#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

#IlCentro dello #shopping center è davvero il Cliente?

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Pochi giorni fa ha aperto ad Arese IlCentro: il più grande centro commerciale italiano e tra le più importanti strutture in Europa.

Riprendo quindi con piacere un mio post pubblicato nel settembre 2013 (https://wordpress.com/post/marketingretail.wordpress.com/350), per vedere se e come il settore dei centri commerciali abbia intrapreso o meno quel percorso di innovazione che, da ex addetto (ed appassionato) ai lavori mi ero permesso di proporre.

Il centro della mia tesi era (ed è) che ai centri commerciali servisse un’identità, che non è affatto data dalla summa delle identità (insegne) del mall, in primis da quella dell’ancora alimentare (se presente).

Quell’identità andava creata- così dicevo- attraverso un’attenta gestione di cinque leve di marketing:

1. la valorizzazione di sinergie tra ancora alimentare e negozi;

2. la fidelizzazione della clientela;

3. la collaborazione col territorio;

4. la gestione strategica della comunicazione;

5. un palinsesto di eventi unici.

Sono passati quasi tre anni da allora ed è evidente come quell’approccio non risponda più alle esigenze di un contesto che è ancora mutato, e si è reso più competitivo non tanto, non solo, per l’aumento della concorrenza tra centri commerciali, ma per la crescente concorrenza trasversale tra centri commerciali e altri ambienti, altri spazi (reali o virtuali) in cui il consumatore si reca per il soddisfacimento dei propri bisogni.

Siamo nell’era della multicanalità– anzi della omnicanalità- e già solo la definizione di “centro commerciale” risulta difficile. Come detto, la concorrenza non è più, non è solo, tra centri commerciali perché il consumatore oggi ha molteplici strade di fronte a sé…

Non sono più sufficienti un corretto mix merceologico nella galleria, una food court ampia e varia, un buon calendario di eventi, importanti investimenti in comunicazione…

E’ necessario molto di più.

E’ la dimensione esperienziale il vero elemento che può rendere forte un centro commerciale,. Attraverso l’attenzione alle esigenze della più ampia tipologia di bisogni e la presenza di servizi per diversi target si può arrivare a costruire l’esperienza per il Cliente DEL e NEL centro commerciale. Quest’ultima infatti non può essere solo la somma di diverse esperienze, ma deve rispondere a un disegno unitario, con una regia (nelle mani del gestore del centro commerciale) che non ha il compito di trovare il minimo comun denominatore tra gli operatori presenti, ma che deve essere in grado di valorizzare i singoli ma all’interno di una strategia di posizionamento unitaria.

Da questo punto di vista la strada da compiere a mio avviso è ancora molta. In primis nella fase di commercializzazione.

Non è sufficiente provare a riunire sotto un unico tetto le migliori insegne dei singoli settori (pensiamo proprio a IlCentro dove convivono i migliori esempi di fast fashion: Zara, H&M e Primark), ma sarà premiante un lavoro di ideazione di format innovativi, differenzianti, pensati per il target del centro commerciale (ma esiste in realtà oggi un centro commerciale che abbia definito il proprio target e che non si sia invece limitato a indicarlo nell’universo-mondo?).

Questo vale per a maggiore ragione per le food court dove non può essere solo la varietà a vincere, ma la ricerca di novità e il coraggio di proporre.

Sperimentare e innovare devono essere parte integrante non solo del retail moderno, ma anche di un moderno real estate.

Innovare anche nei servizi. Aree bimbi, aree di custodia per i propri amici a quattro zampe sono certamente degne di nota, ma esistono altri target? Gli anziani, ad esempio. IlCentro ne ha valutato le esigenze? Le dimensioni del mall certamente non li aiutano- ma non possiamo certamente mettere in discussione una scelta architettonica che ci offre uno dei centri commerciali più belli del Continente, per spazi e materiali!- ma la prima (opinabilissima) sensazione è che siano stati dimenticati nel progetto, più rivolto ad accarezzare le nuove generazioni, dimenticando una fetta consistente della nostra società (come, a onor del vero, fa buona parte del retail).

Ma non è mio obiettivo entrare nel dettaglio su questo tema.

Ai centri commerciali serve una nuova anima, più vicina al Cliente. Certamente questa evoluzione può essere più facile per le nuove strutture, e più difficile per i centri commerciali più datati, ma si tratta di una via obbligata per tutto il settore. Altrimenti, per i più deboli e lenti nel costruire la propria proposta attorno al Cliente, la concorrenza dei centri commerciali virtuali e dei nuovi mall, sarà sempre più forte e difficile da contrastare.

Si tratterebbe alla fin fine dell’applicazione in salsa retail della darwiniana selezione naturale. Se non fosse per gli impatti occupazionali di un simile scenario potremmo anche pensare che un settore arrivato oramai alla fase di maturità non dovrebbe stupirsi che sia arrivato oramai questo momento…

In sintesi: creare esperienze e innovare. Ecco i due verbi che il settore dei centri commerciali dovrebbe declinare giornalmente.

Concludo con una provocazione. La prima domenica di apertura de IlCentro è stata in concomitanza col cosidetto referendum sulle trivelle. Sui social si sono scatenati in molti lamentandosi di quante persone si fossero recate ad Arese per vedere il nuovo centro commerciale- magari attratti dai gadget distribuiti da tanti negozi- piuttosto che recarsi alle urne. Lasciando da parte per un attimo le ragioni del sì, del no e dell’astensione, pensavo quanto sarebbe rivoluzionario se i seggi elettorali venissero allestiti all’interno dei centri commerciali, che- lo si dice da anni- sono divenuti le nuove piazze di aggregazione domenicale per migliaia di nostri concittadini.

Può esserci un ruolo “civico” per i centri commerciali? Perché no?

