IL MIO PENSIERO SULLA SOSTENIBILITÀ E IL POSSIBILE (AUSPICABILE) RUOLO DEL RETAIL (MIO INTERVENTO SUL N.315 DI MARKUP)

Cercate su Google la parola “sostenibilità” e osservate a quali immagini è associata: molto spesso una mano che si prende cura della terra, di una foglia, di una pianta. Verde poi è il colore di questa parola. Una parola positiva, che rassicura e ci fa subito sentire BUONI e in sintonia con tutto il mondo.

Eppure, eppure… la sensazione è che siamo molto MOLTO DISTANTI dal poter dare una patente di sostenibilità alla maggior parte delle nostre azioni, perché abbiamo sempre ottime scuse per rimandare SCELTE che risultano dolorose nella misura in cui il cambiamento è di per sé doloroso (solo a posteriori possiamo, solitamente, apprezzarne i benefici).

Se è oramai chiaro che le modalità con le quali la nostra società ha perseguito lo SVILUPPO- intendo con “nostra” la parte del mondo ricca, non solo l’Occidente che è uso fare mea culpa anche per colpe non solo proprie…- non sono sostenibili per il nostro PIANETA e per le PERSONE che lo abitano, ed è quindi facile capire cosa dovremmo proteggere- appunto la Terra che teniamo amorevolmente in mano- ben più difficile è capire COME dovremmo farlo.

La risposta non può essere certo quella di annullare un paio di millenni di scoperte che hanno portato l’uomo sì ad avere un impatto nefasto sulla Natura, ad esempio accrescendo paurosamente le emissioni di CO2 nell’atmosfera- col conseguente riscaldamento della pianeta con effetti che oramai misuriamo quotidianamente- ma anche ad aumentarne la vita media (e la sua qualità) in tante parti (non tutte, a onor del vero) del mondo, piuttosto che eliminare la “POVERTÀ” (termine troppo generico, me ne rendo conto) per vaste parte della popolazione mondiale.

La realtà è che viviamo (?) vite sempre più VELOCI, consumando il tempo in modo bulimico come se esistesse solo l’oggi e i nostri radar mentali fossero INCAPACI di pensare al domani e, troppo spesso, siamo troppo concentrati su NOI STESSI per accorgerci dell’altro.

Per poter AGIRE in modo sostenibile serve PENSARE in modo sostenibile; pensando cioè al DOMANI e agli ALTRI.

Qui si pone, a mio avviso, il grande problema, ovvero il fatto che le nostre scelte dell’oggi influiranno soprattutto sul futuro degli altri.

Infatti, per quanto siamo tutti pronti a STUPIRICI e a LAMENTARCI per la “bomba d’acqua” vista nel telegiornale serale o al grado in più che ci porta ad accendere i condizionatori anche a settembre (a proposito di sostenibilità…), questi effetti sono nulli rispetto a quelli che si vivono nelle zone più povere del pianeta, come alcuni territori dell’Africa sub-sahariana dove la SICCITÀ ha quasi dimezzato le aree agricole provocando gravi CARESTIE e incentivando i movimenti migratori.

In questo complesso contesto quale può essere, quindi, il ruolo del RETAIL?

Sarebbe irreale, per il Retail, pensare di poter essere da solo un supereroe della sostenibilità sventolando come grandi successi l’utilizzo della carta riciclata per i propri volantini promozionali o l’installazione di pannelli solari sui propri punti vendita.

Il Retail dovrebbe e potrebbe avere un approccio più umile ma, al contempo, molto più efficace sul tema.

Un ruolo fondamentale proprio perché si trova ad essere- ben più dell’industria- a stretto CONTATTO col consumatore finale, ovvero colui che compie le scelte e col quale può instaurare un DIALOGO sui valori della sostenibilità (non solo ambientale ma anche sociale) rifuggendo l’idea di essere lui “educatore” del cliente, anzi sapendo restare in ASCOLTO dei desideri, dei bisogni e dei feedback proprio dei clienti.

Il ruolo del Retail può essere fondamentale anche per la capacità di agire sulle FILIERE produttive, attraverso la selezione dei propri fornitori, e la capacità di guida di quelli verso gli obiettivi di sostenibilità (anche economica, ovvero in grado di garantire la corretta retribuzione a tutti gli anelli della filiera).

