Il #lavoro, i #consumi e la #GDO : si sta come, d’autunno, sugli alberi, le foglie…

I recenti dati ISTAT hanno documentato un ulteriore aumento della disoccupazione (arrivata ad agosto quota 12,2% con un incremento di 1,5 punti percentuali rispetto al 2012) con una drammatica punta del 40,1% per la disoccupazione giovanile.

istat dis

La sensazione di tanti, troppi, lavoratori è oramai riassumibile nella drammatica poesia ungarettiana “Soldati”:

Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie

Una profonda sensazione di precarietà che incide (e come non potrebbe?) sulla fiducia di milioni di famiglie e di giovani (che nemmeno riescono a mettere piede nel mondo del lavoro).

Purtroppo ci siamo quasi abituati a questi dati, che sono  lo specchio di un perdurante calo del PIL (-2% nel secondo semestre 2013 rispetto all’anno precedente) che sprofonda  il nostro Paese in una delle peggiori crisi della sua storia  e rende quantomeno risibili i proclami di una ripresa di fine anno (che ben sappiamo non avrà effetti immediati sul tasso di disoccupazione, atteso ancora in aumento per il 2014)…

In questa situazione i consumi delle famiglie italiane stanno continuando a diminuire, anche per quanto concerne la spesa alimentare, che è già stata interessata da una profonda rimodulazione della domanda , attraverso l’impoverimento del carrello medio e il passaggio a prodotti primo prezzo o alle private labels e una sempre maggiore predilezione per il canale discount. Questa crisi si traduce anche in una riduzione del numero netto di punti vendita sul territorio, dopo anni che avevano comunque registrato aumenti delle reti pur a fronte della riduzione della domanda.

Finché non si invertirà l’andamento del PIL nazionale e una ripresa non si ripercuoterà sul lavoro e più in generale sulla condizioni delle famiglie italiane, è pertanto illusorio attendersi riprese dei consumi. Molti ricercatori ritengono inoltre che questa crisi segnerà per anni le abitudini di consumo degli Italiani: è pertanto evidente come la GDO e l’Industria si trovano oggi e si troveranno in futuro ad affrontare una domanda diversa da quella cui erano abituate.

In tale contesto sarebbe auspicabile che, oltre a correggere proprie inefficienze (celate da anni di crescita, spesso drogata), GDO e IDM sfruttassero questa “attraversata nel deserto” per rivedere i propri paradigmi di collaborazione, per essere in grado di affrontare insieme il nuovo ambiente e proporre nel contempo ai consumatori italiani una nuova offerta.

Anziché disperdere le proprie energie in muscolari confronti, o perdere tempo in battaglie di breve respiro (come quella, ovviamente persa, sull’aumento dell’IVA), sarebbe oltremodo necessario che GDO e IDM si mettessero di fianco l’una all’altra, non per simulare una coincidenza di vedute che non può sempre esservi nei fatti, ma per far sentire la propria voce e disegnare un nuovo contesto di relazioni e di mercato finalizzato a un sostenibile piano di rilancio dei consumi, che nessun altro attore- la Politica tantomeno- pare essere intenzionato o in grado di proporre.

 

Daniele Cazzani (Head of Marketing & Communication Lombardini Holding SpA – IperPellicano) @danielecazzani

Gli ipermercati e il #nonfood: aspettare Godot o ascoltare Einstein?

aspettando godot

GS1 Indicod-Ecr (www.indicod-ecr.it) ha presentato ieri a Milano i risultati dell’Osservatorio Non Food 2013. La presentazione è stata ricca di spunti, dati, analisi e suggestioni assolutamente interessanti; riporto qui di seguito alcuni dati ed elementi da cui partirò per alcune riflessioni:

– dal 2002 al 2012 i consumi non alimentari non sono cresciuti: negli ultimi anni, dopo una leggera crescita nel periodo 2003-2006, hanno registrato dei cali, dapprima in linea con quello generale dei consumi, ma peggiorando sempre più fino al drammatico dato del 2012 (-8,7%);

–  nel periodo 2007-2012 il calo dei consumi alimentari (-9,6%) è stato peggiore del calo dei consumi alimentari (-8,4%), con punte ancora più negative nei comparti abbigliamento (-13%), elettronica di consumo (-12%) e mobili (-16%);

–  l’incidenza deli consumi non alimentari sul totale consumi è pertanto calata nel periodo 2002-2012 dal 21% al 16%;

–  nonostante il calo dei consumi sono paradossalmente aumentati i punti vendita e, soprattutto, i canali di vendita, alcuni a dire il vero- come segnalato dal moderatore/provocatore dell’incontro Luigi Rubinelli direttore di www.retailwatch.it -non ancora ben tracciati e nell’ombra: pensiamo a Ebay (www.ebay.it) o alla vendita dell’usato, ai “cinesi”, ai mercatini etc.;

–  come combinato disposto dei dati sopra riportati (calo consumi sommato a un aumento della pressione concorrenziale) nel canale ipermercati il peso del Non Food è sceso dal 32% del 2004 al 24% del 2012 e sarà destinato ancora a scendere visto che, ad esempio, Auchan e Coop hanno anticipato progetti per rivedere tutto il comparto Non Food, riducendo l’assortimento- se non addirittura lo spazio fisico nei negozi- e rivedendo le categorie;

La crisi in effetti è la prima preoccupazione dei manager italiani del FMCG, come rilevato da GFK Eurisko (www.gfk.it): il dato è superiore a quello medio europeo (dove i manager sono più preoccupati dai nuovi trend di consumo ad esempio) e segnala il rischio che le imprese italiane si pongano in una situazione di attesa (“Aspettando Godot” di Beckett è stato più volte citato…) sperando forse che qualcosa o qualcuno tolga dal tavolo la crisi (!?) e permetta loro di riprendere le vecchie abitudini.

Non potrebbe esserci atteggiamento più sbagliato!

Oltre alla crisi, che comunque ridisegnerà le abitudini di acquisto e il rapporto stesso degli Italiani con lo shopping alimentare e non (“non c’è solo la rinuncia, ma anche un consumo più consapevole” De Rita dixit) , i retailers dovrebbero tenere conto di un ulteriore aspetto: l’atteggiamento sempre più multicanale dei consumatori, oramai avvezzi a informarsi on line prima di effettuare un acquisto in un negozio fisico o viceversa (anche se, in base a un ricerca commissionata in Europa, lo showrooming pare in realtà interessare solo il 10% dei consumatori).

L’e-commerce appare ancora una sfida ancora lontana dalle strategie dei retailers, per quanto l’ingresso di Amazon (e di altri players) sul nostro mercato dovrebbe invece indurli ad accelerare su questo fronte. Forse è anche per questo motivo- ovvero la scarsa attitudine in tal senso dei retailers- che le recenti stime sull’e-commerce diffuse da eMarketer (www.emarketer.com) collocano le prospettive del commercio elettronico nel nostro Paese Italia ben al di sotto di tanti altri Paesi europei [ne parleremo in un prossimo post]. Un esempio può dare meglio di tante parole il polso della situazione.

In un recente sondaggio sul sito www.retailwatch.it alla domanda sui motivi della scarsa diffusione del drive in Italia, la risposta più cliccata (63%) è stata “le persone non usano internet per fare la spesa” (vedere grafico).

drive

Incredibile, ma è tutto vero! Se questa è la sensibilità dei retailers italiani sui temi dell’e-commerce, temo che Amazon & C. avranno vita facile…

Ma veniamo agli IPERMERCATI, che oltre a registrare perfomances davvero critiche proprio in ambito Non Food (IRI www.iriworldwide.it nello Scenario Trade di Aprile 2013 registrava un calo del 9% rispetto al già drammatico 2012, con punte del -13% nel comparto tessile), soffre dell’accerchiamento delle GSS (Grandi Superfici Specializzate) moltiplicatesi negli ultimi anni anche al di fuori dei centri commerciali (e quindi non sempre sotto il medesimo “tetto” degli ipermercati).

Proprio il Non Food che doveva costituire il punto di forza e attrazione degli ipermercati, pare esserne divenuto il principale problema, tanto che sempre più operatori della GDO sembrano avere riscoperto il proprio lato “alimentarista” snobbato negli ultimi anni…

Sinceramente, basta dare un’occhiata a tanti reparti (pensiamo proprio al tessile o alla cine-foto-ottica) per rendersi conto di quanto siano ancora confuse le idee di tanti retailers, ma la crisi e l’avvento di nuovi competitors e la multicanalità ha accelerato un esito che pareva scontato: bastava, in fondo in fondo, dare un’occhiata ai margini dei reparti Non Food negli ultimi anni, andati via via assottigliandosi.

Il problema è ora disegnare una nuova via per il Non Food, visto che la pressione concorrenziale potrà solo aumentare nel futuro (ricordiamoci l’e-commerce) e l’introduzione anche in tale ambito di regole più certe per i pagamenti potrebbero generare nuove tensioni e criticità.

