APRIAMO AI CLIENTI LE PORTE DELLA C-SUITE

E’ aspettativa diffusa che il livello dei consumi impiegherà alcuni anni per tornare a livelli pre-Covid e, verosimilmente, con velocità diverse in funzione del settore e del Paese.

Concentrandoci sullo scenario italiano, pur volendo fare professione di ottimismo e accogliere quindi anche gli scenari migliori, non possiamo non considerare che a cambiare sarà anche il mix e i canali di consumo (scegliete voi quale proiezione sulla crescita dell’e-commerce preferite…).

Ritengo che il Retail debba sfruttare quanto imparato nella navigazione di questo primo anno di convivenza col Covid per disegnare il proprio futuro, partendo prima di tutto dalla propria organizzazione interna.

Servono oggi nuove competenze e organizzazioni più flessibili, chiamate ad eseguire rapidamente azioni che siano misurabili nel breve e permettano agili cambi di direzione.

La crisi ha riportato al centro dell’attenzione il cliente e con esso il customer service, così come il ruolo dei social come connettori relazionali coi propri clienti e il ruolo del digitale a servizio del cliente (la parola omnichannel finalmente tradotta in realtà) solo per citare alcuni esempi.

Il fatto che abbia ripetuto più volte la parola “cliente” non è un caso.

Il nuovo retail deve essere orientato al cliente più ancora che al prodotto o servizio offerti.

Affinché ciò avvenga, per tornare al punto centrale, anche le organizzazioni devono essere orientate al cliente, spingendo sulla creazione di un Chief Customer Officer che porti nella C-suite la voce, i bisogni e i sogni dei clienti.

E’ il momento che un altro mantra degli ultimi anni, ovvero customer centricity, divenga realtà.

@danielecazzani

IL LUNGO INVERNO DEL RETAIL (MarkUp n.296)

Nello scorso autunno quando si iniziava a parlare di “new normal” ci siamo purtroppo accorti che di “normal” vi era ben poco: dapprima i coprifuoco serali, quindi il carosello dei colori delle regioni italiane, poi la chiusura dei centri commerciali nel week-end e della ristorazione, hanno avuto l’effetto di ravvolgere le lancette del tempo riportandoci laddove avevamo sperato di non trovarci più.
Una lunga sequenza di avvenimenti cui si è sommata una drammatica frenata nei consumi (sopratutto non alimentari) e un riequilibrio nei canali di vendita- con la portentosa accelerata dell’e-commerce- che ha ridisegnato il panorama del Retail.


Un riassetto destinato a non essere recuperato.

Il Retail infatti non può permettersi il lusso di rinchiudersi in una caverna, in letargo, in attesa che tutto torni come prima.
Quanto successo- inutile nascondersi dietro il semplicistico detto che ogni crisi è un’opportunità- ha messo e metterà a rischio tante realtà e che ha già avuto l’effetto di sconvolgere i piani di mid-term di tanti Retailers.
Questa è forse la prima volta nella storia moderna del Retail in cui una profonda rivoluzione non è dettata da un’innovazione tecnologica quanto da un elemento esogeno e, per questo, ancora più difficile da gestire, proprio perché impatta sui comportamenti di acquisto, sulla psicologia del consumatore, sul ruolo dello store fisico e via dicendo. Una vera e propria sfida che dovrebbe essere affrontata in primis partendo dalle organizzazioni, dalle persone e dai propri clienti.
Certo, non è detto che mettere al centro delle proprie strategie il cliente e la sua esperienza risolva da domani tutti i problemi, ma sarebbe la scelta corretta per non farsi trovare impreparati all’arrivo della tanto auspicata primavera.

@danielecazzani

IL RETAIL DEVE FARE ROTTA VERSO IL CLIENTE IN QUESTO MARE INCERTO (MA NON CHIAMIAMOLO DESTINO…)

A fine anno si è soliti fare il consuntivo di quanto accaduto nei mesi precedenti e le previsioni (che spesso confondiamo coi nostri buoni propositi) per l’anno che verrà.

Il 2020- con la maledetta comparsa nelle nostre vite del coronavirus- ci ha insegnato come le previsioni (sia nell’area personale che in quella professionale) siano deboli come foglie al vento dell’autunno in un contesto in continuo, inarrestabile e imprevedibile mutamento. Ovviamente questa consapevolezza e quanto successo- ovvero i trend immaginati dai guru del marketing spazzati via come carta straccia…- non devono portare il Retail ad assumere una posizione attendista o, peggio ancora, fatalista.