Provocare potrebbe anche far rima con innovare…

@danielecazzani

Il paradigma #Netflix e una nuova #loyalty per la #GDO

L’arrivo di Netflix nel nostro Paese rischia, dicono gli esperti, di cambiare il panorama della televisione. Una sorte analoga potrebbe capitare alla GDO. Vediamo come e perché.

Per anni infatti la nostra vita domestica è stata scandita dal ritmo definito dalla televisione: a tavola alle otto per vedere il tg della sera; tutti sul divano alle nove per vedere insieme il film; domenica pomeriggio tutti incollati per seguire i risultati delle partite con la schedina in mano; e via dicendo.

Il palinsesto era fisso. Uguale per tutti. Immodificabile.

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Lo sviluppo del panorama televisivo ha portato poi alla moltiplicazione dei canali tv: pensiamo alla tv satellitare e digitale coi suoi innumerevoli canali tematici che si rivolgono non più alla massa di telespettatori ma, di volta in volta, agli appassionati di avventura, cucina, arte, sport…

Così facendo l’audience dei singoli canali si è certamente ridotta in termini assoluti, ma gli investitori pubblicitari hanno avuto la possibilità di mirare messaggi su target più definiti (e selezionabili).

Oggi però le nuove tecnologie permettono a ognuno di noi di costruirsi il proprio palinsesto personale. La diffusione del mobile poi ci permette di costruirlo e di fruirne ovunque.

Il prossimo arrivo di Netflix da questo punto di vista non è che l’ultimo passo di un percorso che si preannuncia ancor lungo e ricco di novità.

Fin qui però sembriamo fuori argomento, avendo parlato solo di televisione. Passiamo quindi alla GDO.

C’è un motivo per cui dovremmo pensare che la libertà che le persone hanno conquistato (o, meglio, scoperto) in questo ambito non sia estendibile ad altri comparti, ad altri momenti della giornata, come ad esempio la spesa?

Pensando alla prima televisione, quella col palinsesto unico, viene automatico un parallelo col palinsesto promozionale della GDO, composto da volantini rivolti a tutti i consumatori, con contenuti e date fisse. Tanto per fare alcuni esempi, a tanti sarà capitato di ricevere nella cassetta postale un volantino con offerte per il fai da te pur essendo però assolutamente incapaci di piantare anche un solo chiodo; oppure ricevere un volantino dedicato all’infanzia, peccato che i propri figli siano già all’università…

Negli anni la GDO ha sviluppato programmi di loyalty che attraverso la lettura e l’analisi dei dati relativi al comportamento d’acquisto dei Clienti, hanno permesso di raggruppare i Clienti in cluster in base a un numero via via crescente di parametri partendo dai basici dati di affluenza e importo scontrino (usati quali deboli indicatori della fedeltà all’insegna o al punto vendita).

Ora la numerica di questi dati e la capacità di leggerli è andata aumentando- parliamo di big data, no?- ma senza riuscire a incidere più di tanto sul vecchio approccio promozionale fatto da volantini con offerte pensate per la generalità dei Clienti (mass market è un termine freddo ma rende l’idea).

Il paradosso è che le promozioni, più ancora che i servizi (tasto dolente di tanta Distribuzione), sono uno dei momenti in cui la GDO potrebbe dimostrare maggiore prossimità ai propri Clienti; prossimità intesa come capacità di conoscerne le esigenze e attorno a questa costruire offerte e proposte mirate.

La verità è che questa potenzialità non è stata colta dai più. Vi sono come sempre eccezioni, con insegne che hanno costruito dei cluster di Clienti cui destinare particolari offerte, ma la realtà è che si tratta spesso di attività di scarso impatto e la cui ratio spesso sfugge (vi sono retailers che utilizzano parametri che portano a considerare “premium” quasi il 40% dei propri Clienti, ingannando così se stessi e i Clienti stessi).

Il nuovo paradigma e le nuove tecnologie propongono quindi alla GDO una nuova sfida, ancora più importante: ovvero la possibilità di disegnare un nuovo rapporto coi propri Clienti, in cui questi ultimi siano in grado di costruirsi un proprio palinsesto promozionale, ritagliato in base ai propri desiderata (ovviamente all’interno di regole definite).

I Clienti potrebbero accedere a uno “store promozionale” dal quale attingere a particolari promozioni, già attive o attivabili da particolari comportamenti degli stessi Clienti (determinati acquisti ad esempio).

Questa possibilità- che potrebbe essere riservata ai particolari target di clientela- permetterebbe a tanti operatori di cercare (trovare) una via d’uscita alla sempre minore efficacia promozionale delle attività mass market ora messe in campo.

Affinché ciò avvenga è però necessario che buona parte della GDO si accorga che i propri Clienti la sera non se ne stanno più sul divano in attesa del programma tv, ma sono oramai liberi di scaricarsi un film (scelto da un ampio portfolio) quando e dove vogliono, fruendone in qualsiasi momento delle giornata

Certo si tratta di concedere maggiore libertà ai Clienti e questo spaventa. Ma siamo certi che vi sia un’altra strada?

@danielecazzani

Un nuovo #NONFOOD per un nuovo #RETAIL: riflessioni a margine del 13mo Osservatorio NonFood @GS1Italy

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Lunedì 29 giugno a Milano GS1 (indicod-ecr.it) ha presentato i risultati della tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food che ha evidenziato come questo comparto abbia beneficiato della lieve ripresa nel 2014 dei consumi della famiglie italiane, con un incoraggiante +0,6% (che pone fine ad anni di pesanti flessioni pur lasciando la quota dei consumi non alimentari al di sotto del 15%).