Esperimenti come la creazione di shop in shop hanno già dimostrato i propri limiti (perché mai, mi chiedo, un retailers dovrebbe cedere la sovranità su parte del proprio negozio ad altri?) e sono parsi più che altro come il goffo tentativo di intorbidire le acque ed esternalizzare le proprie criticità.

L’unica via è quella di lavorare sulle categorie (sennò i category manager a che servono?), partendo però da una chiara individuazione delle esigenze dei propri clienti, che potranno anche essere diverse da negozio a negozio: è finita l’epoca dell’approccio univoco e arrogante al mercato. I retailers devono riscoprire la capacità di ascolto e lettura dei territori e prepararsi a un lavoro certamente più difficile, ma che è l’unica via per invertire i trend negativi degli ultimi anni (solo parzialmente causati dalla crisi, come dicevamo poco sopra).

Parallelamente gli ipermercati non potranno non investire nell’e-commerce integrato coi propri negozi fisici. Basta dare un’occhiata a quanto accade in altri Paesi per cogliere importanti spunti su cui lavorare [ne parleremo a breve].

La strada certamente non sarà facile, ma evitando di rivedere dal basso le proprie strategie nei comparti Non Food gli ipermercati non riusciranno ad emergere dalla crisi in cui sono attanagliati.

Concludo ancora una volta con una frase di Albert Einstein (ieri chiamato in causa più volte):

Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare il conformismo; invece, lavoriamo duro.

Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla.

per maggiori informazioni sull’Osservatorio Non Food 2013: http://indicod-ecr.it/servizi/osservatori/osservatorio-non-food/

I #discount e la #crisi: un binomio tutto italiano?

Grande-Crisi

Un articolo recentemente pubblicato da @NamNews che evidenzia la forte crescita del discount nel mercato UK  (www.kamcity.com/namnews/asp/newsarticle.asp?newsid=70947&utm_source=feedburner&utm_medium=twitter&utm_campaign=Feed%3A+namnews-kamcity+%28NamNews+-+Latest+Grocery+Retail+News%29) ha attirato la mia attenzione.

nielsen uk

Da qui nasce l’idea di parlare ancora una volta di discount- ma il ragionamento vale a 360 gradi per tutta la GDO- concentrando l’attenzione sul rapporto tra andamento dei consumi e quota di mercato dei discount, pur senza avere la velleità di scrivere qualcosa di definitivo.

Tornando in UK, il mercato è caratterizzato non da una contrazione dei consumi, ma da una loro ripresa, come testimoniato dai dati @Eurostat (vedi tabella): quindi pur in un contesto di ripresa dei consumi i discount stanno registrando performances migliori degli altri formati, che sono comunque stati in grado di implementare strategie e attività per intercettare il consumo (ad esempio  con una forte pressione promozionale e con attività, come la distribuzione di buoni carburante, utili per differenziarsi dalla concorrenza).

eurostat

Non entro nel merito delle determinanti della crescita in UK- anche se potremmo citare la riduzione della spesa pubblica, le iniziative di sostegno alle famiglie e la libertà d’azione dovuta all’assenza dei vincoli europei di cui può godere David Cameron- ma non posso non cogliere come l’andamento sincrono dato dalla crescita dei consumi e dalla crescita dei discount sia una chiara dimostrazione di come sia estremamente riduttivo individuare nella sola crisi i motivi della crescita dei discount che stiamo registrando negli ultimi anni anche nel nostro Paese.

Ragionamento simile si potrebbe fare guardando la situazione tedesca, dove l’economia per quanto in sofferenza a causa del rallentamento del mercato europeo, segna ancora dati positivi- come il calo della disoccupazione registrato lo scorso mese- e dove i discount continuano a registrare buone performances.

La crescita dei discount si può spiegare, oltre che come effetto-risposta alla crisi, con una taratura di assortimenti e politiche commerciali più in linea coi nuovi desiderata dei consumatori, sempre meno propensi a perdere tempo tra scaffali pieni di prodotti di dubbia utilità, e meno inclini comprare prodotti inutili e non previsti nella propria wish-list, oppure avezzi, ad esempio nel non food, ad avere un approccio multicanale (privilegiando l’ e-commerce che concede maggiore libertà e controllo al cliente); consumatori che non sono più disposti a comprare extra quantità solo per poter godere di un prezzo migliore, e non riconoscono più automaticamente il brand value all’IDM (basta notare l’incidenza delle private label in Germania e in altri Paesi europei doppia rispetto al nostro Paese; anche in questo caso la strada che dobbiamo percorrere in Italia è ancora molta… se non nei discount, certamente negli altri formati).

In Italia però, come già detto in alcuni miei precedenti interventi sul mondo discount, la crescita della quota dei discount sta rallentando. A mio avviso il motivo è da individuarsi nel fatto che finora il formato ha raccolto parte della spesa in fuga dagli altri canali (pensiamo alla sofferenza degli ipermercati che stanno registrando cali davvero drammatici…) ma, avendo dato  priorità data allo sviluppo (spesso irrazionale) della rete vendita, pare, nella maggior parte dei casi, non essere stato in grado di definire una propria identità, sia in termini di politica commerciale (assortimenti in primis) che di servizi.

Paradossalmente in Italia i discount sembrano addirittura vergognarsi del proprio stesso nome (vedere ad esempio la recente campagna televisiva di una delle catene più importanti nel nostro Paese che ha l’obiettivo di accreditarsi come  “supermercato”), mentre nelle altre esperienze europee, paiono non essersi concentrati tanto su una questione di nome, quanto sull’arricchimento della propria offerta con servizi e con una gestione più strategica dell’assortimento e una politica commerciale più lineare e chiara.

Ennesima dimostrazione dell’attaccamento tutto italiano per le “etichette” e i “titoli” più che per la sostanza delle cose? Voglio sperare che non sia così, ma il rischio, per i discounters, è quello di perdere un’importante (e irripetibile) occasione per consolidare la propria presenza nel vissuto dei consumatori italiani e porre le basi per una crescita della propria quota di mercato.

Daniele Cazzani @danielecazzani

Il gigante muto: la #GDO italiana e l’aumento dell’#IVA

gigante

Nonostante il forte peso sull’economia italiana (sia come contributo al PIL che sul fronte dell’occupazione), nell’ambito del dibattito sul prossimo aumento dell’aliquota IVA al 22%, la GDO italiana sembra un gigante muto, incapace di parlare coi milioni di Italiani che ogni giorno ne frequentano i punti vendita. Non so se tale mutismo sia indotto dalla “cattiva stampa” di cui gode nel nostro Paese la Distribuzione: spesso indicata come colpevole di speculazioni sui prodotti agroalimentari ai danni dei poveri agricoltori e dei consumatori, o come ingannatrice con le “offerte civetta” dei propri volantini, nella realtà numerose ricerche hanno dimostrato come la GDO (soprattutto nei territori dove la concorrenza tra insegne è maggiore) abbia addirittura svolto un ruolo cruciale di calmieratrice dei prezzi a vantaggio dei consumatori…

Sul tema dell’aumento dell’IVA le associazioni del settore non possono certo trincerarsi dietro qualche comunicato stampa per potersi autoassolvere e o pensare di avere svolto la propria parte. Se davvero ritenessero di avere fatto quanto possibile temo dovrebbero interrogarsi sulla loro finalità e utilità.

Da quando, nel lontano 1973, l’IVA fu introdotta, l’aliquota ordinaria nel corso degli anni è aumentata dal 12% al 21%, col chiaro obiettivo di aumentarne il gettito, che risulta però stabilizzato negli ultimi anni, poiché l’aumento dell’aliquota è stato compensato da un calo della base imponibile, ovvero dei consumi (finali e intermedi).

Se diamo per acquisito che l’IVA non ha effetti redistributivi né risulta progressiva, anzi (vedere il recente articolo de Lavoce.info http://www.lavoce.info/ecco-chi-soffre-di-piu-con-laumento-delliva/) possiamo concludere che oltre all’effetto depressivo sui consumi (già in drammatico calo, come ben sappiamo) l’unico obiettivo dello Stato è evidentemente quello di fare (forse) cassa.

Sono personalmente certo che con una ristrutturazione dell’organizzazione del nostro Stato, sarebbe possibile ottenere risparmi ben superiori ai quattro miliardi necessari per sventare l’aumento dell’IVA, e disegnare uno Stato più efficiente ed efficace. Ma rischierei di andare fuori tema ed avventurarmi nei pericolosi meandri della spesa pubblica (e della politica).