Oggi più che mai è necessario definire delle proprie strategie per affrontare questo difficile momento, esattamente come di fronte a una tempesta in mare aperto la soluzione non è attendere di vedere dove ci porteranno le correnti- scelta perdente a prescindere!- quanto disegnare una propria rotta e scegliere le vele più adatte e, nel contempo, chiamare alla massima unità d’intenti tutto l’equipaggio.

Nel delicato equilibrio di una barca nella tempesta o di un’’organizzazione in un momento di crisi, lo scollamento di singoli elementi può risultare fatale.Ripartiamo quindi dalle persone: mettendole a centro delle strategie, coinvolgendole nelle scelte, senza raccontare la favola del “un pò di pazienza e tutto tornerà come prima”, ma condividendo in modo trasparente le difficoltà e le opportunità che questo momento offre.

Come ha insegnato la rivoluzione dello smart working a tante organizzazioni si può lavorare in modo diverso e anche migliore, anche quando le scelte sono forzate da elementi esterni.E’ proprio al contesto esterno che bisogna avere il coraggio di guardare, per capirne il nuovo assetto.

Devo però confessare che termini come “new normal” personalmente non mi appassionano, perché troppo spesso ci si concentra solo su alcuni degli effetti di superficie che la crisi innescata dal Covid-19 ha comportato come la crescita dell’e-commerce. Guarda caso solitamente l’attenzione si concentra sugli elementi positivi e non ad esempio quelli negativi come l’aumento dei lavoratori in cassa integrazione, la riduzione della propensione al consumo e l’inasprimento delle differenze sociali…

Senza quindi distogliere lo sguardo dalla realtà che lo circonda credo il Retail abbia oggi l’opportunità- ma vorrei dire l’obbligo- di tornare a focalizzarsi su due aspetti fondamentali.Innanzi tutto i propri clienti. E’ giunto il momento che una parola quale “customer experience” si traduca in reali progetti. I retailers devono compiere un grande sforzo per disegnare le journeys dei propri clienti (il plurale è già indice della difficoltà del compito in un mondo omnichannel…), misurare l’efficacia della customer experience che offrono (quanti ancora oggi non misurano l’NPS, che possiamo considerare un primo tassello in questa direzione?), e continuare a migliorarla e arricchirla- ascoltando i feedback dei propri clienti e osservando la concorrenza e il mercato anche fuori dai confini del proprio settore- in un processo di learning by doing che coinvolga appieno tutte le funzioni aziendali.

Solo un questo modo, mettendo al centro dell’attenzione il cliente, il Retail potrà affrontare il nuovo contesto dando un senso alla sua presenza brick & mortar laddove le relazioni tra persone possono fare la differenza.

Il secondo aspetto è legato alle promozioni. Penso sia giunto il tempo di ridefinirne il ruolo: non intendo con questo certo dire che il prezzo non sia più un driver importante nelle scelte dei consumatori, ma prezzo non equivale a promozione. Così come promozione non per forza deve equivalere a taglio prezzo. Anche in questo ambito il Retail è chiamato a innovare passando da approcci mass market ad approcci tailor made, con promozioni (che possono essere intesi anche come nuovi servizi) ritagliate sui bisogni dei singoli così che siano davvero rilevanti e orientanti nelle scelte di consumo.

In conclusione, se nemmeno questa crisi avrà avuto la forza di far cambiare strategie a tanto Retail temo che nei prossimi mesi vedremo sempre più saracinesche abbassate. In quel (drammatico) caso potremo forse dare la colpa anche a qualche DPCM, ma non certo al solo destino…

@danielecazzani

LA ROULETTE DI MEZZANOTTE E LA FEDELTA’ IGNORATA

Sono ancora molte le incertezze su quali saranno i lasciti di questa prolungata crisi, ma non c’è dubbio che uno di questi sarà l’accelerazione dell’e-commerce anche nel grocery (a tutt’oggi ancora una cenerentole del commercio online, pur avendo registrato incoraggianti tassi di crescita negli ultimi anni).

Oggi uno degli argomenti più diffusi nelle chat sui social o nelle call tra colleghi (in forzato smart working da settimane) è la ricerca di trucchi e suggerimenti per trovare uno slot nelle consegne a domicilio dei pochi player della grande distribuzione (o affini) che offrono questo tipo di servizio.

Questa esperienza può essere davvero frustrante: appostamenti notturni per intercettare aggiornamenti delle pagine web con la speranza che la fortuna sorrida.