Questo dato è evidentemente la media di situazione molto diverse tra i tanti comparti dell’universo non alimentare ma ciò nondimeno è un segnale positivo in un anno che ha visto una contrazione importante (-7%) nei punti vendita e la crisi aziendale di importanti player, uno dei quali solo due anni fa, proprio in occasione dell’Osservatorio Non Food dichiarava invece di avere individuato una nuova strategia, poi risoltasi in un leggero make-up dei propri punti vendita (evidentemente non apprezzato dai consumatori).

Preso atto dei numeri la domanda fondamentale da porsi a questo punto è però: il non alimentare ha raggiunto questo risultato grazie a nuove strategie e nuovi approcci oppure ha beneficiato della generale (mini)ripresa dei consumi?

Mia opinione è che il risultato sia ascrivibile in buona parte al secondo fattore, perché a fianco di alcune interessanti novità (cito lo svilippo di Ikea e, anche se relativa al 2015, l’arrivo in Italia di Zodio) gli ipermercati e tanti storici retailers specializzati paiono essere ancora in una situazione di stallo decisionale.

Pensiamo agli ipermercati che fino a poco tempo fa vedevano nel non food non dico la gallina dalle uova d’oro ma certamente un comparto da sviluppare (pensiamo ad alcuni “gigantismi” testati, con scarso successo, da insegne non italiane) e che ora invece stanno riducendo gli spazi, prendendo così atto che il non food non è affatto un’arena competitiva più facile del food: anche qui servono competenze, risorse umane (bello che se ne sia parlato ampiamente a Milano!) e strategie di medio lungo periodo.

Un altro piccolo esempio su un comparto- quello della GDO- che mi sta sempre a cuore. Avete presenti i settori libri e videogiochi di alcuni ipermercati: spazi dimenticati, dove l’assortimento pare essere stato disegnato dal caso (o dal caos?), con una noncuranza che stride rispetto all’attenzione al display merchandising che giustamente regna negli altri reparti. Mi chiedo: che senso ha destinare metri quadri (e lineari) di vendita a tali merceologie, per poi nella realtà abbandonarle (o come nel caso dei libri, darli in gestione esterna) come fossero corpi estranei. Ecco, la GDO dovrebbe fare questo: smettere di vedere il non food come un corpo estraneo rispetto alla propria anima food. Anche solo dal punto di vista della cultura manageriale sarebbe un gran passo in avanti.

Tornando ai numeri sono molti gli ambiti nei quali il non food è chiamato a fare di più e qui ne citerò solo due.

Ad esempio, in un anno che ha visto l’e-commerce crescere del 17% il risultato del non food, per quanto interessante in alcune categorie (arredamento in primis che ha raddoppiato le vendite) pare essere molto distante dalle sue potenzialità; questa situazione è frutto di una ancora non chiarito rapporto tra store fisico e store digitale. Anzi, proprio questa visione duale è sintomo di un’arretratezza di approccio che pare non considerare come oramai i touch point tra brand e consumatori si siano moltiplicati e approfonditi.

Allo stesso modo- ed eccomi al secondo punto- è proprio l’assenza di una brand strategy che penalizza il comparto non food, i cui punti vendita sono spesso gestiti come come rassemblement di merci: quasi una provocazione in anni in cui un consumatore sempre più attento e informato non chiede solo un prodotto, ma un senso da dare alla propria relazione col retailer. E non si tratta di aggiungere servizi ai prodotti (soprattutto se il servizio- banalmente penso a un’estensione di garanzia di un prodotto hi-tech- è vista come un altro prodotto da vendere…) quanto di analizzare le domande dei Clienti e strutturare i propri store (siano questi fisici o virtuali) affinché siano in grado di dare le risposte migliori, grazie anche al fondamentale contributo delle persone che vi lavorano. Ogni contatto in uno store deve essere vissuto come un incontro, come il primo passo per una relazione, mentre spesso la formazione delle risorse umane è finalizzata a migliorarne le perfomances di vendita, con effetti in realtà controproducenti.

Nuove strategie, nuovi approcci, un nuovo coraggio insomma: ecco ciò che serve al non food per uscire dalle proprie contraddizioni e ritrovare il proprio ruolo in un Retail moderno.

@danielecazzani

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L’ERA GLACIALE DEI #CONSUMI E I T-REX NELLA #DISTRIBUZIONE

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Circa 66 milioni di anni fa nel Cretaceo un evento inatteso- l’impatto di un meteorite o l’eruzione di contemporanea di aree vulcaniche- comportò la scomparsa di oltre il 70% delle specie viventi, causando cioè gli stessi devastanti effetti di una grande glaciazione. Senza che vi sia stato bisogno di meteoriti, il crollo del consumi registrato dal 2007 sta profondamente cambiando il contesto in cui si muovono i grandi e piccoli operatori della Distribuzione, che, verosimilmente, auspicano di non fare la fine dei temibili e apparentemente invincibili T-Rex.

Poche cifre (che traggo liberamente dal sempre utile Rapporto Coop 2014) ci aiutano a ricordare i contorni di quanti accaduto.

Il reddito disponibile dal 2007 al 2013 è calato di oltre l’11%, con una identica perdita del potere d’acquisto reale, come effetto combinato dell’aumento delle tasse (dalla casa all0IVA) e delle tariffe dei servizi pubblici, aggravate da una sostanziale stabilità del livello dei salari. Guardando ai consumi il calo è stato del 5% tra il 2007 e il 2012, ma anche nei successivi due anni il calo è stato del 2,5% . Questo calo si è tradotto in una forzosa rimodulazione dei consumi che hanno visto crescere la quota di quelli legati all’abitazione dal 18 al 24% e scendere dal 15 al 14,5% quelli per consumi alimentari. Per quanto uno zerovirgola possa apparire poca cosa, chi lavoro nel settore della Distribuzione sa bene che impatto devastante abbia avuto tale riduzione sui fatturati e gli equilibri di bilancio delle principali insegne.