Restando in ambito IVA credo si potrebbero ottenere risultati migliori riducendone l’evasione (pari a circa il 20%, contro il 5% della Francia) o rivedendo i prodotti rientranti nelle diverse aliquote (per quale motivo ad esempio  la stampa gode dell’IVA agevolata al 4%?) per migliorarne la progressività. In altri Paesi europei- in cui l’IVA è mediamente inferiore a quella italiana (vedere tabella)- normalmente gli aumenti delle aliquote sono state affiancati da riduzioni delle imposte dirette o a favore del lavoro, mentre nel nostro Paese questi aumenti si sommano a un livello di tassazione tra i più alti al Mondo.

aliquote Iva Europa

Scongiurare l’aumento dell’IVA potrebbe pertanto essere un primo passo, per quanto assolutamente non sufficiente, nel tentativo di frenare il calo dei consumi nel nostro Paese; ciò nondimeno la GDO non può a mio avviso continuare a giocare un ruolo di secondo piano- quasi accettasse che il suo ruolo si limitasse a cambiare i frontalini sugli scaffali nottetempo una volta in vigore l’aumento dell’aliquota…- rinunciando a reclamare il riconoscimento di una parte attiva su temi tanto cruciali.

Certo le reali leve che potrebbero garantire un rilancio dei consumi in Italia- che, sia ben chiaro, non potrà essere svincolato da una ripresa economica che vada di pari passo con un aumento dell’occupazione, soprattutto giovanile- si trovano su altri tavoli, ma credo GDO e IDM possano fare molto insieme per migliorare la filiera, ottimizzare il momento contrattuale, con la finalità di ridurre rigidità, frizioni e inerzie a tutto beneficio del portafoglio del consumatore e, ne sono certo, anche dei reciproci conti economici.

La GDO in questo, come detto all’inizio, oltre a lavorare sui tavoli istituzionali (mi chiedo perché il concetto di lobbying in Italia sia tanto temuto…) avrebbe anche la possibilità di giocare un ruolo in più, dato dall’opportunità di dialogare coi propri clienti per rendere più trasparente il proprio operato e cercare “alleati” in una battaglia che non potrebbe essere etichettata solo come partigiana o interessata.

Qualche esempio? Ogni giorno nelle nostre cassette arrivano volantini di qualche insegna: perché non è stato possibile riservare in ogni volantino un piccolo spazio, per un comunicato in cui la Distribuzione spiegasse il proprio punto di vista, sottolineando gli sforzi compiuti del passato e le proprie proposte (ci sono delle proposte, vero?). Perché non inserire nei volantini una cartolina da inviare alla Presidenza del Consiglio per chiedere lo stop all’aumento dell’IVA? Perché non stampare del materiale informativo da consegnare alla casse? Perché non organizzare un evento itinerante nelle principali piazze italiane? Provocazioni? Può darsi…

Vista la frammentazione del settore e la difficoltà di relazione con l’IDM e gli altri attori in campo, l’idea che la GDO ritrovi il coraggio della parola è forse un’illusione, ma probabilmente non meno assurda di chi pensa che il mero rinvio dell’aumento dell’IVA possa essere considerato di per sé un successo…

 

@danielecazzani

Biancaneve e i sette nani, ovvero la #GDO e le sue sette sfide

Biancaneve-03

Ogni giorno abbiamo modo di leggere dati sempre peggiori pubblicati da Istituti di Ricerca, Osservatori, Organizzazioni, Associazioni, Ministeri, sul crollo dei consumi nel nostro Paese, la progressiva distruzione del PIL e l’aumento della disoccupazione (con punte drammatiche al Sud e più in generale per i giovani). Contemporaneamente la GDO pare interrogarsi sul calo dei volumi (e dei fatturati) che caratterizzano questa prima metà del 2013 (e che hanno interessato almeno i due anni precedenti) chiedendosene quasi il motivo, quasi non capisse che tale situazione non è altro che il combinato disposto dei componenti della crisi italiana sopra accennati.

E’ però vero che, pur in questo contesto, all’interno della GDO vi sono realtà che stanno registrando comunque delle crescite o, perlomeno, dimostrano una migliore resilienza (per usare un termine proprio della Psicologia tanto in voga oggi).

La domanda da cui parto è quindi molto semplice: la GDO ha la possibilità di affrontare tale contesto in maniera meno passiva, sapendo trovare la forza per ripensare le proprie strategie, evitando di attendere soluzioni miracolistiche e magari facendo “sistema” per rappresentare in modo più forte le istanze di un settore importante dell’economia del nostro Paese? La mia risposta è ovviamente SI’ e per argomentarla ho deciso di elaborare un parallelo con la fiaba di Biancaneve e i sette nani, dove la dolce Biancaneve (la GDO) fugge dalla perfida Regina (la crisi) e si nasconde in una casa, abitata da sette nani (le sfide della GDO) trovando insieme a loro la via per la felicità (il Principe quale metafora della ripresa), nonostante cadute e momenti di difficoltà (la mela avvelenata).

Facciamo quindi conoscenza dei sette nani (lo so, c’è chi dice che la sfide della GDO siano ben più numerose…).

 

1-COMPRALO. I dati inerenti l’incremento del numero di referenze trattate negli ipermercati- IRI certifica una media di oltre 16 mila referenze solo nel comparto LCC- dimostrano come l’esplosione di prodotti sugli scaffali solo parzialmente sia andata di pari passo con l’aumento della quota di questo canale di vendita.

Più in generale, nel tentativo di incrementare la propria share of wallet a danno dei canali tradizionali, la GDO ha via via aumentato il numero di prodotti in assortimento, lavorando spesso più sull’asse della profondità che su quello dell’ampiezza, ma senza sembrare avere un’idea chiara sulla direzione da seguire, soprattutto nel canale ipermercati.

E’ altrettanto vero che certi gigantismi– che hanno portato a costruire ipermercati di tali dimensioni da apparire come “pianeti” senza ossigeno- hanno dimostrato la difficoltà di estendere oltre certi limiti la capacità di gestione degli assortimenti, come se le insegne della GDO che su tali strade si sono avventurate non fossero state in grado di riempire quegli spazi di contenuti rilevanti per la propria clientela. Abbiamo così visto nascere reparti non food “dopati” come vaghi tentativi di imitazione del category killers di turno, senza però averne il know how, né tantomeno essere in grado di raccontare al cliente questa loro nuova dimensione (per essere credibile come specialista dell’elettronica, ad esempio, non è sufficiente imitare l’assortimento del leader di mercato e realizzare un negozio nel negozio, dotato di propri spazi e strutture ad hoc).

Ora il problema non è, tout court, ridurre la numerica dei prodotti sugli scaffali quanto attuare una gestione attiva e strategica dell’assortimento, anziché attuare periodiche revisioni assortimentali che spesso si limitano a de-listing funzionali all’accaparramento di ulteriori listing fee… Detta così parrebbe un’ovvietà, ma la verità è che basta dare un’occhiata agli scaffali per rendersi conto di come concetti semplici come la costruzione di una scala prezzi leggibile per il cliente sia spesso un’illusione e quanto i negozi siano ancora pieni di vecchie “glorie del passato” che si trovano a fianco delle new entry annualmente proposte dall’Industria.

Ma quanto vi sia ancora da fare nell’ambito di una corretta strategia di manutenzione dei propri scaffali è dimostrato dal fatto che vi siano iniziative quali “Prodotto dell’Anno” che dichiarano l’obiettivo di proporre annualmente le innovazioni di prodotto migliori cui dare spazio sui propri scaffali. Pur essendo vero che la prima vittima di tale illusione è la stessa IDM, è altrettanto evidente che la maggior parte delle innovazioni nella realtà non sono tali (almeno agli occhi del vero giudice: il cliente) e che la maggior parte dei lanci non si traducono in successi. Provocatoriamente inoltre potrei dire che per conoscere il vero “prodotto dell’anno” sarebbe sufficiente leggere i dati di venduto alla casse dei propri punti vendita.

Infine un breve accenno alle private labels, da taluni viste come “fate turchine” in grado di miracolare margini e fatturati. Al di là di avere sbagliato fiaba- mi si conceda la battuta…- il rischio concreto è quello di attribuire a tali prodotti un ruolo non proprio e troppo ambizioso. A mio avviso la crescita che le PL stanno registrando negli ultimi anni- per quanto la quota italiana, prossima al 20%, sia ancora lontana dalla media europea del 35%- deve essere vista soprattutto come efficace risposta alla domanda del cliente di prodotti di buona qualità ma che non debbano scontare nel prezzo la brand value dei prodotti dell’IDM e, soprattutto dal lato della GDO, come tassello cruciale per rafforzare il rapporto che lega il retailer al proprio singolo cliente.

Ciò che spesso manca su questo fronte è però un’attività di scouting finalizzata alla ricerca di fornitori e prodotti, che si ponga l’obiettivo dell’innovazione di prodotto/servizio a favore del cliente, facendo sì che la GDO esca dalla logica da follower dell’IDM nella selezione dei prodotti e dai più banali “mee too” anche sul fronte dei packaging.