Spesso e volentieri si tratta di un’illusione perché il gran numero di richieste rende probabilisticamente difficile trovare uno slot. Gli stessi operatori hanno ammesso di essere rimasti spiazzati dall’improvviso aumento della domanda (in un settore in cui l’offerta era ed è ancora limitata, anche territorialmente); questo spiazzamento è ingloriosamente visibile a tutti.

L’acquisto online è così oggi un’autentica roulette, dove in palio non ci sono vincite milionarie o raddoppi della posta, ma più semplicemente… qualche cesto di spesa.

Mi chiedo però se, al di là di generiche scuse per i possibili disservizi (in realtà limitati) e (obbligatoriamente) vaghe promesse sulla volontà di migliorare e aumentare l’offerta, i manager della GDO si siano messi nei panni di un loro cliente.

Soprattutto nei panni di un cliente fedele. Magari uno di quelli che tra i primi ha creduto al servizio, nonostante il costo del trasporto, la limitatezza dell’offerta online e qualche farraginosità nelle prime versioni dei siti web…

Oggi quel cliente si trova a sgomitare con tanti altri che, in questo periodo di lockdown, si sono orientati verso l’e-commerce come soluzione tattica, magari per paura degli assembramenti dei superstore e ipermercati.

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[ nella foto: uno degli oggetti del desiderio nel periodo di lockdown: un furgoncino di Esselungaacasa.it 😉 ]

Qualcuno penserà: tutto normale, tutto corretto. E’ la democrazia della GDO: il servizio, lo stesso servizio è offerto a tutti i clienti (o, perlomeno, ai più fortunati).

Vengo così al secondo punto. La fedeltà del cliente è o no importante? Deve o non deve essere premiata? A parole tutti direbbero “certamente” ma nella realtà quanti sta accadendo è la dimostrazione che la fedeltà dei clienti è stata in questo frangente bellamente ignorata.

Dirò qualcosa che farà storcere il naso a tanti: non tutti i clienti sono uguali. Per riconoscere questo fatto bastano due ingredienti: coraggio e numeri. Il primo dovrebbe risiedere nella mente e nei cuori dei manager della GDO, i secondi nei tanto citati bigdata di cui dovrebbero alimentarsi i programmi di CRM e loyalty,

Premiare i migliori clienti dovrebbe essere un imperativo per gli operatori della GDO lungimiranti, perché la presunta democratizzazione dell’offerta (non tanto in termini di prodotti quanto di servizi) rischia di essere una risposta insoddisfacente, una livella che abbassa la qualità del servizio offerto, disconoscendo l’importanza della personalizzazione del servizio che- oramai sono decine le ricerche che lo dimostrano- è uno degli ingredienti più forti della customer experience e della fedeltà dei clienti.

Pensiamoci bene. Cosa fanno oggi gli operatori della GDO per ringraziare i migliori clienti? Hanno forse questi accesso a cataloghi riservati, servizi esclusivi ecc. Solitamente no: quanto hanno diritto è misura del loro livello di fedeltà (punti uguali sconti o premi ad esempio). Tutto qui. Troppo poco. Oggi più che mai.

Questo momento di forte criticità- un momento, lo ricordavo in altro articolo, che mette a rischio proprio la fedeltà dei consumatori “costretti” a frequentare nuovi punti vendita rispetto alla loro consuetudine- poteva (doveva) essere il momento per dire ai migliori clienti: noi ci siamo e vogliamo farti capire quanto tu sia importante per noi.

Un esempio di questo riconoscimento poteva essere ad esempio un accesso privilegiato ai servizi di consegna a domicilio.

Invece, per quanto mi è dato sapere ed esperire, nulla di tutto ciò è stato fatto: anche i migliori clienti sono lasciati al tavolo della roulette in una silenziosa mezzanotte di lockdown…

 

@danielecazzani

MAGIE E SORRISI CONTRO IL VIRUS. UNA PROPOSTA AI CENTRI COMMERCIALI

“Indotto” è parola fredda.

Dietro quel termine però si nascondono PERSONE, PASSIONI e PROFESSIONI.

L’attuale chiusura dei centri commerciali, ad esempio, impatta certamente su tutte le attività commerciali delle gallerie, ma anche su quel mondo esterno fatto di aziende di servizi- vigilanza, pulizie, manutenzioni…- di agenzie pubblicitarie, di artisti e via dicendo.

Un pensiero in particolare agli ARTISTI.

