimi anni.

Come se i retailer, su altri fronti pronti a rivedere assortimenti, politiche promozionali e piani media, sul lato della loyalty avessero immaginato che tutto potesse rimanere com’era.

Purtroppo non è così.

Millennials e generazione z sono, come clienti, ben diversi dalla precedente generazione x o ancor più dai baby boomers. Non parlo ovviamente di gusti o preferenze per questo o quel prodotto, ma di approccio al consumo e di orizzonti temporali.

Le precedenti generazioni- mi si permetta di semplificare qui alcuni insight tratti da diverse ricerche sociologiche (lettura sempre da consigliare al retail)- vedevano nel prodotto un fine (l’attestazione del raggiungimento di un traguardo) e l’orizzonte temporale delle proprie scelte era quello medio-lungo, quello per intenderci del piano di risparmio per l’acquisto della casa e l’accensione del mutuo o della lunga carriera (fata di tanti, solidi, gradini) all’interno di un’organizzazione aziendale e sociale.

Millennials e generazione z vivono l’oggi, e per essi il prodotto è elemento di un’esperienza non un obiettivo in quanto tale.

La loro infedeltà (al brand, ma anche al posto di lavoro, come lamentano tanti forum di hr manager) nasce da questo nuovo approccio culturale al consumo, non da altro.

Inoltre millennials e generazione z sono caratterizzati da un maggiore individualismo (che si apre agli altri nel momento della condivisione ex post di una propria esperienza), rispetto alla precedenti generazioni che condividevano un più ampio paniere di ideali (spesso contrapponendosi gli uni agli altri proprio in funzione di questi) e di obiettivi sociali e di vita (il matrimonio, la casa e il lavoro erano il trittico di questo “altare culturale”).

Per citare Bauman, sono la generazione della connettività, non della collettività.

Certo, l’età non dice tutto dei propri clienti, né è pensabile che si possa costruire una strategia di loyalty basata solo su questo parametro, ma un moderno retail deve prendere atto che, oggi più che ieri, è necessario tenerne conto anche in ambito loyalty e, in tal senso, ripensarsi e reinventarsi.

Non solo nei contenuti (come premi meno “cose” e più “esperienze” o “cose che abilitano esperienze”), nelle meccaniche (la formula “1 euro uguale 1 punto” è equazione della banalità, quando invece si potrebbero considerare numerosi altri comportamenti del cliente) e nei tempi (chiedere a un giovane di programmare acquisti per molti mesi per arrivare all’obiettivo è chiedere quasi un comportamento contro-natura).

Ad esempio, in relazione a quest’ultimo parametro il programma Vodafone Happy, che ogni venerdì premia i propri iscritti con un “regalo”, dimostra di avere ben compreso questa nuovo approccio.

Soprattutto per non perdere appeal verso le nuove generazioni- senza dimenticare con questo le precedenti- i programmi loyalty potrebbero essere strutturati non più come rigidi palinsesti, ma in modo flessibile, permettendo ai singoli clienti (quindi anche alle nuove generazioni) di costruire un proprio programma, sulla falsariga di quanto è successo con l’arrivo di Netflix nel mondo televisivo.

Non si tratta certamente di un cambiamento facile, ma siamo certi che vi sia un’altra strada e che i programmi loyalty possano continuare a ignorare la realtà?

@danielecazzani