Il lavoro di Compralo è certamente tra i più pesanti e critici, e proprio per questo, senza sminuirne la centralità, sarà certamente uno degli aspetti sui quali Biancaneve dovrà lavorare maggiormente.

2-ESPONILO. Nonostante siano numerose le ricerche e i contributi che parlano del punto vendita quale “media”, nelle realtà i supermercati e gli ipermercati di oggi sono non molto dissimili da come si presentavano anni fa. Certo, vi sono state evoluzioni nelle attrezzature (penso ai passi in avanti, soprattutto nell’ambito del risparmio energetico, sulle attrezzature dei freschi e sull’ambientazione di alcuni reparti), ma al di là di alcune chimere- come il digital signage– penso si possa dire che negli ultimi anni le novità principali si siano concentrate soprattutto nell’area del barriera casse (prima con l’introduzione di soluzioni di self scanning e più recentemente self checkout), anche se mi chiedo con quale reale valore per il cliente che si vede sempre più gravato di attività… Pur essendo evidente come l’organizzazione spaziale di un punto vendita parta sempre e comunque dal prodotto e servizi contenuti e non essendovi layout ottimali in assoluto, sono convinto che tanti operatori della GDO farebbero meglio a girare i propri punti vendita dotati di carrello per capirne le tante “forzature” e “anomalie”: scoprirebbero così corridoi troppo stretti, categorie merceologiche distribuite in ogni qual dove nel punto vendita, assenza di spazi di “respiro”- dove poter attendere qualcuno col carrello senza sentirsi come una macchina in panne in mezzo ai via dei Fori Imperiali- o zone antistanti le casse sempre troppo anguste…

Esponilo quindi- oltre a utilizzare i più moderni software per la gestione dello space allocation e il visual merchandising– dovrebbe di tanto in tanto mettersi nei panni del cliente e chiedersi se sia davvero così marginale studiare in modo più attento quanto la GDO sia in grado di aiutare il cliente all’interno del punto vendita, realizzando ad esempio una chiara segnaletica che gli permetta di decifrare gli scaffali, o trovare il prodotto che gli serve nel minor tempo possibile. In caso contrario, ad esempio, i sempre più dispersivi ipermercati avranno ben poco da lamentarsi del fatto che tanti clienti si spostino sempre più verso canali, quali il discount o supermercati di piccole dimensioni, dove la lettura dell’assortimento e la “viabilità” risultano più intuitivi e rapidi.

3-PROMOZIONALO. Si tratta certamente del nano più ostico e scorbutico. Negli anni è diventato il vero protagonista della scena, anche per rimediare agli eccessi di Compralo e ai limiti di Esponilo che in effetti hanno riempito (in modo disordinato) gli scaffali di prodotti difficilmente vendibili se non con un sostanzioso taglio prezzo. Come recentemente documentato da Nielsen la pressione promozionale è passata dal 20% nel 2000 al 30% nel 2012 e nel contempo la sua efficacia si è ridotta. Nei libri di marketing- approssimativamente alle pagine due o tre c’è scritto che la leva del prezzo (ci ricordiamo le care, desuete, famose quattro “P”? Product, Price, Promotion, Place?) è la più facile da imitare da parte dei competitors, soprattutto quando questi vendono il nostro medesimo prodotto. E dato che le analisi Nielsen dimostrano come le promozioni riguardino, 365 giorni all’anno, sia i leader che i followers di categoria- oramai anche le private labels!- ecco che abbiamo un elemento che da solo spiega la riduzione dell’efficacia promozionale. Oggigiorno poi vi sono strumenti che permettono ai clienti di comparare i prezzi tra i diversi retailers semplicemente utilizzando uno smartphone e geolocalizzando la ricerca; e poiché i clienti sono oramai divenuti molto bravi a utilizzare questi strumenti (molto più di quanto lo siano certi buyers…) non v’è da stupirsi che la GDO sia riuscita in pochi anni  a formare una classe di cherry pickers seriali.

L’uscita da questo cul de sac non è ovviamente nel semplificatorio passaggio all’every day low price– che è una strategia commerciale ed organizzativa e non una tattica- perché dobbiamo sempre ricordarci che le promozioni hanno risposto alla richiesta di risparmio delle famiglie italiane sempre più forte in questo contesto di prolungata crisi, e sarebbe pertanto sbagliato considerarle un errore. Ma la crescita della pressione promozionale è anche frutto della sempre minore rappresentatività dei prezzi normali di vendita a scaffale dei prodotti: vi sono categorie- l’olio d’oliva, il tonno in scatola solo per citare due esempi- dove la pressione è arrivata a livelli tali da farci chiedere se abbia senso o meno avere il prodotto se non in promozione. Questa situazione è a mio avviso frutto a sua volta delle regole contrattuali in vigore nella gran parte della catene della GDO italiana, dove il gran numero di livelli di sconti e condizioni ha reso via via sempre più complicato la gestione dei prezzi di vendita, con l’effetto ultimo di rendere difficile il controllo dei margini per la GDO e complicare agli occhi del cliente la percezione del reale valore dei prodotti, sminuendo così anche l’efficacia di richiamo della promozione stessa.

Quindi solo lavorando a stretto contatto con Compralo il nostro Promozionalo potrà migliorare la qualità del proprio lavoro, anche nella misura in cui sarà motivato a collaborare con Comunicalo e Conoscilo, i successivi due nani di cui parleremo subito.

4-COMUNICALO. I volantini, la televisione, la radio, la carta stampata, l’outdoor, i nuovi media: non manca nulla al coltellino da lavoro di Comunicalo. Peccato che difficilmente sappia calcolare l’efficacia reale di ciascuno dei media utilizzati e gestirli in modo sinergico. Le funzioni Marketing, oltre a essere talvolta come delle “riserve indiane” all’interno degli organigrammi della GDO, spesso anche al loro interno lavorano prive di una visione d’insieme, come se l’obiettivo fosse quello di fare rumore, anziché quello di parlare (armoniosamente) coi propri potenziali clienti. Non v’è da stupirsi che guardando tale panorama, ad esempio, George Plassat di Carrefour si interroghi sul senso del Marketing (di questo marketing, ribadisco)…

Anche il linguaggio pubblicitario è rimasto ancorato a vecchi slogan e stereotipi: si leggono titoli di volantini forse in grado di suggestionare la mitica casalinga di Voghera, ma ben distanti dalla esigenze dei consumatori moderni che chiedono più chiarezza e meno chiasso.

Una approfondimento merita l’argomento “volantino e volantinaggio”: premesso che il primo è lo specchio del lavoro caotico di Compralo e Promozionalo, possiamo però aggiungere che anche la fase di distribuzione- interamente nelle mani di Comunicalo- nemmeno utilizzando i tanto decantati strumenti di certificazione (abbiamo presente, tutti noi, quanti volantini riceviamo giornalmente nelle cassette postali?) può dirsi pienamente controllata, col rischio che tale inefficacia vanifichi gli impressionanti investimenti fatti dalla GDO proprio nei volantini (che assorbono mediamente il 70% dei budget pubblicitari).

Nonostante ogni anno si stampino in Italia più di 12 miliardi di volantini, e non vi sia un segno di rallentamento, ritengo che sia assolutamente opportuno un ripensamento di questa traiettoria che la GDO pare oggi non essere in grado di interrompere, nonostante risulti sempre più evidente trattarsi di una strada malridotta.

Per compiere reali passi in avanti sarà assolutamente necessario che Comunicalo chiami in suo (e nostro) aiuto il tanto bistrattato Conoscilo.

5-CONOSCILO. “Mettere il cliente al centro” è da anni uno dei must dichiarati dalla GDO ed oggetto di  numerosi workshop e convegni. “Mettere al centro il cliente” dovrebbe significare in primis costruire attorno alle sue esigenze i nostri negozi- in termini di assortimenti, prezzi e servizi- ma nella realtà la tentazione cui tanti retailers non sanno resistere è quella di mettere il cliente al centro… di un fantomatico bersaglio, cercando di colpirlo con promozioni di tutti i tipi, spesso molto distanti dai suoi reali desiderata. L’ambito promozionale è infatti il regno delle attività mass market: pur disponendo di una ricca serie di dati loyalty, la maggior parte degli operatori del settore pare finora non essere stata in grado di valorizzare tale patrimonio di conoscenza dei comportamenti d’acquisto dei clienti.