Di fronte a un mutamento così importante della Società, non tanto e non solo dei consumi, buona parte della Distribuzione ha risposto in modi diversi, talvolta utilizzando una sola leva, talvolta mixando più strumenti. Quasi tutta la Distribuzione ha innanzi tutto risposto con le armi della tradizione, ovvero con un aumento della pressione promozionale, affiancando la spinta di un’Industria preoccupata di mantenere i volumi di produzione. Non si è però lavorato solo sulla leva prezzo, ma anche sull’assortimento, dapprima ampliandolo al di fuori dei canonici confini per coprire altre fasce di consumo nel tentativo di cogliere quell’85% dei consumi non alimentari: in questo senso vanno intese le avventure (non sempre fortunate) di alcune insegne nella vendita di contratti di utility luce e gas, finanza o telefonia, piuttosto che le specializzazioni in alcuni comparti quali l’elettronica di consumo, l’arredo casa e via dicendo.

Nel contempo però è emerso come l’ipertrofia degli assortimenti fosse a sua volta uno dei principali problemi del settore: da qui riduzioni di superfici di vendita–  con tutti i limiti dati da rigidità strutture e vincoli di natura immobiliare e contrattuale-soprattutto a danno del non food, che certamente più del grocery ha risentito dell’accresciuta multicanalità del consumatore e dell’avvento del e-commerce. Ma vi è stato anche chi ha pensato fosse sufficiente procedere a un re-naming (con vere e proprie rottamazioni di insegne storiche nel panorama distributivo del nostro Paese), oppure a un restyling di punti vendita (spesso guidati dall’estro degli architetti più che dalla ragione del marketing e dei numeri). Numerosi anche i movimenti nel mondo delle attività loyalty, con l’avvento di coalition, la scomparsa di cataloghi e concorsi a premio, l’avvento delle special promotion e via dicendo.

In sintesi, non si può certo dire che la Distribuzione sia rimasta a guardare quanto stava accadendo, ma è altrettanto forte la sensazione che spesso e volentieri si sia trattato di risposte tattiche, pensate per tamponare situazioni contingenti (difficoltà a raggiungere e controcifre nei budget, piuttosto che riduzioni di traffico clienti), e non scelte strutturali, come se vi fosse la convinzione che la tempesta sarebbe ben presto passata, e che per non vederla fosse sufficiente ripararsi nella stiva della nave, piuttosto che prendere atto della necessità di profondi cambiamenti di rotta.

Eppure è oramai patrimonio comune il concetto di società fluida, che, a dire il vero, affonda le proprie origini nel panta rei di Eraclito: tutto scorre, nulla si ripete, nulla può essere più come prima.

Calato nel nostro contesto: è inutile vagheggiare su un ritorno dei consumi ai livelli pre-crisi. Sempre più operatori a parole paiono convinti di questo, ma dal dire al fare. La grande attenzione ai numeri dei propri bilanci dovrebbe andare di pari passo con la conoscenza dei numeri della Società: se non conosciamo il terreno sul quale dobbiamo muoverci, qualsiasi strategia e direzione risulterà fallace. Serve quindi intervenire su numerosi format che sono in realtà rimasti ancorati a paradigmi- del consumo e della società- validi anni or sono ma che ora paiono sbiadite foto di un tempo che fu. Ma va detto che un format non è costituito solo da un contenitore (un layout) e un contenuto (un assortimento e un posizionamento di prezzo) ma ha un’anima più profonda che deve affondare le radici nella conoscenza dei propri Clienti per arrivare a proporre a essi una visioneche permetta di condividere un percorso quotidiano.

Queste possono sembrare parole da sociologia da bar- certo non voglio imbeccare strategie a mezzo articolo- ma nella realtà se ben guardiamo, il mercato oggi ci dice che a reagire meglio alla “grande glaciazione” sono stati retailers molto diversi che hanno saputo però leggere il momento e disegnare una propria strategia. Da chi ha coraggiosamente sposato l’every day low price(politica alquanto faticosa) unito a tante attenzioni al Cliente, a chi ha saputo andare oltre le cose, a discounter che non hanno disconosciuto il proprio nome ma che continuano a muoversi nel coerentemente con la promessa di offrire risparmio, a chi non si è fatto tentare dal gigantismo degli ipermercati ma ha continuato a coltivare quel fantastico vivaio di relazioni coi Clienti dato dal vicinato. Evito ovviamente di citare nomi e insegne, ma abbiamo in Italia numerose case history da studiare e- non è un caso- non si tratta mai di operatori stranieri, che hanno dimostrato spesso un approccio distante dalla realtà italiana, tanto quanto lo sono stati i risultati ottenuti rispetto alle attese (e ai faraonici investimenti).

La grande glaciazione è forse agli sgoccioli- almeno questo è l’auspico dei più- ma gli anni di stenti hanno stremato numerose organizzazioni: sarebbe per queste illusorio pensare “finalmente è finita” e abbandonarsi fiduciosi alla debole ripresa. Serve coraggio e visione. Oggi più che mai.

Daniele Cazzani @danielecazzani

 

IL RUOLO DELLE PRIVATE LABELS NELLA #GDO TRA #SPREAD, MIOPIE E UN NUOVO METRO PER I CLIENTI

Per anni dipinte come i nuovi campi dorati di conquista della GDO (e panacea per i suoi mali di margine), nell’ultimo anno le private labels hanno in realtà registrato uno stop alla propria crescita nel mercato italiano, attestandosi a una quota di valore del 18%; crescita, va detto, che negli ultimi anno stava comunque dando ampi segni di rallentamento come se la quota del 20% costituisse un limite irraggiungibile. In questo contesto poco conta che vi siano categorie come quelle “premium” e” bio” che crescono con valori interessanti, scalfendo (poco ) i prodotti industriali, poiché si tratta appunto di ambiti dal perimetro e volumi limitati.