Gli spettacoli sono sempre stati un’importante leva di attrazione per i centri commerciali: per creare traffico e per regalare momenti di svago e DIVERTIMENTO alla propria clientela.

Oggi le piazze dei centri commerciali che ospitavano quelle risate sono VUOTE. Nell’aria solo il SILENZIO.

Eppure… perché i centri commerciali non pensano di organizzare degli SPETTACOLI VIRTUALI- coinvolgendo proprio quegli artisti- magari sfruttando le propri pagine Facebook o i canali YouTube per ANDARE A CASA dei propri clienti?

Sarebbe un modo per regalare un SORRISO nelle giornate SURREALI che stiamo vivendo. In questi giorni ad esempio sto trovando conforto e motivo di sorridere nei video di Mr Magic Mariano, un AMICO che da oltre 30 anni regala sorrisi con la magia e la comicità…

#iorestoacasa #insiemecelafaremo #andràtuttobene … col sorriso 😉

@danielecazzani

KIERKEGAARD E L’ANGOSCIA NEL #RETAIL

Potremmo così grezzamente sintetizzare i macro fenomeni che hanno caratterizzato il retail negli ultimi anni:

  • la riduzione dei consumi e
  • l’aumento dell’offerta (sia in termini di prodotti che di canali)

Dando come assodato come la moltiplicazione (e ibridazione) dei canali di vendita sia avvenuta soprattutto come risposta all’evoluzione tecnologica (mobile, social network ed esplosione dell’e-commerce) soffermiamoci sul secondo punto.

E’ indubbio che l’aumento dell’offerta di prodotti (o servizi) disponibili sia stata una delle leve più utilizzate dal retail per contrastare proprio la contrazione dei consumi.

Ma un aumento tout court dell’assortimento proposto al cliente può in realtà determinare nel cliente l’angoscia della scelta, intesa- riprendendo la lezione di Kieerkegaard- come conseguenza di una condizione in cui tutto è possibile e l’eccesso di possibilità aumenta le possibilità di errore…

L’aumento delle alternative può paradossalmente portare il consumatore a una situazione di stallo nella scelta con conseguenza negative sull’esperienza propria (e quella del retailer).

In ambito e-commerce la presenza di filtri per la navigazione degli assortimenti riduce talvolta questo rischio anche se spesso la loro impostazione non è fatta in ottica consumer-centrica ma prodotto-centrica replicando gli alberi merceologici dei prodotti che non è affatto detto siano coincidenti con gli alberi decisionali dei consumatori.

Negli store fisici questo compito di guidare il cliente nella navigazione della propria proposta viene quasi sempre dimenticato. Raramente si trovano directory e ancor più raramente il personale in store risulta avere tra i propri compiti (e competenze) il guidare il cliente tra reparti e corsie.

Anche questo aspetto porta molti consumatori a preferire l’e-commerce a uno store brick & mortar; ma se questo avviene la colpa non è di Amazon & c. ma di tanti manager che ancora non hanno capito CHI sia il proprio cliente e quale EXPERIENCE sia necessario disegnare nel 2019 per poter sopravvivere nel complesso mondo del retail.

Ma veniamo ora brevemente al panino del titolo.

Partiamo da una foto.

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Si tratta del menù di un piccolo locale di Milano che propone ottimi panini con un servizio rapido e piuttosto efficace.

Il menù come si può desumere è strutturato in ordine alfabetico. Non per ingrediente principale, non per tipo di panino, non per prezzo, non per categoria (ad es vegano…) ma alfabetico.

Insomma l’assortimento è proposto con una logica che non è coerente con l’approccio del cliente a questo tipo di consumo (a meno di non pensare che qualcuno entri in una paninoteca pensando “oggi mi voglio gustare un panino che inizi con la lettera p”!?).

Io ho dovuto cercare con attenzione nel ricco menù per trovare il mio panino alla bresaola 😦

Insomma anche da un menù correttamente strutturato il retail potrebbe trarre l’insegnamento che la rappresentazione della scelta è al cuore dell’esperienza dei clienti, ai quali va evitata una condizione di angoscia che porta molto spesso a un non consumo.

@danielecazzani

 

NOTA FINALE

Suggeriamo sul tema la lettura del libro “Troppa scelta” del prof. Guido Lugli dell’Università di Parma.

Il futuro del #retail tra #disruption #ecommerce e antichi mestieri #retail2016

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Anche quest’anno il Consumer & Retail Summit organizzato da GDOWeek, MarkUp e IlSole24Ore è stato l’occasione per fare il punto sullo stato di salute del retail e parlare delle opportunità e delle sfide dell’oggi e del futuro.