Sia ben chiaro che non si intende qui sostenere che i soli dati loyalty siano in grado di disegnare un profilo perfetto della clientela, ma è certo che sia molto meglio lavorare perlomeno su aggregati di clienti (profili/cluster), piuttosto che trattare i clienti come fossero una sola cosa. Un cliente alto frequentante, ad esempio, sarà certamente in grado di apprezzare maggiormente attività promozionali nei reparti freschissimi rispetto a un cliente a bassa frequenza e che magari si reca nel punto vendita solo in occasione delle promozioni più aggressive… I dati loyalty permettono anche di verificare il reale appeal delle singole meccaniche promozionali, ma anche in questo caso spesso si preferisce ignorare tali dati per non mettere in discussione quei calendari e quelle dinamiche promozionali che nascono dall’incontro tra GDO e IDM e che ben poco si preoccupano del cliente finale e che raramente effettuano obiettive valutazioni ex post dei risultati (analizzando l’impatto delle promo non solo sul prodotto, ma sull’intera categoria o sul carrello).

Se una reale presa di consapevolezza del valore dei dati loyalty pare paradossalmente ancora lungi dal venire, ecco già che si affermano nuove “illusioni”.

L’ultima è legata la fenomeno “social”: così quasi tutte le insegne delle GDO aprono pagine su Facebook, twittano come il più compulsivo degli adolescenti, ma senza avere ben chiaro, a mio avviso, che la prima dimensione “social” è data dal punto vendita, dalla possibilità di innescare in quel contesto una reale e positiva relazione col cliente, guardandolo negli occhi e rispondendo alle sue domande e gestendone le eventuali lamentele e criticità.

Non sarò certamente io a disconoscere l’importanza delle attività di social marketing, ma questo non significa illudersi che una corretta gestione di tali ambiti sia in grado di colmare lacune o mancanze della propria politica commerciale o del punto vendita.

E’ pertanto necessario dare centralità alle funzioni Marketing rendendole parte attiva delle dinamiche aziendali: solo in questo modo la GDO potrà tornare a parlare alla propria clientela, recuperando anche quella capacità di ascolto che pare essersi persa nel rumore da lei stessa provocato.

6-TRASPORTALO. La logistica è da molti considerata come una “monade” leibniziana, ovvero come un territorio a sé stante, con proprie regole, e per questo motivo i progetti di ottimizzazione nascono e vengono spesso gestiti all’interno delle strette (e alte) mura della medesima funzione. Nella realtà sono convinto che anche l’efficienza ed efficacia della logistica passi, anzi scaturisca, da una corretta gestione degli assortimenti, ovvero da una loro calibratura sulla realtà ( quantitativa e qualitativa) della rete vendita. Fino ad oggi si è provato a ottimizzare tale ambito- addirittura pensando di trasformarlo in una fonte di redditività per chi gestisce affiliazioni…- esternalizzando, o incentivando un proliferare di Cedi e sotto-Cedi della cui singola efficacia mi permetto di dubitare, almeno a giudicare dall’impatto sui conti economici dei costi logistici e dalla numerose criticità che vivono i punti vendita (anche se, a onor del vero, dovremmo aggiungere che l’attività promozionale, fatta di picchi di consegna e successive rimanenze, certamente non aiuta…).

L’argomento meriterebbe certamente più spazio, ad esempio per affrontare il tema dei prodotti freschissimi (pensiamo all’ortofrutta) e alle insidie del “chilometro zero” (difficilmente gestibile in base all’attuale struttura della supply chain nella GDO), ma mi riprometto di tornarne a parlarne in modo più approfondito in futuro.

Ciò che è certo è che Trasportalo non dovrebbe mai lavorare da solo, anzi dovrebbe essere coinvolto in modo più attivo dalle altre funzioni, che farebbero meglio a non vedere la Logistica come un corpo esterno (o addirittura estraneo) al proprio business.

7-MOTIVALO. Il personale dovrebbe essere un protagonista del punto vendita (anche se parliamo di vendita non assistita): per questa ragione Motivalo dovrebbero sempre lavorare a stretto gomito con tutti gli altri compagni. Anche su questo fronte però,  alla grande attenzione per le divise e altri aspetti “estetici” del negozio spesso non corrisponde una reale valorizzazione del personale inteso come terminale di contatto col cliente. Per intenderci: giustamente la maggior parte degli operatori della GDO investe notevoli risorse nella continua formazione professionale del personale, ma la vera lacuna, a mio avviso, è spesso data, dal mancato coinvolgimento delle risorse umane nelle politiche di insegna, spesso subite più che conosciute realmente. Così capita di frequente che il cliente non trovi nel personale di vendita quel supporto che si attende, venendo spesso rimandato ad altri luoghi (come il box informazioni, vero e proprio “ombelico” del negozio), vivendo la medesima sensazione che si prova- a chi non sarà capitato almeno una volta?- di avere fatto la fila di fronte a uno sportello INPS o delle Poste per poi scoprire di doversi rivolgere ad altro sportello o ufficio…

I retailers dovrebbero in questo senso incentivare un approccio bottom-up, ovvero una generazione dal basso di idee e progetti, coinvolgendo maggiormente coloro che vivono in prima persona la realtà del negozio insieme al cliente. Alcune personali esperienze mi danno la certezza che si tratta di un patrimonio ai più sconosciuto, ma che potrebbe rivelarsi quanto mai strategico per la gran parte degli operatori del settore: potrebbero così scoprire che i progetti migliori non nascono da impeccabili presentazioni in PowerPoint ma  da una chiacchierata con un repartista o un addetto al banco taglio o una cassiera.

 

In conclusione: non cerchiamo perfide Regine da incolpare per la situazione attuale e non restiamo in attesa di Principi che ci risveglino. Rimbocchiamoci invece le maniche e iniziamo a vincere le ingannevoli convinzioni di un passato oramai irrecuperabile o di un futuro che non è mai arrivato, riscoprendo l’ABC del commercio, senza andare troppo lontano, scavando magari nella storia delle nostre aziende e guardando negli occhi i nostri clienti: come i sette nani della fiaba saremo così in grado di estrarre ancora pietre preziose dalla pur dura roccia.

 

Ammissione finale:

C’è una forzatura nel parallelo con la fiaba: è evidente a tutti che la GDO non sia bella come Biancaneve 🙂

 

Daniele Cazzani

Responsabile Marketing e Comunicazione – Ipermercati Pellicano – Lombardini Holding S.p.A.

@danielecazzani

L’ultimo miglio del #volantino

volantini gdo

Venerdì scorso si è tenuta a Parma la seconda edizione del convegno “Le nuove frontiere del volantino” organizzato da #Nielsen e Università di Parma.

In sintesi alcuni dei dati più interessanti emersi:

  1. la prolungata crisi che stiamo vivendo ha modificato le abitudini di consumo e d’acquisto degli Italiani: si compra meno, solo l’essenziale (senza stoccarsi di prodotti), spostandosi su format di vendita più convenienti (discount e specialisti drugstore) e comprando sempre più prodotti a marchio privato;
  2. la pressione promozionale continua a crescere, arrivando a sfiorare il 30%; questo dato è sostanzialmente identico per leader e follower di categoria e formato di vendita;
  3. cresce fino  al 23,7% anche la pressione promozionale dei prodotti a marchio privato;
  4. per il combinato disposto dei primi 3 punti diminuisce la fedeltà al negozio e alla marca;
  5. le principali aziende del largo consumo nel 2012 hanno disinvestito dall’advertisement e dirottato risorse sulla promozione prodotto/prezzo.

Nonostante l’aumentata pressione promozionale il 2012 ha registrato un calo dei consumi sia a valore (-1%) che a volume (-1,5%), con punte differenziate in funzione del formato (in grande difficoltà gli ipermercati).

Il volantino non è percepito dai clienti/consumatori come strumento di aiuto alla spesa, ma ancora come strumento di spinta al consumo.

Qualche operatore del settore ha detto che il volantino è lo strumento di ingaggio tra insegna e cliente, ma la sensazione è che sia ancora più che altro strumento di ingaggio tra industria e GDO, in base ad arcaici approcci relazionali e commerciali che rischiano di essere sempre più inadatti al nuovo contesto.

La sempre maggiore diffusione dei device mobili e la sempre maggiore propensione dei clienti alla multicanalità dovrebbe comportare uno switch di risorse dalle promozioni mass market a mirate promozioni basate sui dati fidelity, ma anche su questo fronte le resistenze da vincere paiono essere davvero molte…

Sempre parlando del volantino- che assorbe mediamente il 70-80% del budget pubblicitario nella GDO- l’attenzione è stata posta sul tema della qualità della distribuzione porta a porta, cui si affidano tutti gli operatori della GDO, avvalendosi di una delle tante aziende di un settore in cui sono presenti tante, troppe imprese senza struttura e organizzazione e che fanno affidamento solo sulla richiesta/necessità di tante catene di comprimere al massimo i costi del servizio (a fronte di un costo medio di 0,03 euro a copia, vi sono casi in cui il servizio di distribuzione viene offerto a tariffe di 0,015 euro a copia…) senza preoccuparsi della qualità dell’ultimo passaggio, rischiando così di vanificare quell’80% di investimento.