Un ruolo cruciale pertanto, ma estremamente difficile da interpretare proprio perché- tornando a quando dicevo sopra- si tratta di fare scelte oggi i cui benefici si vedranno domani.

Una scelta strategica, in sintesi, in un Retail troppo spesso votato alla tattica…

Daniele Cazzani

#HUMANRETAIL

Non è più tempo per ALIBI (nonostante ve ne sarebbero molti in questo periodo..).

È tempo che il Retail si focalizzi sui propri CLIENTI- ricordandosi l’errore fatto negli anni passati in cui ha lasciato questo vantaggio competitivo ai player dell’online- non ascoltando chi dice che la “CUSTOMER CENTRICITY” sia una chimera (affermazione che sembra una versione moderna della favola del lupo e dell’uva di Esopo).

Il Retail deve concentrarsi anche sulle sue PERSONE, tra le quali si nascondono TALENTI e passioni che non attendono altro che di essere ascoltati e attivati.

La Distribuzione si trova di fronte a un bivio importante che richiede scelte e CORAGGIO: non è più tempo di tattici 3×2 o sottocosto ma di una profonda INNOVAZIONE, non tanto digitale quanto nei propri manager e nelle proprie STRATEGIE.

Nel video le mie considerazioni al termine del Marketing & Retail Summit di Milano che,come sempre, è stato un ricchissimo di spunti e stimoli.

@danielecazzani

APRIAMO AI CLIENTI LE PORTE DELLA C-SUITE

E’ aspettativa diffusa che il livello dei consumi impiegherà alcuni anni per tornare a livelli pre-Covid e, verosimilmente, con velocità diverse in funzione del settore e del Paese.

Concentrandoci sullo scenario italiano, pur volendo fare professione di ottimismo e accogliere quindi anche gli scenari migliori, non possiamo non considerare che a cambiare sarà anche il mix e i canali di consumo (scegliete voi quale proiezione sulla crescita dell’e-commerce preferite…).

Ritengo che il Retail debba sfruttare quanto imparato nella navigazione di questo primo anno di convivenza col Covid per disegnare il proprio futuro, partendo prima di tutto dalla propria organizzazione interna.

Servono oggi nuove competenze e organizzazioni più flessibili, chiamate ad eseguire rapidamente azioni che siano misurabili nel breve e permettano agili cambi di direzione.

La crisi ha riportato al centro dell’attenzione il cliente e con esso il customer service, così come il ruolo dei social come connettori relazionali coi propri clienti e il ruolo del digitale a servizio del cliente (la parola omnichannel finalmente tradotta in realtà) solo per citare alcuni esempi.

Il fatto che abbia ripetuto più volte la parola “cliente” non è un caso.

Il nuovo retail deve essere orientato al cliente più ancora che al prodotto o servizio offerti.

Affinché ciò avvenga, per tornare al punto centrale, anche le organizzazioni devono essere orientate al cliente, spingendo sulla creazione di un Chief Customer Officer che porti nella C-suite la voce, i bisogni e i sogni dei clienti.

E’ il momento che un altro mantra degli ultimi anni, ovvero customer centricity, divenga realtà.

@danielecazzani

RECOVERY RETAIL

La pandemia nell’ultimo anno ha costretto il Retail ad affrontare numerose crisi che hanno impattato le reti fisiche, le operations, le piattaforme di e-commerce, le persone, la relazione coi propri clienti…

Crisi profonde che hanno accelerato fenomeni già presenti che in taluni casi qualche manager confidava (forse ingenuamente) di poter gestire nel medio termine (pensiamo alla crescita dell’e-commerce).

Alcune sfide sono state vinte, altre non ancora, ma è indubbio che il Retail abbia fatto un grande- per quanto forzoso- salto in avanti nella sua evoluzione.

Ma questo sforzo da solo non può essere sufficiente.

La pandemia ci restituisce una società provata, più povera, impaurita e con minore fiducia nel futuro– si veda la crescita dei risparmi- tutti aspetti su cui da solo il Retail può e potrà fare ben poco. 