Il contesto non positivo dei consumi certamente descrive una situazione non facile, ma che nel contempo registra importanti novità, come la crescita dell’ecommerce, che non possono che spingere il retail verso l’innovazione.

Nonostante vi sia chi pensa ancora che lo sviluppo delle reti sia la strada per lo sviluppo dei fatturati, è parsa sempre più condivisa la consapevolezza che sarebbe illusorio attendersi la ripresa dei consumi senza fare nulla; è invece prioritario innovare format, servizi e strategie per rispondere a un consumatore che a sua volta ha innovato il proprio stile di consumo e che si dimostra sempre più selettivo (e meno fedele).

La crescita dell’e-commerce appare ancora per molti una terribile minaccia, anziché una splendida opportunità: questa visione di Amazon come spettro che si aggira per …il retail appare sinceramente eccessiva, frutto più di paranoia piuttosto che di un’analisi dei numeri.

Tale reazione è spesso il sintomo di una visione ancora dicotomica del retail tra online e offline che porta tanti retailers a vedere nel click & collect un buon compromesso anziché solo come uno dei tanti touchpoint col cliente.

Ma non è tempo per manicheismi: il retail invece deve essere uno, perché questo è ciò che sia attende il cliente. Un cliente multichannel che è più difficile da conquistare e da fidelizzare, ma è questa, lo si voglia o meno, la sfida che attende il retail.

Ciò che serve è un approccio disruptive (con un briciolo di pazzia per citare Mario Gasbarrino, AD di Unes/U2) che sappia ripensare processi, strategie, organizzazioni. Ma l’innovazione che serve non è un adattamento del “famolo strano” di verdolina memoria: il cliente non chiede novità fini a se stesse– la GDO negli ultimi anni ne ha già proposte molte spesso naufragate- né vuole essere stupito da effetti speciali; cerca piuttosto servizi reali e una semplice, reale attenzione alle proprie esigenze.

Essere disruptive vuole dire anche rimettere le Persona al centro delle strategie del retail, riscoprendo mestieri e saperi. Lo sviluppo delle competenze delle risorse che  lavorano nel retail- come ha raccontato Crai- è una strada forse faticosa ma necessaria per dare valore ai negozi fisici, dove la relazione tra personale e cliente deve diventare il valore aggiunto.

In conclusione sono tante le sfide che attendono il retail, ma solo il prossimo Summit ci dirà se i buoni propositi si sono trasformati in buone strategie…

@danielecazzani

#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

La #ristorazione commerciale e il #retail: il Cliente al centro (e nel piatto meno parole)

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Gli ultimi anni sono stati caratterizzati tanto da una forte contrazione dei consumi quanto da un profondo cambiamento negli stili di vita (e di consumo) degli Italiani: il combinato congiunto di questi due elementi ha fortemente impattato su un settore, quello della ristorazione commerciale, che era in realtà rimasto fermo e ancorato a format che avevano “sulle spalle” numerosi anni, con offerte fortemente standardizzate e con focus sull’industrializzazione dei processi più che sulla distintività dell’offerta.

Questi format si sono dimostrati via via sempre più in difficoltà nel rispondere alla nuova domanda di ristorazione che cerca qualità ed esperienza (vedremo a breve come questi due termini siano molto più ostici rispetto a quanto si sia portati a credere) in un settore che ha visto la nascita di nuovi segmenti che ibridano market e ristorazione (pensiamo al successo di Eataly) piuttosto che alla riscoperta dei consumi di strada, o ancora al ritorno della pausa pranzo in ufficio.

Inoltre in questi anni si è andato anche affievolendo il senso della distinzione tra slow food e fast food– nonostante le spigolosità mediatiche tra i principali contendenti- perché l’attenzione si è posta su formule di smart food, ovvero sulla necessità di un equilibrio tra contenuto d’offerta (cibo e servizio) e prezzo richiesto, a prescindere che le modalità di consumo fossero fast o slow.

Sempre più ricerche ci dicono infatti che gli Italiani stanno riscoprendo il valore del cibo, inteso non solo come prodotto in sé, ma come momento di condivisione e socializzazione.

