INTELLIGENZA ARTIFICIALE (AI) E RETAIL

Pubblico di seguito il mio intervento riportato sul numero di settembre 2018 di MarkUp.

 

Intelligenza Artificiale.

Argomento sempre più trattato in incontri, seminari e convegni. Di fatto fattore che sempre più nei prossimi anni sarà disruptive per strategie e organizzazioni nel retail.

Anziché sull’aggettivo vorrei però porre l’attenzione sul sostantivo. Intelligenza: con questa parola intendo didascalicamente riferirmi alla capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e dall’esperienza.

E dunque, oggi quanto è intelligente il retail? Si parla di Big data e non c’è dubbio che la quantità di informazioni oggi disponibili sui nostri clienti sia davvero impressionante. Eppure da consumatori si ha spesso la sensazione che il retail non ci conosca e continui a farci proposte che non tengono conto delle nostre preferenze. Certo si dirà che questo challenge è più facile per gli eTailer. Tuttavia che un retailer “tradizionale” non sappia riconoscere un cliente in modo univoco nonostante i sempre più numerosi touchpoint dimostra, più che una lacuna tecnica, una lacuna culturale, forse solo in parte dipendente da una storica contrapposizione tra It e marketing.

Se il cliente deve essere al centro delle strategie del retail (da quanti anni sentiamo ripeterlo?) il retail deve conoscerlo, anche abbattendo barriere di incomunicabilità e gelosie tra funzioni.

All’interno di questo nuovo paradigma le carte fedeltà possono, devono, assurgere a un ruolo centrale attraverso i diversi touchpoint. Ancora una volta è Amazon a dimostrare come questa sia la strada vincente con la trasformazione di Amazon

#GDPR: c’é Grande Disordine e Panico nel Retail?

Riprendo ed estendo con una nota organizzativa e “culturale” il mio contributo pubblicato sul numero di luglio/agosto di MarkUp.

La recente entrata in vigore del GDPR ha certamente posto il Retail di fronte a tante sfide, a partire dalla necessità di ottemperare a una serie di disposizioni di grande impatto sui sistemi informativi e sull’organizzazione interna per la gestione dei dati dei propri Clienti.

Quanto occorso col caso Cambridge Analytica (per non parlare dei recenti scossoni in borsa al titolo di Facebook) ha reso evidente come il tema della protezione dei dati sarà sempre più importante: se negli USA è in corso un dibattito sulle lacune di un normativa alquanto lasca sul tema, in Europa i cittadini hanno avvertito quanto i propri dati possano essere potenzialmente in pericolo.

Proprio partendo da queste evidenze sarebbe opportuno che il Retail cogliesse l’opportunità data dal nuovo GDPR per ripensare al ruolo dei dati.

Infatti, se è vero che da anni il tema dei big data è sul tavolo (da ping pong) di CMO e CIO, è anche evidente quanto ancora manchi nel Retail una “cultura” del dato come cardine della relazione coi propri Clienti.

Il fatto che i Clienti permettano al Retail di registrare, analizzare e utilizzare i propri dati (dalle informazioni socio demografiche, al record delle transazioni e via dicendo) dovrebbe poggiare su un accordo chiaro- undo ut dessi direbbe in latino- che dichiari come si intenda valorizzare i dati per trasferire valore ai propri Clienti. E’ sufficiente leggere invece una informativa privacy per capire come questo patto non venga mai dichiarato, trincerandosi dietro parole vuote e arzigogolati riferimenti normativi.

Eppure i dati costituiscono, a ben pensarci, la memoria della relazione tra Cliente e Retail e hanno per questo un incredibile valore (per entrambi): valorizzarli è obiettivo strategico.

L’auspicio quindi è che il Retail non abbia visto il GDPR non come uno scoglio da superare, ma piuttosto come un nuovo punto di partenza nella relazione con la propria clientela.

Ed eccomi all’addendum con nota culturale.

L’entrata in vigore del GDPR ha dimostrato per l’ennesima volta- se mai ve ne fosse bisogno- come uno dei grandi problemi del Retail moderno sia nell’organizzazione.