Per questo penso che per aiutare la ripresa sia fondamentale anche il ruolo dell’attore pubblico. 

Non sono certo un nostalgico dello Stato interventista- tornando all’epoca delle partecipazioni statali (che pure hanno ancora oggi tanti affezionati sostenitori)- né penso a una generica richiesta di maggiori o migliori ristori, quanto alla necessità di riconoscere (finalmente) quale sia il ruolo del Retail nell’economia del nostro Paese.

Non penso solo all’incidenza sul PIL (certamente importante) ma, solo per citare alcuni spunti, al ruolo del retail come “anima” pulsante dei centri cittadini e magnete per il turismo, piuttosto che come volano di sviluppo per l’occupazione (anche femminile), o al ruolo importante nella costruzione di una cultura digitale della popolazione italiana (pensiamo in questo caso al tema dei pagamenti cashless).

Soprattutto il retail è il terminale di tante filiere- industriali, artigiane, agricole- che sono eccellenze del nostro Paese ma assurdamente non viene quasi mai considerato quando a quelle si fa riferimento; anzi viene spesso raccontato come ultimo tassello “parassita” che approfitta del lavoro degli altri attori delle stesse (si pensi alla retorica del markup sui prodotti ortofrutticoli ad esempio).

Insomma, il Retail meriterebbe di essere rappresentato al tavolo dove si disegnerà il futuro del nostro Paese (dandosi anche una qualche unitaria rappresentanza, perché oggi non è questione di essere piccoli o grandi, di questa o quella associazione…) o perlomeno di essere ascoltato e conosciuto visto che è il tassello più vicino al cliente/cittadino/consumatore.

Mentre scrivo non so quale sarà la versione finale del tanto atteso recovery plan italiano, ma segnalo che nelle prime versioni- redatte dal precedente Governo- non si trovava traccia alcuna della parola retail, commercio o distribuzione.

Una mancanza che evidenziava la scarsa considerazione che si ha del Retail e che, se confermata, rischierebbe di pregiudicare i grandi sforzi che tante organizzazioni e persone hanno messo in campo in quest’ultimo anno.

Una disattenzione che purtroppo rischia di pesare gravemente sul futuro di milioni di lavoratori.

@danielecazzani

ADDENDUM

Pochi giorni fa Alberto Frausin è stato nominato Presidente di Federdistribuzione: a far discutere è stato il fatto che Frausin arrivi da esperienze manageriali dell’Industria che della Grande Distribuzione è alleata e al contempo nemica (almeno secondo una diffusa cultura manageriale).

Ritengo sinceramente che si tratti di un tema valido per alimentare qualche tweet polemico e poco più; piuttosto la distribuzione e il commercio dovrebbero interrogarsi su quanto della loro nulla capacità lobbystica sia imputabile alla loro medievale suddivisione in feudali associazioni, la cui cacofonia non arriva nemmeno al consumatore…

IL RETAIL DEVE FARE ROTTA VERSO IL CLIENTE IN QUESTO MARE INCERTO (MA NON CHIAMIAMOLO DESTINO…)

A fine anno si è soliti fare il consuntivo di quanto accaduto nei mesi precedenti e le previsioni (che spesso confondiamo coi nostri buoni propositi) per l’anno che verrà.

Il 2020- con la maledetta comparsa nelle nostre vite del coronavirus- ci ha insegnato come le previsioni (sia nell’area personale che in quella professionale) siano deboli come foglie al vento dell’autunno in un contesto in continuo, inarrestabile e imprevedibile mutamento. Ovviamente questa consapevolezza e quanto successo- ovvero i trend immaginati dai guru del marketing spazzati via come carta straccia…- non devono portare il Retail ad assumere una posizione attendista o, peggio ancora, fatalista.

Oggi più che mai è necessario definire delle proprie strategie per affrontare questo difficile momento, esattamente come di fronte a una tempesta in mare aperto la soluzione non è attendere di vedere dove ci porteranno le correnti- scelta perdente a prescindere!- quanto disegnare una propria rotta e scegliere le vele più adatte e, nel contempo, chiamare alla massima unità d’intenti tutto l’equipaggio.