La sfida che si pone quindi al settore della ristorazione, e della ristorazione commerciale in particolare, è ora non tanto quello di effettuare un leggero make-up dei propri locali, con qualche spruzzata di modernità negli arredi e negli stili di comunicazione, ma un profondo ripensamento del proprio modo di essere, sforzandosi di andare oltre una visione prodotto-centrica oggi spesso intrisa di così tanta retorica che parole quali “fresco”, “qualità” e “artigianale” sono state banalizzate e svuotate di valore (soprattutto agli occhi del consumatore).

Al centro deve essere il Cliente. Gestendo le variabili dello spazio (gli ambienti) e del tempo (le modalità di servizio) devono essere sviluppate offerte coerenti con le esigenze dei Clienti, non a quelle di designer, né tantomeno alle esigenze tecniche di produzione. Assortimento, ambiente e comunicazione devono costituire la trama di una narrazione univoca e complessa, ma che deve essere lasciato al Cliente cogliere e approfondire: terminata l’epoca parolaia delle grandi promesse (che come detto sopra ha di fatto svuotato di significato parole un tempo ricche di importanza, come mestiere e artigianalità) il Cliente che deve essere lasciato libero di muoversi all’interno della nostra offerta.

La ristorazione lasci che i percorsi obbligati siano monopolio ancora di qualche store di arredamento- convinto che abbia senso far passare il Cliente di fronte a 15 tipi di cucina anziché chiedergli semplicemente cosa stia cercando, indirizzandolo quindi sulle soluzioni più adatte- e punti su un rapporto più maturo e meno captive coi propri Clienti: avremo così forse meno acquisti d’impulso, ma daremo più impulso agli acquisti…

Possono sembrare indicazioni banali, ma la realtà è che ancora oggi assistiamo alla realizzazione di nuovi locali dove è posta enfasi ai materiali e al design, ed è data grande spazio alle parole del ristoratore, ma dove da molti particolari si desume scarsa attenzione alle esigenze dei Clienti (vogliamo parlare dell’attenzione data nei layout e nelle attrezzature ai Clienti diversamente abili, spesso del tutto trascurati anche nei format più moderni?).

Anche sul piano della gestione dei social network la strada da compiere è molta: un’attività social(e) come il mangiare insieme dovrebbe automaticamente trovare facilità di dialogo e relazione coi propri Clienti sulle nuove piattaforme sociali, ma spesso non è così, dimostrando ancora una forte arretratezza e una mancanza di apertura che è a suo tempo motivo della scarsa capacità di buona parte della ristorazione commerciale nel cogliere i cambiamenti degli stili di consumo alimentare (non è forse questo uno dei motivi per i quali spesso si cerca all’esterno della propria organizzazione il know-how per progettare nuovi format?).

E’ però evidente che questa evoluzione potrà essere realizzato solo se anche un altro importante attore della partita- i landlord (ovvero le proprietà immobiliari)- capirà quanto sia cruciale per il proprio business sostenere, o meglio ancora incentivare, questo percorso.

Non v’è dubbio infatti che la standardizzazione dell’offerta merceologica dei mall (sia questi tradizionali shopping center, piuttosto che stazioni ferroviarie o aeroportuali) è un grande limite alla definizione di un loro efficace posizionamento strategico nel mercato, ma è altrettanto evidente che propria la leva del food service (quindi l’offerta di ristorazione commerciale) insieme allo sviluppo di servizi in ottica di customer service, possano essere due importanti leve per rendere unica la propria offerta in un mercato per tanti versi ancora molto arretrato (vedasi mio post del settembre 2013; da allora poco è cambiato).

Tale passaggio rende quindi necessario un nuovo paradigma di relazione tra landlord e tenant, finora spesso impostato principalmente sul parametro delle royalties, lasciando “fuori dalla porta” l’attore principale cui entrambe le parti dovrebbero guardare, ovvero il Cliente (partendo magari da una domanda: di chi è il Cliente?).

Devono così essere individuate nuove vie che compenetrino da un lato la sostenibilità dei conti economici di landlord e tenant, e dall’altro la costruzione di format (anche creati ad hoc) in grado di incontrare il favore non di un generico consumatore ma dei Clienti che quello specifico centro commerciale vuole raggiungere (il che presuppone la condivisione di dati e strategie, altro ambito quanto mai ostico…).

Si tratta di una relazione contrattale tailor made e per questo più complessa da costruire e gestire, ma deve essere chiaro che questo è solo il primo passo per dare avvio a una coerente strategia di sviluppo, finora “imposto” dal contesto esterno, ma che una ristorazione commerciale che voglia dirsi moderna non può non essere in grado di governare.

@danielecazzani