Premesso che il futuro vedrà certamente una sempre maggiore importanza (e centralità) del volantino digitale– che dovrà però offrire contenuti arricchiti rispetto al cartaceo- visto che già oggi almeno il 50% dei consumatori consulta il volantino anche sui siti web o le app delle diverse insegne, è emerso come cruciale il tema della qualità della distribuzione.

Sono oggi disponibili sul mercato società che effettuano (per conto terzi) attività di controllo campionario sulle distribuzioni eseguite da altre società, ma vi sono anche nuovi strumenti che permettono di “certificare” la distribuzione, tramite la tracciatura satellitare e la possibilità di personalizzare il volantino con codici alfanumerici univoci in fase di stampa.

Senza contrapporre il metodo tradizionale alle nuove tecnologie, dobbiamo notare che anche la distribuzione con tracciatura gps- il cui costo è circa il triplo rispetto ai valori sopra indicati- può al massimo certificare l’avvenuta consegna in una certa cassetta postale o condominiale. Ma il vero problema è proprio nella cassetta postale e condominiale: ognuno di noi, quotidianamente, deve fare i conti con la propria cassetta postale invasa da comunicazioni pubblicitarie (negozi alimentari, agenzie immobiliari, negozi di arredamento, offerte di artigiani, ecc) cedendo talvolta alla voglia di sbarazzarsi di tutta quella carta non richiesta. La situazione ovviamente peggiora se pensiamo alle cassette pubblicitarie condominiali, dove basta la volontà e determinazione di un singolo per eliminare in un colpo solo chili di carta (di volantini).

Nulla e nessuno può ad oggi certificare l’avvenuta consegna del volantino nelle mani del nostro cliente (reale o potenziale che sia).

Anche per questi motivi la strada da percorrere sarà quella di personalizzare le offerte, facendo convergere la sempre maggiore attenzione del cliente alla qualità dell’offerta (in termini di prodotto, prezzo e servizi proposti) e la disponibilità di nuove tecnologie- che saranno via via sempre più diffuse e utilizzate- con le strategie degli operatori della GDO.

La sfida sarà mettere al centro delle proprie strategie il cliente per costruire attorno alla sua domanda (di qualità, convenienza e servizi) una coerente offerta (non solo commerciale, ma anche esperienziale e valoriale).

#Discount 3.0: il futuro del #discount in una società in evoluzione

VIGNETTA 1

LO STATO DELL’ARTE

In una società che sta vivendo una profonda evoluzione sociale che impatta fortemente anche sugli stili di vita e di consumo, è necessario prendere atto che il discount del futuro potrà e dovrà essere ben diverso da quello che finora abbiamo conosciuto, e questo nonostante negli ultimi anni questo format abbia registrato indubbi successi, incontrando il favore dei consumatori (in questo certamente aiutato dalla contingente situazione di crisi che- almeno questo è l’auspicio dei più- dovrà prima o poi terminare anche nel nostro Paese, ma i cui effetti sulla struttura della nostra società potranno sopravvivere ancora per anni).
In Italia la crescita del discount (sia a valore che a volume) sta rallentando nei primi 3 mesi del 2012 come testimoniano i dati SymphonyIRI

iri discount 13 e 12

iri volume e valore discount

Se allarghiamo la prospettiva agli ultimi anni in effetti possiamo notare come l’incremento della rete non abbia coinciso con un aumento della quota sui consumi LCC che resta di poco superiore al 10%.

quota discount

La spiegazione di questa mancata correlazione tra quota e crescita della rete è in parte imputabile alla progressiva saturazione del mercato (non solo del format discount ovviamente): i dati esposti possono quindi essere visti come indicatori di una minore “qualità” delle nuove aperture (scelta di location e bacini con potenziali poco più che discreti in quanto già presidiati da altri competitors o formati).

Come detto, la crescita degli ultimi anni è stata certamente “aiutata” dal contesto economico, ma sarebbe improprio dire che i discount ne abbiano semplicemente “beneficiato”, dato che tutti i principali players del settore hanno messo in campo strategie di evoluzione sul fronte dell’offerta e dei servizi che hanno saputo incontrare il favore dei consumatori in un momento tanto delicato. Ma è indubbio, come testimoniano numerose indagini, che i discount siano per molti consumatori un “canale rifugio”, ovvero un modo per fare fronte al contesto modificando le proprie preferenze di spesa alla ricerca di un maggiore risparmio.

strategie risparmio nielsen

strategie risparmio nielsen 2

In sintesi, qual è stato il percorso evolutivo dei discount? Senza soffermarsi in eccessive precisazioni (troppe e con ben distinte strategie sono le insegne operanti sul mercato italiano), voglio suddividere la vita dei discount in tre principali passaggi:

  1. PRICE! Fase caratterizzata da una forte enfasi sui prezzi, con layout molto semplici, un assortimento non particolarmente ampio né tantomeno profondo, e nessun tipo di servizio;
  2. MORE GOODS, BUT ALWAYS CHEAPER! Un assortimento più ricco– c’è chi intraprende, più o meno prudentemente, la strada delle private label e chi invece inserisce le marche leader– i punti vendita divengono meno “austeri” e si iniziano attività di      comunicazione di tipo promozionale più classiche, abbandonando in alcuni casi l’approccio puro every day low price;
  3. SERVICES AND PROMOTIONS! Si introducono i reparti freschi e assistiti, per aumentare il      servizio alla clientela ampliando così la sovrapposizione competitiva rispetto ai supermercati; si arricchisce l’offerta con prodotti non food– tale aspetto per alcuni retailers diviene addirittura la principale value proposition per il cliente- e aumentano gli investimenti in comunicazione, soprattutto promozionale.

tabella discount

Partendo dalla considerazione che la crescita di questi anni è stata aiutata anche da una certa distrazione e sufficienza con la quale gli altri formati (supermercati in primis) e l’Industria hanno osservato l’evoluzione in atto nei discount, la domanda da porsi è quale debba essere il prossimo passo del format.

GLI ERRORI DA EVITARE E IL FUTURO DISCOUNT 3.0

Il formato quindi è cresciuto, sia per l’evoluzione del contesto esterno ma soprattutto per la capacità che ha avuto di modificarsi (e migliorarsi)nel corso degli anni. Il rischio che si corre oggi, però, è che il percorso evolutivo del formato inizi a somigliare troppo a quello dei supermercati…

Per inseguire i volumi, infatti, negli ultimi tre anni la pressione promozionale  è aumentata, soprattutto in alcuni comparti (pensiamo ai freschi e al freddo, quelli in qualche modo più esposti alla concorrenza trasversale degli altri formati, dove la pressione media è raddoppiata in soli 2 anni). Tale scelta porta con sé delle ovvie conseguenze: per i discount in cui la quota del prodotto di marca è ancora elevata, ciò comporta una pericolosa erosione dei margini;  per i discount in cui la marca commerciale ha un ruolo cruciale, un’eccessiva pressione promozionale rischia di alterare la strategia di costruzione della scala prezzi, sia quella reale che- cosa ancora più importante- quella percepita dal consumatore/cliente con conseguenti rischi di disorientamento.

Ma al di là di queste ovvie considerazioni sarebbe sufficiente volgere lo sguardo agli altri canali- ipermercati in primis- dove la sempre maggiore pressione promozionale (pari oramai al 30%) non è andata di pari passo con un miglioramento dei volumi, anzi ha drogato il mercato trasformando i consumatori in cherry pickers seriali.

Riempire le cassette delle lettere di volantini potrebbe non essere la scelta migliore per il futuro...

Avendo ben presente questo quadro e le sfide del futuro, a mio avviso, il discount è in grado di disegnare nuove strade di crescita, che siano sostenibili non solo nel breve ma anche nel medio e lungo periodo.

Il primo passo da compiersi è pertanto perdere la mera connotazione di “canale rifugio”: il discount, senza perdere l’atout della convenience, dovrà compiere un percorso che lo porti a mettere al centro delle proprie strategie il cliente, ispirandosi- absit inuria verbis vista la diversità dei settori- a quanto fatto da Ikea, che ha investito  molte risorse sul cliente, sul miglioramento della sua shopping experience, su un’integrazione intelligente della propria offerta merceologica (pensiamo ai ristoranti) e su una serie di servizi e attenzioni che hanno lavorato non solo su aspetti tangibili (il rapporto qualità/prezzo dei propri prodotti è rimasto un must) quanto su elementi più intangibili, emozionali e sociali.

Ciò ovviamente non significa porre in secondo piano l’assortimento, che resta la variabile critica di partenza, quella attorno alla quale costruire la strategia.