Nel delicato equilibrio di una barca nella tempesta o di un’’organizzazione in un momento di crisi, lo scollamento di singoli elementi può risultare fatale.Ripartiamo quindi dalle persone: mettendole a centro delle strategie, coinvolgendole nelle scelte, senza raccontare la favola del “un pò di pazienza e tutto tornerà come prima”, ma condividendo in modo trasparente le difficoltà e le opportunità che questo momento offre.

Come ha insegnato la rivoluzione dello smart working a tante organizzazioni si può lavorare in modo diverso e anche migliore, anche quando le scelte sono forzate da elementi esterni.E’ proprio al contesto esterno che bisogna avere il coraggio di guardare, per capirne il nuovo assetto.

Devo però confessare che termini come “new normal” personalmente non mi appassionano, perché troppo spesso ci si concentra solo su alcuni degli effetti di superficie che la crisi innescata dal Covid-19 ha comportato come la crescita dell’e-commerce. Guarda caso solitamente l’attenzione si concentra sugli elementi positivi e non ad esempio quelli negativi come l’aumento dei lavoratori in cassa integrazione, la riduzione della propensione al consumo e l’inasprimento delle differenze sociali…

Senza quindi distogliere lo sguardo dalla realtà che lo circonda credo il Retail abbia oggi l’opportunità- ma vorrei dire l’obbligo- di tornare a focalizzarsi su due aspetti fondamentali.Innanzi tutto i propri clienti. E’ giunto il momento che una parola quale “customer experience” si traduca in reali progetti. I retailers devono compiere un grande sforzo per disegnare le journeys dei propri clienti (il plurale è già indice della difficoltà del compito in un mondo omnichannel…), misurare l’efficacia della customer experience che offrono (quanti ancora oggi non misurano l’NPS, che possiamo considerare un primo tassello in questa direzione?), e continuare a migliorarla e arricchirla- ascoltando i feedback dei propri clienti e osservando la concorrenza e il mercato anche fuori dai confini del proprio settore- in un processo di learning by doing che coinvolga appieno tutte le funzioni aziendali.

Solo un questo modo, mettendo al centro dell’attenzione il cliente, il Retail potrà affrontare il nuovo contesto dando un senso alla sua presenza brick & mortar laddove le relazioni tra persone possono fare la differenza.

Il secondo aspetto è legato alle promozioni. Penso sia giunto il tempo di ridefinirne il ruolo: non intendo con questo certo dire che il prezzo non sia più un driver importante nelle scelte dei consumatori, ma prezzo non equivale a promozione. Così come promozione non per forza deve equivalere a taglio prezzo. Anche in questo ambito il Retail è chiamato a innovare passando da approcci mass market ad approcci tailor made, con promozioni (che possono essere intesi anche come nuovi servizi) ritagliate sui bisogni dei singoli così che siano davvero rilevanti e orientanti nelle scelte di consumo.

In conclusione, se nemmeno questa crisi avrà avuto la forza di far cambiare strategie a tanto Retail temo che nei prossimi mesi vedremo sempre più saracinesche abbassate. In quel (drammatico) caso potremo forse dare la colpa anche a qualche DPCM, ma non certo al solo destino…

@danielecazzani

LA GDO E’ DISSOCIATA DALLA REALTÀ?

La GDO è solita lamentarsi per la contrazione dei CONSUMI, la sempre maggiore concorrenza tra format (…i discount non sono più quelli di una volta!) e l’avvento dell’E-COMMERCE e dei grandi player come Amazon che sembrano imbattibili.

Eppure dobbiamo ammettere che proprio la GDO sembra essere per prima responsabile delle proprie sorti perché incapace nel leggere i mutamenti della società, degli STILI DI VITA e quindi dei consumi.

La sua relazione quotidiana con milioni di consumatori le permetterebbe di indirizzare le scelte dell’industria (che manca spesso del rapporto diretto col consumatore), invece la GDO ne continua a subire le scelte (a volte assurde) in termini di assortimenti e prodotti (quanti prodotti falliti si trovano sugli scaffali!?).

Facciamo un esempio.