Premesso che la media come sempre nasconde dati tra loro molto diversi (vi sono operatori della distribuzione organizzata ove la quota della marca privata supera il 30%) vorrei brevemente incrociare due considerazioni partendo da alcuni dati (fonte IRI INFOSCAN).

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Innanzi tutto nel nostro Paese il limitato sviluppo delle private label può essere imputato anche all’elevata propensione dei consumatori italiani per i prodotti di marca (la marca è driver di scelta per il 70% degli acquirenti; dato doppio rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna) e alla crescente pressione promozionale che è stata la leva scelta da IDM e GDO per rispondere a una contrazione dei consumi perdurante da oramai troppi anni.

Al netto di questi dati (di fatto) ecco il secondo elemento che intendo evidenziare. Da un lato il posizionamento di prezzo medio delle private labels in Italia è di circa 22 punti inferiore rispetto alla marca industriale, mentre nella maggior parte degli altri mercati europei lo “spread” è decisamente più ampio (quasi il 40% in Francia dove si avvicina al posizionamento primo prezzo); dall’altro anche le private labels sono oggetto di spinta promozionale: per rispondere alla già citata crescente pressione promozionale messa in campo dall’IDM (in accordo con la GDO a essere onesti…) in Italia la pressione sulle private labels è arrivata al 23% (pesando per circa il 19% sul totale delle promozioni a valore).

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La domanda (certo non banale) è capire quale sia il ruolo che dovrebbero avere le private labels nell’ambito dell’assortimento e, più in generale, nella strategia commerciale (e di servizio) che l’operatore GDO propone ai propri Clienti.

Per quanto sia evidente come i prodotti a marchio privato abbiano avuto un’indubitabile funzione di aiuto alla marginalità- compressa da aumenti contrattuali, riduzione volumi e aumento pressione promozionale- e ai volumi di vendita in tempi di contrazione dei consumi, ritengo sinceramente che sarebbe assurdo limitarne a questi aspetti il reale potenziale.

A mio avviso infatti le private labels dovrebbero assurgere l’importante ruolo di metro attraverso il quale il consumatore legge e interpreta l’offerta di un’insegna, grazie a un posizionamento di prezzo stabile (non drogato e perturbato da più o meno occasionali attività promozionali) in grado di definire IL corretto rapporto qualità-prezzo all’interno delle singole categorie.

Uno ruolo centrale quindi all’interno della strategia commerciale e non certamente “ancellare” e di ripiego come spesso capita di leggere, quasi che le private labels fossero una riserva cui dedicare le residue risorse (economiche e professionali) delle proprie strutture manageriali. Infatti l’inserimento di prodotti a marchio privato nel proprio assortimento è parso quasi un passo obbligato, ma non ragionato, per tanti operatori, come se dovessero adattarsi (malvolentieri) a una nuova tendenza del mercato e a una nuova domanda dei consumatori. Un’approccio miope, che non ha saputo vedere tutte le opportunità connesse e che, verosimilmente, ne ha limitato anche i risultati conseguiti.

A mio avviso, infatti, quegli operatori che ora registrano quote di prodotti a marchio ben superiori alla citata media del 18% testimoniano invece quanto un corretto approccio a questo tema possa essere fonte di soddisfazioni e successi e di un forte patto coi propri Clienti.

In conclusione, ben lungi dal ritenere esaurita la crescita delle private labels, la realtà è che vi è ancora un forte spread tra la situazione attuale e le potenzialità di questo segmento: uno spread però che solo strategie intelligenti potranno colmare, a beneficio di volumi, margini (indi, conti economici) e di un sistema di piccoli/medi produttori (i co-packer) che sono un’incredibile risorsa della nostra Italia e che l’arroganza di tanta distribuzione (soprattutto straniera) rischierebbe di condannare all’oblio.

@danielecazzani

Un memento al #retail italiano: l’ #ecommerce è innanzi tutto… commerce!

Ecommerce, mobile e multicanalità sono tre temi sempre più presenti, connessi e discussi nei (tanti, troppi?) convegni dedicati al retail.

In Italia l’ecommerce B2C vale 11,3 mld di euro, registrando nel 2013 una crescita del 18% rispetto al 2012 (dati forniti dall’Osservatorio eCommerce B2C del Politecnico di Milano www.osservatori.net) e una quota importante di fatturato transato da device mobile quali smartphone e tablet, pari al 12% (in linea coi valori della maggior parte dei Paesi europei).

Ma se osserviamo il valore assoluto dell’ecommerce in Italia raffrontandolo coi dati delle principali economie mondiali (fonte dati www.emarketer.com) notiamo come in realtà le dimensioni di questo mercato siano ancora minime e come, soprattutto, anche le previsioni di crescita- per quanto “impetuose”- ci lasceranno sempre fortemente distanziati da molti Paesi europei simili a noi (sarebbe ovviamente inutile guardare in termini assoluti ai mercati statunitense o cinese, per intenderci).

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Se poi dovessimo analizzare il tasso di penetrazione dell’ ecommerce sul totale delle vendite retail, noteremmo come in Italia questo dato si fermi a un modestissimo 3%, rispetto all’8% di Germania, al 6% della Francia e al 14% nel Regno Unito.