Pertanto i discount dovranno usare strategicamente gli assortimenti attraverso un’accorta attività di category management- monitorando i nuovi stili di consumo e presidiandone intelligentemente le nuove tendenze- migliorando l’appeal del punto vendita, organizzando in modo più distintivo la “rappresentazione” della propria offerta merceologica (per citare un termine caro al Prof.Lugli dell’Università di Parma e ben spiegato nel suo recente libro “Troppa scelta”), facendo attività di branding sui propri marchi, dialogando coi territori per divenire il nuovo e vero proximity store (andando ben oltre mere attività di sponsorship) e implementando distintive attività di loyalty marketing che sappiano essere distintive e contribuire al branding d’insegna. Vediamo però rapidamente alcuni di questi punti, partendo dall’ultimo citato.

E’ oramai maturo il tempo che anche i discount varino attività di customer relationship management: il fatto che nei primi mesi del 2013 i comparti merceologici dei discount che stanno registrando i maggiori incrementi (in valore) siano il fresco e l’ortofrutta (rispettivamente +5,2% e + 11,7% in base ai dati InfoScan Census di SymphoniIRI) è un’ennesima spia di come parlare di fidelizzazione della clientela discount non debba più sembrare un’eresia.

Ciò non significa che sia sufficiente dotarsi di una carta fedeltà (i portafogli dei consumatori italiani ne sono già pieni…), quanto dotarsi di una strategia di relazione col cliente chiara e diffusa (ovvero condivisa da tutte le risorse umane e parte integrante di qualsiasi scelta dell’insegna), che parta dagli assortimenti e dai servizi e definisca percorsi di fidelizzazione e relazione nell’ambito dei quali siano chiari e dichiarati gli obiettivi dell’insegna e i benefici tangibili per il cliente, in un rapporto trasparente e che non può non tenere conto dell’approccio multicanale del consumatore italiano, oramai molto più attento e intelligente nella fase di acquisto e sordo alle sole voci dell’advertising tradizionale. Le risorse andranno pertanto dirottate dalla classica pubblicità e investite nella relazione con la propria clientela (reale o potenziale).

Ad esempio. Hanno ancora senso operazioni a premio con in palio set di padelle o altri utensili di cucina? Ci si è mai chiesti se tali operazioni costituiscono un effettivo valore per il cliente o non sono che un’appendice a una scelta di consumo del cliente determinata da altri elementi? E’ vero che spesso tali attività spesso per semplici “copia e incolla” anno dopo anno, per l’ossessiva analisi delle controcifre d’affari, ma mi chiedo provocatoriamente se abbia senso gestire le strategie commerciale di un discount come una fotocopisteria.

Sarebbe certamente più premiante investire in attività di special (social) promotion in grado di attivare in modo più dinamico i propri bacini d’utenza e clienti con effetti anche nel medio e lungo termine.

Anche sul fronte degli assortimenti, bisogna avere la capacità di seguire l’evoluzione della nostra società, abbandonando cliché e stereotipi del cliente-tipo che non hanno più motivo d’esistere.

Solo a titolo d’esempio citiamo tre dati che testimoniano, se ce ne fosse bisogno, l’emergere di nuove tendenze di consumo e la nuova struttura della società italiana:

  • a Milano il secondo cognome più diffuso è Hu;
  • 8,5 milioni di Italiani si dichiaranao vegetariani (nel 2000 erano 1,5 milioni);
  • il giro d’affari del cibo halal in Italia è di 5 miliardi euro.

Sapere leggere tali modifiche significa avere la capacità di porre sui propri scaffali il prodotto giusto proprio nel momento in cui il cliente lo sta cercando, acquisendo un vantaggio competitivo nei confronti degli altri retailers.

Questo arricchimento dell’offerta- in cui lo sviluppo della marca commerciale continuerà ad essere centrale- non dovrà però comportare la perdita della “sobrietà” degli scaffali, perché inflazionare i punti vendita di prodotti inutili è un errore già compiuto da altri formati che rischia di essere un groviglio da cui risulta poi difficile districarsi.

Contestualmente la comunicazione nei punti vendita dovrà divenire elemento centrale, per essere non tanto elemento di grido e distrazione per il cliente, quanto strumento guida nella lettura dell’offerta. Sfruttando i nuovi device a disposizione dei consumatori e il loro nuovo approccio all’atto d’acquisto, è ora possibile sviluppare attività di socializzazione degli acquisti, per non dimenticarsi di come il vecchio passaparola sia da sempre il più potente mezzo di comunicazione a nostra disposizione.

In tale ambito non si intende disconoscere il ruolo di traino che il non food può avere, ma è importante non correre il rischio che l’offerta non alimentare di carattere promozionale diventi distraente rispetto all’obiettivo principale. I discount trarrebbero sicuramente vantaggio, nel medio termine, dall’evitare di vendere cose inutili ai propri clienti…

In conclusione, riagganciandoci al tema della fidelizzazione è necessario prendere atto che non esiste più “IL” consumatore, ma migliaia di consumatori, che in questi anni stanno attuando una spending review dei propri stili di vita e di consumo.

Se i discount sapranno prendere atto di questa evoluzione e fare evolvere un approccio al mercato e un paradigma organizzativo che finora è stato certamente premiante, lavorando su assortimenti, relazione col cliente e strategie commerciali (scegliendo ad esempio se perseguire attività di edlp o hi-low o un chiaro- per il cliente- bilanciamento tra questi due estremi) è facile prevedere che tale format saprà affermarsi ancora di più negli anni a venire- erodendo quote a formati che faticano a cambiare pelle come ipermercati e supermercati- a prescindere da quale sarà il contesto economico contingente.

@danielecazzani

Mettiamoci al #lavoro per rilanciare (davvero) i #consumi

Livello di fiducia e livello dei consumi sono fortemente correlati, come evidenziato dal grafico sotto riportato elaborato dalla Commissione Europea (www.ec.europe.eu) su dati Eurostat (www.ec.europa.eu/eurostat) Banca Centrale Europea (www.ecb.int). Quello rappresentato è l’indice aggregato europeo, ma tale correlazione è dimostrata in tutti i principali Paesi in ambito UE.

consumi e fiducia

E’ pertanto evidente quindi come monitorare l’andamento della fiducia ci permetta di leggere anche l’andamento dei consumi.

Partiamo quindi dall’annuale indagine promossa da Nielsen, che ha recentemente certificato come il livello della fiducia nel nostro Paese sia tra i più bassi al Mondo, precedendo solo (in ambito europeo) Grecia, Portogallo e Ungheria, e abbia registrato, se possibile, un ennesimo peggioramento rispetto alle precedenti rilevazioni.

nielsen fiducia index

Dato che siamo soliti vivere quotidianamente tale situazione, questo dato non ci stupirà, ma credo sia necessario analizzarlo per definirne le determinanti, ovvero capire quali parametri influenzino la fiducia di un Paese per comprendere se e come sia possibile intervenire per modificare il sentiment dei consumatori/cittadini.

Innanzi tutto la crisi che stiamo vivendo non è diretta conseguenza della crisi dl 2007-2008, maturato in ambito prettamente finanziario (sub prime ecc.), quanto frutto di una diffusa situazione di incertezza e forte prudenza da parte di investitori e consumatori che si somma a una situazione di difficoltà dei bilanci dei principali Paesi dell’area euro (ad eccezione della Germania) che si trovano a non avere gli strumenti a disposizione per stimolare una ripresa dell’economia, dovendosi in primis preoccupare di rendere sostenibili nel medio e lungo periodo i propri livelli di deficit e indebitamento, nella maggior parte dei casi ben lontani dai parametri definiti da Maastricht e che tanti economisti oramai chiedono di superare in quanto non più adatti al nuovo contesto economico.

Senza entrare nel merito di queste ultime discussioni, il tema principale sul tappeto oggi è la crisi della domanda interna dei singoli Paesi, e in particolare modo dell’Italia. A conferma di quanto appena detto, ricordo come il 2012 abbia evidenziato per le nostre imprese livelli record nell’export, e ciò è avvenuto nonostante le enormi difficoltà che i nostri imprenditori devono affrontare: elevata pressione fiscale, eccesso di burocrazia, difficoltà di accesso al credito, incertezza sui tempi di pagamento (non solo da parte della pubblica amministrazione ma anche tra privati e connesse farraginosità degli strumenti legali a tutela) inefficienza nelle rete dei trasporti, inadeguatezza del mercato del lavoro e della struttura formativa (scuole e università) tanto per citarne alcuni.

Il vero problema del nostro sistema economico è però dato dalla continua discesa dei consumi interni, sia di prodotti finiti che semilavorati, sia in ambito b2c che b2b, come testimoniano anche i preoccupanti dati relativi ai primi mesi del 2013.