Settembre è il terzo periodo dell’anno in cui si ha un’impennata nella ricerca di informazioni in merito a DIETE e prodotti salutistici, subito dopo giugno (la prova costume! la prova costume!) e la prima settimana dell’anno (come smaltire panettoni & c.?). Vedere grafico sotto (fonte Google trends).

DIETA GOOGLE

Eppure i volantini della GDO sembrano IGNORARE questa domanda e, anzi, presentano “speciali prima colazione” ricchi di carboidrati e zuccheri, per poi magari stupirsi della riduzione dell’efficacia promozionale (e come soluzione che si fa? si aumenta la pressione promozionale!).

Sincronizzare i propri OROLOGI PROMOZIONALI ai desiderata dei clienti potrebbe essere una scelta semplice ed efficace per ridurre le difficoltà di un settore che, altrimenti, continuando nel suo miope “paste and copy” strategico, rischia di essere messo a dieta dai propri clienti.

Alla GDO serve un cambio di visione e di cultura manageriale.

Buon rientro a tutti!

@nmr_italy

Una #GDO fuori forma, una vecchia trapunta e nuove antenne di #marketing (con un occhio a #Google)

E’ legittimo che la GDO si lamenti per la difficile e lenta ripresa dei consumi? Certo! Lo è meno se nel farlo si lasciano per strada opportunità di vendita…

Prendiamo l’esempio del mese di gennaio. Dopo la grande abbuffata di dicembre (le vendite hanno registrato un segno positivo dopo una partenza del mese sottotono) gennaio sembra essere partito col piede sbagliato, in territorio negativo come registrato da A&F e Nielsen.

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Non ho l’ambizione di proporre in poche righe risposte alla domanda “cos’è successo?”, ma segnalo come i numeri negativi arrivino in un inizio anno caratterizzato da forti azioni promozionali da parte della GDO: sconti gridati, come il “30-40-50%” di Esselunga o le “Grandi Marche al 50%” di Carrefour tanto per citare due big del settore.

Queste azioni sono spesso supportate dalla classica “Fiera del Bianco”: promozione le cui origini si perdono nella notte dei tempi…

Eppure a gennaio vi è un grande trend che pare essere stato ignorato dai più.

Gennaio è infatti il mese delle buone intenzioni e del rammarico per gli eccessi alimentari durante le tavole natalizie.

E’ il mese delle iscrizioni in palestra e dell’inizio delle diete (certo, febbraio è tutta un’altra storia…).

Non si tratta di sensazioni ma di fatti. Se non riteneste sufficiente chiedere al collega o all’amico, basterebbe guardare il seguente grafico che identifica l’andamento delle ricerche su Google a livello mondiale per “get fit” e “lose weight” (i numeri sono poi confermabili anche a livelli di singola country) per avere conferma di quanto detto.

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Ebbene, a fronte di questa domanda di benessere e leggerezza la GDO come risponde? Con ipersconti sui soliti prodotti ricchi di grassi e zuccheri e con qualche lenzuolo…

Così una domanda di benessere che va oltre la palestra- una ricerca sul mercato britannico (invito chi vuole a leggere l’articolo citato in calce a questo post) dimostra infatti come vi sia un’impennata di consumi anche di healty food– resta senza risposta, perché inascoltata da un settore che troppo spesso torna vittima dei propri tic promozionali (vedasi la citata Fiera del Bianco).

Per concludere, rapidamente, vi sono molte opportunità da cogliere là fuori, ma bisogna avere antenne pronte e curiose; insomma un nuovo marketing che sia in grado di scaldare i fatturati della GDO più di una vecchia trapunta…

Ready?

@danielecazzani

PS

Per chi fosse interessato ecco l’articolo di The Economist che ha “ispirato” questo contributo:

https://www.economist.com/news/business/21734459-while-low-cost-offerings-democratise-gym-business-fancy-ones-are-raising-bar-gyms

Il futuro del #retail tra #disruption #ecommerce e antichi mestieri #retail2016

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Anche quest’anno il Consumer & Retail Summit organizzato da GDOWeek, MarkUp e IlSole24Ore è stato l’occasione per fare il punto sullo stato di salute del retail e parlare delle opportunità e delle sfide dell’oggi e del futuro.