Tale dato è la media di situazioni ben diverse; infatti se nel turismo la penetrazione è pari al 20%, nella maggior parte dei settori tale valore non arriva al 10% (ad esempio è solo il 7,5% nell’informatica, e già questo di potrebbe dire quanta strada resta ancora da fare) con valori davvero bassi come nell’abbigliamento (2,5%) che pure ha registrato nell’ultimo anno una crescita del 30% e che nella percezione diffusa passa per essere uno dei settori di punta del commercio elettronico (almeno nostrano), ma che in Francia, ad esempio, registra una penetrazione decisamente più superiore (25%) e che autorizza a parlare di una raggiunta maturità del settore.

La riflessione da compiersi è quindi sulle motivazioni del ritardo italiano (l’ennesimo a ben vedere) e su quali siano le leve da attivare e gli ostacoli da eliminare per far crescere realmente l’ecommerce nel nostro Paese.

Iniziamo tornando ai dati italiani e analizzando il peso delle componenti “servizi” e “prodotti”.

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La bassa incidenza della componente “prodotti”con valori da “anno zero” per quanto concerne il grocery- rispetto ai mercati europei più evoluti (dove il peso di questa componente arriva anche all’80%) dimostra come finora l’ecommerce sia stato sfruttato soprattutto quale canale di disintermediazione, pensiamo ad esempio al canale turismo o banca-assicurazioni, e come via per ridurre i costi rispetto alle reti fisiche.

Vi sono invece numerosi settori dove l’ecommerce è ancora una chimera, perlomeno nel nostro Paese, come nel caso della distribuzione food dove solo l’8% delle insegna ha attivo un progetto di ecommerce, contro il 50% per le imprese della distribuzione non food. La media complessiva dice che solo il 4% delle aziende italiane vende online (e questo senza entrare nel merito della qualità e delle perfomances delle singole attività di ecommerce già avviate…).

Pertanto, una prima motivazione del lento avviarsi di questo settore nel nostro Paese può a essere individuato nel ritardo culturale e manageriale di tante imprese che solitamente attribuiscono la propria diffidenza a una supposta ritrosia da parte del consumatore italiano verso il commercio elettronico, magari connesso alla diffidenza nei confronti di modalità di pagamento come le carte di credito e affini (PayPal) che nel web coprono oltre il 90% dei pagamenti mentre la loro incidenza sul totale dei pagamenti nell’economia reale resta drammaticamente bassa.

Tra l’altro proprio sul fronte dei pagamenti, si stanno diffondendo nuove modalità integrate con gli strumenti di home banking (già ampiamente diffusi tra i consumatori), che migliorando usability e fiducia permetteranno di vincere le ultime barriere psicologiche, minando così alla base questa scusa addotta da tanti retailer.

L’analisi della composizione dei principali operatori del settore ci permette di approfondire la riflessione su quello che ho chiamato ritardo manageriale. Nei mercati in cui l’ecommerce è più evoluto almeno il 50% dei primi dieci operatori sono retailer tradizionali, in Italia invece vi sono solo 3 operatori del retail tradizionale (contro i 7 del Regno Unito che, per citare solo alcuni esempi, vede presenti Asda, Tesco e Sainsbury’s).

Inoltre, nella realtà, per quanto certamente nel nostro Paese esista un sempre più preoccupante digital divide rispetto alle principali economie nostre concorrenti, è dimostrato come ben il 50% degli internet users abbia effettuato almeno un acquisto sul web e che quindi non vi sono particolari elementi che portino a individuare una specificità in tale ambito del consumatore italiano.

Un accenno anche al rapporto tra ecommerce e “made in Italy”. L’incidenza dell’export sul valore complessivo del commercio elettronico in Italia vale circa 2 miliardi di euro, con una crescita nell’ultimo anno del 28%, superiore al tasso di crescita del mercato domestico. Ma ciò detto sarebbe illusorio pensare che l’ecommerce possa essere una scorciatoia per quelle imprese che vogliano arrivare in nuovi mercati, sia perché il valore del commercio elettronico cross country si dovrebbe attestare attorno al 25% del mercato complessivo (i consumatori finora hanno dimostrato di preferire acquisti online nel proprio Paese) sia perché resta imprescindibile la costruzione di reti fisiche nei nuovi mercati per sostenere la diffusione del proprio brand e dei propri prodotti.

In conclusione credo si possa dire che l’ecommerce non è altro che una forma più evoluta del retail tradizionale, nel senso che il ruolo del consumatore/cliente assume rilevanza e centralità sconosciute nei canali tradizionali soprattutto grazie ai device mobile e alla multicanalità che oramai è un tratto caratterizzante l’abitudine di sempre più consumatori.

Anche nel commercio elettronico, insomma, i fattori di successo sono dati da tre elementi che tutti dovrebbero ben conoscere:

  1. prezzo

  2. assortimento

  3. servizio (customer care e logistica in primis)

Calibrando queste tre leve e i nuovi strumenti tecnologici, i retailer dovrebbero progettare nuove piattaforme di relazione col cliente, individuando nuovi format di vendita che ibridino il meglio dei format tradizionali (pensiamo al successo del “drive” in Francia) per rafforzare e ricostruire la relazione coi propri clienti.

In sintesi più che sull’aggettivo “elettronico”, i retailer italiani farebbero bene a concentrarsi sul sostantivo “commercio”, indagando a fondo se abbiano al proprio interno le capacità culturali e manageriali per affrontare questa nuova sfida, prima che prendano ancora più spazio anche nel nostro mercato operatori stranieri (Amazon Fresh, do you know?) che hanno già ampiamente dimostrato di essere in grado di saper rispondere alle nuove esigenze dei consumatori.

@danielecazzani

I #consumi #FMCG caleranno anche nei prossimi anni (@Nielsen dixit). #Discount, #ipermercati e #supermercati ne sono consapevoli?