Come dicevo il calo dei consumi è correlabile al calo del clima di fiducia: è pertanto importante vedere quali ne siano le determinanti. Per procedere mi affido ancora una volta a uno studio della Banca d’Italia che ha monitorato alcuni parametri mettendoli quindi in relazione con un indice di fiducia misurato periodicamente dalla Commissione Europea

Trascurando altri parametri quali il livello dei corsi azionari (nonostante l’enfasi dato dai mass media a tali indici, nella realtà la bassa finanziarizzazione delle famiglie in Italia in particolare- rispetto agli Stati Uniti o ai Paesi anglosassoni- rende debole, o di breve periodo al massimo, il legame tra i due indici), mi concentro in particolare su quattro determinanti:

  1. posizione finanziaria;
  2. indice di disoccupazione;
  3. situazione economica generale;
  4. livello del risparmio.

Come i grafici sotto riportati dimostrano è il tasso di disoccupazione ad incidere maggiormente sul clima di fiducia dei consumatori, determinandone buona parte delle oscillazioni.

determinanti disoccupazione

Ciò detto è evidente quindi come la prima preoccupazione del Governo (quale che sia e sperando che prima o poi ci sia…) dovrebbe essere un forte intervento sul fronte delle imprese e del lavoro, mentre da mesi pur registrando continui peggioramenti nei tassi di disoccupazione- pensiamo soprattutto a quella giovanile o femminile in Italia, la prima attorno al 30% e la seconda anche oltre il 50%- l’attenzione più forte pare essere concentrata sul livello dello spread dei titoli di Stato nei mercati secondari o nelle nuove emissioni di titoli di debito.

Se si vogliono rilanciare i consumi è assolutamente prioritario intervenire sul fronte della lotta alla disoccupazione, non tanto attraverso risorse di diretta erogazione statale o stressando gli ammortizzatori sociali, quanto mediante un coraggioso, visionario, difficile ridisegno della nostra macchina statale (togliamoci dalla testa l’idea che basti un decretino o quale leggina per invertire la rotta), che permetta di liberare risorse a favore degli imprenditori e dei lavoratori (e quindi delle famiglie), dando così un concreto sostegno al livello di fiducia (e quindi ai consumi). Sarebbe invece illusorio pensare che sia sufficiente non rendere operativa l’entrata in vigore dell’aumento dell’IVA previsto a giugno, o mettere in campo interventi di piccolo cabotaggio, come l’attenuazione dell’IMU o contributi alle famiglie, sempre esigui e di dubbia efficacia; se questa fosse la strada scelta temo che fra pochi mesi saremo ancora costretti a registrare dati sempre più preoccupanti sulla disoccupazione e un clima di fiducia ancor più deteriorato, lasciando così che la spirale negativa continui ad accelerare la propria corsa, distruggendo ricchezze, speranze e il futuro del nostro Paese.

@danielecazzani

Grana Padano e Parmigiano Reggiano: il valore del brand, la filiera, l’export e i consumi interni

grana_padano
I dati relativi alle esportazioni di GRANA PADANO DOP e PARMIGIANO REGGIANO DOP registrano una costante crescita (data un incremento dei volumi sia sul mercato europeo, che statunitense e nei paesi emergenti soprattutto dell’area asitica).

italia_export_grana_parm_reggiano_totale_mondo

GRANA PADANO DOP e PARMIGIANO REGGIANO DOP si confermano pertanto due incredibili ambasciatori del Made in Italy agro-alimentare nel Mondo.

A fronte di questi dati incoraggianti sul fronte interno i consumi- principalmente concentrati nei canali moderni (superette, super e iper)- stanno conoscendo da alcuni anni una flessione.

consumi formaggio duri

Mi chiedo provocatoriamente se tali dati negativi siano in qualche modo imputabili anche alle scelte di advertising dei rispettivi Consorzi. Gli spot televisivi di queste due eccellenze italiane, si sono infatti contraddistinti negli ultimi anni per scelte spesso discutibili: dallo spot “Pa-pa-pa Parmigiano” (basato su una canzone dei Ricchi e Poveri  http://www.youtube.com/watch?v=nfitHk29H4Q) al famoso “Grana Padao” (spot con ragazza brasiliana) o ancora al più recente “non invitare a tavola uno sconosciuto” (http://www.youtube.com/watch?v=UDMJwO-IIwY). Per non parlare degli spot a sostegno del consumo di Grana Padano a supporto delle zone terremotate dell’Emilia: vista l’importanza del messaggio e la gravità della situazione, era certamente possibile realizzare un messaggio più coinvolgente ed empatico (magari con meno protagonismi…).

Non metto certamente in dubbio l’originalità e “simpatia” di alcune di queste idee pubblicitarie, ma mi chiedo come (e se) questi spot siano in grado di portare al consumatore (italiano o straniero che sia) la QUALITA’ e la STORIA che questi due prestigiosi marchi racchiudono e, per converso, quanto gli incoraggianti risultati dell’export siano invece imputabili a una forte riscoperta del made in Italy nel Mondo e a una migliore (più accorta e selezionata) gestione dei canali di vendita.

A tal proposito una nota finale. Nei comunicati dei Consorzi si enfatizzano spesso i risultati conseguiti in termini di aumento di volumi di produzione (ed export, vedi sopra), ma mi sembra vi sia un minore attenzione per la componente “qualitativa” dell’offerta: non è forse vero che la tremenda pressione promozionale che questi due prodotti soffrono all’interno dei canali della distribuzione moderna ne ha nel tempo deteriorato il valore agli occhi del consumatore (almeno in parte)? Sono convinto che le nostre eccellenze debbano essere tutelate preservandole da certi agoni competitivi utili a gonfiare i volumi (ma non sempre i conti economici dei piccoli produttori e allevatori alla base della catena del valore che andrebbero invece tutelati).

Daniele Cazzani

Private Label – Il difficile rapporto tra copacker e retailer

A gennaio in occasione di Marca 2011 (Fiera Bologna) ho assistito a un interessante convegno sulla marca commerciale in Europa, ascoltando le interessanti testimonianze dei partecipanti al dibattito non ho capito se la marca privata è lo strumento per migliorare i margini delle categorie– sempre più compressi tra l’estenuante braccio di ferro con l’industria (vedasi tema aumenti materie prime) e la pressione promozionale che, frutto oltre che della crisi della maggiore concorrenza nei territorio, sembra essere l’unica leva per aggiudicarsi fette del sempre più striminzito paniere di spesa del consumatore italiano (abbiamo letto tutti cosa dicono Istat e altri istituti  di ricerca a proposito…)- oppure è una risposta alle nuove esigenze del consumatore, sempre meno legato alla marca-industriale e alle sue promesse, e sempre più razionale nei comportamenti d’acquisto (per lo meno in ambito alimentare e grocery). E’ mia convinzione che le private label possano essere una delle chiavi di volta per la ridefinizione dei rapporti tra insegna e cliente– e in questo ambito Mercadona testimonia quanto tale scelta possa essere premiante- mentre il dibattito vagamente “mercatista” tra distributore e copacker cui ho assistito a Bologna mi fa temere che in Italia siamo ben lungi da tale approdo,

La modifica degli stili di consumo, la sempre maggiore attitudine alla multicanalità dei consumatori oltre che, ca va sans dire, la crisi stanno determinando un profondo mutamento dell’ambiente in cui si muovono retailers e copackers. Non tenere conto delle modifiche ambientali è forse il peggiore tra gli errori che si possano compiere!

Il tema vero a mio avviso è il rapporto tra copacker e distributore. Vedendo le dinamiche degli stand di Bologna, sentendo alcuni partecipanti, ho avuto la sensazione che il copacker resti per il distributore un fornitore tout court. Non un partner. Anche le rivendicazioni, emerse nel dibattito, da un lato dei limiti “tecnologici” di tanti fornitori (ad esempio la mancanza di un listino prezzi in formato elettronico, che in effetti è risibile nel 2011, ma che non credo possa essere considerato IL problema) quanto della rigidità da parte dei distributori a farsi carico di parte degli aumenti, lasciandone l’onere maggiore al copacker di turno- alcuni dei quali hanno denunciato di rischiare un default- hanno evidenziato quanta sia la distanza tra i due attori.

Si è detto, non so quanto convintamente, che bisogna partire dal cliente– “el jefe” direbbero i mercadonisti- per tarare assortimenti, offerte ecc. Se siamo convinti di questo, credo non vi sia altra strada che lasciare la logica del muro contro muro per definire un reale patto tra copacker e distributore: avremmo da una parte il distributore che possiede i dati sui comportamenti d’acquisto dei clienti (attenzione non dei consumatori, ma dei PROPRIO REALI clienti), dall’altra l’industria copacker che col proprio know how, e la capacità di ricerca e innovazione potrebbe divenire lo strumento per portare sugli scaffali i prodotti che il cliente/consumatore chiede.

In caso contrario il rischio è che i distributori farciscano i propri assortimenti di private label anziché di prodotti dell’industria di marca, con l’unico risultato di disorientare ancor di più il cliente di fronte a scaffali che iniziano sempre più ad assomigliare a versioni merceologicamente moderne della Babele biblica!