Il contesto non positivo dei consumi certamente descrive una situazione non facile, ma che nel contempo registra importanti novità, come la crescita dell’ecommerce, che non possono che spingere il retail verso l’innovazione.

Nonostante vi sia chi pensa ancora che lo sviluppo delle reti sia la strada per lo sviluppo dei fatturati, è parsa sempre più condivisa la consapevolezza che sarebbe illusorio attendersi la ripresa dei consumi senza fare nulla; è invece prioritario innovare format, servizi e strategie per rispondere a un consumatore che a sua volta ha innovato il proprio stile di consumo e che si dimostra sempre più selettivo (e meno fedele).

La crescita dell’e-commerce appare ancora per molti una terribile minaccia, anziché una splendida opportunità: questa visione di Amazon come spettro che si aggira per …il retail appare sinceramente eccessiva, frutto più di paranoia piuttosto che di un’analisi dei numeri.

Tale reazione è spesso il sintomo di una visione ancora dicotomica del retail tra online e offline che porta tanti retailers a vedere nel click & collect un buon compromesso anziché solo come uno dei tanti touchpoint col cliente.

Ma non è tempo per manicheismi: il retail invece deve essere uno, perché questo è ciò che sia attende il cliente. Un cliente multichannel che è più difficile da conquistare e da fidelizzare, ma è questa, lo si voglia o meno, la sfida che attende il retail.

Ciò che serve è un approccio disruptive (con un briciolo di pazzia per citare Mario Gasbarrino, AD di Unes/U2) che sappia ripensare processi, strategie, organizzazioni. Ma l’innovazione che serve non è un adattamento del “famolo strano” di verdolina memoria: il cliente non chiede novità fini a se stesse– la GDO negli ultimi anni ne ha già proposte molte spesso naufragate- né vuole essere stupito da effetti speciali; cerca piuttosto servizi reali e una semplice, reale attenzione alle proprie esigenze.

Essere disruptive vuole dire anche rimettere le Persona al centro delle strategie del retail, riscoprendo mestieri e saperi. Lo sviluppo delle competenze delle risorse che  lavorano nel retail- come ha raccontato Crai- è una strada forse faticosa ma necessaria per dare valore ai negozi fisici, dove la relazione tra personale e cliente deve diventare il valore aggiunto.

In conclusione sono tante le sfide che attendono il retail, ma solo il prossimo Summit ci dirà se i buoni propositi si sono trasformati in buone strategie…

@danielecazzani

Un patto #bio tra #agricoltura, #distribuzione e #consumatori

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In tempi di crisi dei consumi vedere un numero positivo fa sempre piacere.

Fino ancora a pochi anni fa considerato da tanta parte della distribuzione come una nicchia  o una moda passeggera, il biologico è ora al centro dell’attenzione della GDO.

Con una crescita del 21% (anno terminante maggio 2016) il biologico si conferma un settore in piena salute per quanto ancora piccolo nel mondo dei consumi, pesando solo per il 3% sul totale delle spese alimentari delle famiglie italiane (una percentuale però quasi raddoppiata negli ultimi cinque anni).

Ma la passione per il biologico si sta radicando, se è vero che le ricerche dimostrano che il 18% delle famiglie consuma abitualmente prodotti bio, mentre è decisamente superiore il numero delle famiglie che anche occasionalmente li acquista.

In questo contesto vi sono certamente degli heavy users (o dovremmo dire heavy eaters?) del bio se è vero che il 23% delle famiglie acquirenti pesa per oltre il 70% delle vendite, ma il perimetro di consumatori si sta allargando rapidamente, complice la maggiore attenzione alla qualità del cibo, come testimonia ad esempio la parallela crescita del comparto dei prodotti alimentari “senza” (senza glutine, senza olio di palma, senza conservanti e via dicendo).

L’aumento dei consumi bio è dovuta da una parte dall’aumento della produzione– in questi ultimi anni si è registrato un notevole incremento dei terreni per agricoltura biologica- dall’altra dall’entrata in campo della grande distribuzione e dal moltiplicarsi dei canali di acquisto a disposizione dei consumatori: negozi specializzati (pensiamo al grande sviluppo avuto da un’insegna quale NaturaSì), centri di acquisto, vendite dirette da agricoltori e ultimo, ma non meno importante, l’e-commerce.