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Nielsen prevede che i volumi dei consumi Fast Moving Consumer Goods saranno in calo anche nei prossimi due anni (non badiamo troppo ai valori, influenzati dall’inflazione, seppur debole). Discount, Ipermercati e Supermercati ne sono consapevoli? L’impatto sarà probabilmente diverso sui vari canali e differenti dovranno essere le risposte: gli IPERMERCATI dovranno lavorare ancora sull’assortimenti, soprattutto non food (per disegnarne un nuovo ruolo) e dare reale valore ai propri clienti mettendo al centro delle proprie politiche assortimentali (più che promozionali) le private labels; i SUPERMERCATI dovranno ritrovare un’identità di prossimità, dimenticandosi pericolose escursioni in ambiti non alimentari che finora non li hanno mai premiati; i DISCOUNT potranno consolidare le quote e aumentare la propria share of wallets coprendo in modo intelligente nuovi bisogni e nuove categorie, ma migliorando soprattutto sui comparti freschi quale fulcro per il rafforzamento di un rapporto di fedeltà coi propri clienti.

Sono numerose le strade che i distributori potrebbero scegliere per far fronte a questa perdurante situazione di crisi: l’auspicio è quindi che non continuino a percorrere vecchi sentieri (quali l’aumento della pressione promozionale) che si dimostrano sempre più accidentati e poco utili a salvare i bilanci aziendali.

In questo contesto sarebbe centrale l’obiettivo del ridisegno dei rapporti tra IDM e GDO, ma la sensazione è che anche il prossimo anno si continuerà ad andare in ordine sparso, con l’unico effetto certo che la voce del retail italiano (alimentare, ma non solo) rimarrà sempre debole e non ascoltata…

 

@danielecazzani

Un antidoto alla #crisi? Il #loyalty #marketing! (considerazioni a margine dell’Osservatorio #Fedeltà 2013)

Come ogni anno anche l’edizione 2013 dell’Osservatorio Fedeltà promosso dall’Università di Parma- www.osservatoriofedelta.it – è stato un momento importante per fare il punto sullo stato di salute del loyalty marketing in Italia e nel Mondo, soprattutto per capirne il ruolo nell’ambito delle politiche dei retailers in risposta alla perdurante crisi dei consumi (nel nostro Paese soprattutto).

Il Prof.Daveri della Bocconi ha provato a rassicurare i partecipanti illustrando alcune deboli cifre (ripresa ordinativi e miglioramento fiducia imprese e consumatori) che parrebbero sostenere la tesi della fine del periodo recessivo. Onestamente però, al di là delle ottimistiche ipotesi sulla crescita del PIL italiano nei prossimi anni (sovrastimate rispetto a quelle dell’IMF), credo che i retailers farebbero meglio a non affidare le proprie sorti a una prossima ripresa, ma a concentrarsi sui propri business mettendo al centro delle proprie strategie i clienti.

Enzo Grassi, direttore generale di Catalina Marketing Italia, dall’alto del proprio punto di osservazione privilegiato ha infatti illustrato alcuni numeri che non avrebbero dovuto stupire i retailers presenti. Nonostante la crisi abbia colpito indistintamente e duramente tutti i consumatori (i consumi italiani sono a livello di 10 anni fa anche perché il reddito reale si è ridotto del 10%) riducendo la spesa media del 6% (per il combinato disposto di una riduzione della frequenza- che ha inciso per il 2%- e una riduzione della spesa in terminid i quantità e prezzi medi dei prodotti in carrello) i dati esposti hanno dimostrato come la fedeltà sia stata in grado di ridurre l’impatto della crisi, dato che i clienti fedeli hanno ridotto meno la frequenza d’acquisto.

E’ pertanto evidente che quei retailers che in passato hanno investito nella costruzione di una relazione di fedeltà coi propri clienti stiano ora subendo meno i colpi della crisi e, cosa ancora più importante, abbiano la possibilità di innescare, proprio grazie a tale relazione privilegiata, efficaci politiche di rilancio incentrate soprattutto sull’analisi dei comportamenti dei propri clienti fedeli.

Big data, multicanalità, experience, saranno di fatto le parole d’ordine per le politiche di loyalty dei prossimi anni (dopo tutto sono almeno due anni che l’Osservatorio Fedeltà ci dice che è giunto oramai il tempo del loyalty “di servizio”).

Concentrarsi sui propri clienti fidelizzati, quindi su attività di retention, anziché di acquisition, è una scelta che sempre più aziende stanno compiendo, avendo capito che un cliente fedele è un patrimonio da valorizzare, anche perché in grado di richiamare altri clienti meglio di altri media più o meno tradizionali (Nielsen ha recentemente ricordato a tutti che il passaparola è sempre lo strumento più potente, che ora si può avvalere dell’ambiente dei social per vedere elevato all’ennesima potenza la propria efficacia).

E però necessario che i retailers siano sempre più generosi nei confronti dei clienti fedeli, arricchendo di contenuti (anche esperienziali) e non solo di promozioni la carta fedeltà, anche per contrastare in modo efficace i nuovi players che si affacciano sul mercato, grazie proprio alle possibilità offerte dalle tecnologie digitali e l’integrazione tra queste e i negozi fisici e alla diffusione di nuovi strumenti di pagamento (pensiamo a Google Wallet) che diverranno sempre più il perno delle attività di loyalty.

Ma il principale pericolo per i retailers è dato dalla disintermediazione che alcune industrie stanno compiendo, dotandosi di strumenti e piattaforme per dialogare direttamente coi propri clienti, potendo fare leva sulla forza dei propri brand (come il caso illustrato da Procter & Gamble ben dimostra).

In conclusione, solo i retailers che sapranno dare centralità al loyalty marketing, dialogando coi propri migliori clienti e valorizzandone l’experience, potranno  reagire in modo efficace alle mutate condizioni ambientali, dato che pare oramai assodato come il consumatore uscirà comunque cambiato da questa lunga crisi, ovvero sarà sempre più attento al valore e al prezzo, più social e interessato a essere coinvolto in modo attivo (dai retailers o dall’industria).