Ma numerose sono ancora le possibilità di espansione del mercato; basti pensare al mondo della ristorazione (commerciale e non) e alla sua ancora marginale attenzione a questo fenomeno…

Tornando alla GDO l’incremento delle vendite è stato determinato, oltre che dalla domanda, da un aumento dell’assortimento disponibile, cresciuto solo nell’ultimo anno di oltre il 26% e spesso trainato dalle private labels.

In un comparto produttivo caratterizzato dalla presenza di piccoli operatori, quasi pulviscolare, e dove, fatte alcune eccezioni, è risultato finora difficile fare branding sul biologico, le private labels possono giocare un ruolo fondamentale mettendo sul piatto tutto il peso del brand d’insegna.

La tracciabilità del prodotto, il suo luogo di coltivazione e produzione sono elementi ancora più importanti in un mondo, quello del biologico, tutto sommato nuovo per buona parte dei consumatori. Non si può certo pensare che basti il bollino “agricoltura biologica” per convincere all’acquisto i propri clienti. Serve trasparenza e chiarezza. Ecco perché ritengo che le private labels possano giocare un ruolo fondamentale, anche per abbattere una delle barriere all’acquisto più forte per i prodotti bio: il prezzo.

Chi di noi fa la spesa sa bene quale sia il price divide tra un prodotto bio e un prodotto non bio. Spesso, è opportuno dirselo, tale differenza non nasconde fondamentali differenze nella catena del costo; piuttosto il prezzo elevato è stato utilizzato (non so dire quanto impropriamente) come leva di marketing, quale elemento di “certificazione” della maggiore qualità del biologico.

Anche su questo tema la distribuzione può e deve giocare un ruolo importante: per il consumatore moderno il value for money è formula che funziona se entrambi i piatti della bilancia sono equilibrati. Ben disposto a pagare un prezzo superiore quindi per il biologico, ma a fronte di tangibili e trasparenti elementi che ne attestino la superiore qualità e la veridicità della promessa.

Si tratta di una sfida avvincente per quei distributori che sapranno coglierla perché, se è verosimile che i tassi di crescita non saranno infiniti per questo comparto, il prodotto biologico potrebbe divenire un’importante leva di fidelizzazione della propria clientela; invito i distributori a vedere oggi quali siano i propri clienti che acquistano anche bio: sono piuttosto sicuro che il profilo che ne emergerebbe sarebbe quello del cliente fedele, alto-frequentante e alto-spendente. Perché l’acquisto di un prodotto bio presuppone conoscenza e confidenza che solo un cliente fedele può riconoscere a un distributore.

Per concludere quella che si presenta, a mio avviso, è anche una grande opportunità per i produttori bio.

La distribuzione moderna infatti si presta ad essere una grande veicolo di diffusione della cultura e del consumo del biologico. Inoltre le esigenze logistiche e commerciali della distribuzione potrebbero indurre il comparto biologico a fare un ulteriore salto di qualità finalizzato all’innovazione e alla modernizzazione di tutta la filiera con benefici per il consumatore finale.

Certo per fare questo sarà necessario da un lato un ruolo attivo della distribuzione- in realtà sono già molte le insegne soprattutto italiane che dimostrano di avere colto questa sfida…- e una crescita imprenditoriale anche dei produttori che farebbero bene a imparare dal passato quanto sia importante trovarsi al tavolo con la distribuzione con una voce sola, piuttosto che a gruppi sparsi o singolarmente portando con sé ceste di bellissimi e buonissimi ortaggi ma idee poco chiare sul proprio futuro e le proprie strategie.

Un patto bio tra agricoltura e distribuzione che vedrebbe come beneficiario finale anche quel nuovo consumatore che la prolungata stagnazione dei consumi ha plasmato e i cui nuovi valori, la distribuzione tutta farebbe bene a studiare con attenzione.

@danielecazzani

 

NOTA

I dati riportati nell’articolo sono stati estratti da “Trend e prospettive di crescita per l’alimentare e il biologico in Italia” di Nielsen e anticipati per Sana Bologna.