Al #retail italiano non serve uno psicanalista ma un progetto di sistema. @retailsumm_it: alcune considerazioni a margine

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Il palco del Retail Summit 2013 in alcuni momenti sembrava un lettino da psicanalista con amministratori delegati e manager che elencavano le quotidiane frustrazioni (ben comprese dalla platea) del “fare retail” in Italia per colpa di quei mali che affliggono  il nostro Paese, come la scarsa liberalizzazione in alcuni settori strategici, l’eccessiva burocrazia, l’elevato costo del lavoro, ecc.

Psicanalisi a parte, l’incontro è stato comunque estremamente ricco in termini di spunti di riflessione.

Innanzi tutto è parso ai più evidente come l’eccessiva frammentazione della rappresentanza del mondo Retail- troppe associazioni, troppo divise- sia un ostacolo alla capacità di farsi ascoltare da parte di una delle componenti più importanti del PIL italiano. Il caso dell’IVA ne è un esempio: le tante proteste dai vari settori avanzate in modo scoordinato, non hanno inciso sulla scellerata scelta finale di confermare l’aumento dell’aliquota. Ed è ancora più assurdo, kafkiano direi, ascoltare i rappresentanti di uno dei settori che più investe in pubblicità dire che la Distribuzione pecca in comunicazione: i distributori hanno l’indubbio privilegio di poter parlare ogni giorno, all’interno dei propri negozi, con milioni di Italiani, ma per far sentire la propria flebile voce, si affidano solo a sterili comunicati stampa… mentre altre associazioni (penso a Coldiretti) hanno la forza di mobilitare il Paese per le proprie campagne (a proposito: qualcuno si ricorda di una campagna, una, di Federdistribuzione?) garantendosi un’invidiabile copertura mediatica e un positivo ritorno d’immagine.

Mi è parso altrettanto evidente come il concetto di “filiera” sia ancora ben lungi dal radicarsi, vista la diffidenza con cui ancora si parlano troppo spesso IDM e Distribuzione (il siparietto tra Coop e Carlsberg su chi avesse perso più margini in questi anni è a suo modo istruttivo). Acquisire una visione di sistema è, invece, a mio avviso un passaggio necessario per superare inefficienze e rigidità che inficiano le performances su entrambi i lati, partendo magari dall’organizzazione delle Centrali d’Acquisto o quantomeno da una semplificazione della contrattualistica (arrivando in futuro a una condivisione dei dati loyalty) che a cascata potrebbe impattare positivamente anche sulla gestione del momento promozionale, che in tanti casi ora pare fuori controllo (e sempre meno efficace).

A proposito di “fare sistema”, la testimonianza dei player della Logistica col progetto Delivering, ha dimostrato come, superando ostacoli burocratici e tecnici- la condivisione delle competenze sia in grado portare notevoli miglioramenti alle filiere, alle organizzazioni e, non ultimo, ai conti economici.

Gli interventi di Augusto Cremonini e di Stefano Beraldo hanno ricordato ai più come fare management significhi non solo occuparsi delle grandi strategie (memo: è essenziale avere piani strategici a più anni, evitando di vivere alla giornata…) ma anche intervenire su quelli che a prima vista possono sembrare aspetti trascurabili del nostro business- come i costi di una lampadina in un negozio…- ma che nella realtà nascondono potenzialità di crescita: ogni riga del conto economico, ogni funzione aziendale, ogni business unit deve mirare sempre al proprio miglioramento. Restare fermi, oggi, significa indietreggiare.

Da numerosi speakers è stato detto che il cliente non è più multichannel, ma omnichannel. Non commento il “simpatico” proliferare di termini in ambito marketing [appartengo alla categoria dei marketer quindi non vorrei inimicarmi troppi colleghi], ma ricordo come più che sull’aggettivo sia importante concentrarsi sul sostantivo: CLIENTE. Il cliente deve essere davvero (finalmente) posto alla base delle strategie aziendali, se vogliamo incrociarne i nuovi desiderata che parlano sempre più di una ricerca spasmodica del rapporto qualità-prezzo e di una maggiore consapevolezza delle (e nelle) proprie scelte d’acquisto. Sta forse scomparendo l’epoca della pubblicità tradizionale a favore della relazione (in questo aiutati, o costretti, dal proliferare dei device mobili), quindi è necessario per le aziende attrezzarsi per l’ascolto dei clienti, avendo nel contempo il coraggio di ridisegnare anche la propria organizzazione su questi nuovi paradigmi.

Pugliese di Conad ha infine riportato al centro dell’attenzione un attore, spesso considerato come terzo, ma che a tutto tondo deve essere considerato come facente parte del sistema Retail: ovvero il credito. Non è possibile parlare di rapporti IDM e Distribuzione lasciando fuori dalla porta questa cruciale componente, né si può parlare di investimenti o internazionalizzazione senza prendere atto di come sia essenziale nel nostro Paese porre come questione cruciale un nuovo disegno dei rapporti tra mondo finanziario-bancario e mondo Retail (ma non solo).

Se il Retail italiano saprà affrontare da sè queste sfide- partendo, auspicabilmente dall’indire quegli Stati Generali del Retail cui si è accennato nel corso del Summit- allora è possibile che possa crescere e pensare in modo più concreto a uno sviluppo internazionale- finora debole come testimoniato dal Fondo Strategico Italiano, nonostante l’indubbia potenzialità di tanti nostri brand- e affrontare in modo più efficace i mutamenti degli stili di consumo, sia quelli di oggi che quelli di domani.

 

Daniele Cazzani @danielecazzani