Infatti, come una rapida chiacchierata con manager di diversi settori e funzioni evidenzierebbe, la gestione di questo importante passaggio ha visto infatti lavorare spesso a compartimenti stagni le diverse funzioni aziendali coinvolte.

In primis il Legal e l’IT che palesano spesso grandi difficoltà nell’entrare sui temi propri del Marketing (quale la gestione di un customer database).

Ma la sensazione peggiore (suffragata da esperienze nei panni del cliente) è che proprio il personale dei negozi sia stato poco o per nulla coinvolto in un passaggio che invece- come detto sopra- vede al centro proprio quella relazione col Cliente di cui proprio loro sono snodo strategico.

Insomma, l’adeguamento al GDPR rischia di essere stata un’occasione persa per fare quel salto culturale e organizzativo che metta il Cliente al centro non solo delle strategie (obiettivo già difficile) ma anche dell’organizzazione aziendale di un Retail che voglia pensare al futuro.

Il futuro del #Retail, la rivoluzione culturale della #Loyalty e il #CXM

a775967b-029e-49d4-8a20-b56502788e34-original

La loyalty ha un grande passato alle spalle e, soprattutto, un grande futuro di fronte.

Infatti, come emerso nel corso del recente LoyaltyLab organizzato a Milano da Comarch, se i programmi fedeltà sono nati spesso come risposta alla necessità di conoscere “qualcosa” dei propri clienti, oggi appare evidente come la sfida per la loyalty sia quella di essere elemento centrale nella strategia di posizionamento del Retail e non più uno dei volani di trasmissione delle politiche commerciali o, peggio ancora, mero strumento di retention.

Come ben rappresentato nell’intervento di Cristina Ziliani (Osservatorio Fedeltà Università di Parma) la Loyalty ha percorso una lunga strada, partendo dalle raccolte bollini per essere oggi declinata come app, brand currency (Starbucks), media platform (Amazon Prime) ecc.

images

Così, oggi, parlare di programma fedeltà e di catalogo premi risulta fuorviante e limitativo (si facciano un esame di coscienza le tante insegne della GDO che a questo si limitano…), perché sempre più la Loyalty deve essere elemento centrale della customer shopping experience. Non perché lo dica qualche studioso o manager, ma perché è il Cliente a chiederlo.

Già il caso Amazon Prime dimostra come vi sia oggi spazio per Loyalty scheme del tipo “pay to play”, ma la precondizione è che lo scheme sia un experience-scheme…

Dopo tutto oramai si parla non più di CRM ma di CXM (Customer Experience Management): affinché non si tratti di un’ennesima moda terminologica è però necessario che si produca una reale presa di coscienza dei cambiamenti in atto e delle incredibili opportunità connesse allo sviluppo di un nuovo paradigma della Loyalty,

Un nuovo paradigma che deve far convivere ragione e sentimento, pragmatismo ed emozione. Infatti agli elementi tangibili del programma (meccanismi di rewarding in primis) devono aggiungersi elementi intangibili, più afferenti le componenti di servizio ed emozionali per il singolo Cliente.

I prodotti sono in gran parte imitabili dai propri competitors, ma la relazione che si instaura col proprio Cliente non può esserlo. La Loyalty con la capacità di conoscere, misurare e capire il Cliente per offrire a questi quanto desiderato (o anche più di quanto desiderato) può così fare la differenza.

La Loyalty in sintesi non è affatto solo un algoritmo tecnico, né una card plastica, ma nemmeno un’app. E’ molto di più. La Loyalty è oggi chiamata a cucire tutti i touchpoints tra insegna e Cliente per disegnare un’autentica architettura relazionale.

Ma cosa serve alla Loyalty per fare questo salto di qualità? Una rivoluzione culturale che deve coinvolgere tutta la struttura interna del Retail.

I Loyalty Manager però non devono attendere che (miracolosamente) il proprio CEO bussi alla porta dell’fficio per chiedere aiuto e supporto.

Devono anzi uscire dalle proprie stanze (e dai propri powerpoint…) per dimostrare come la Loyalty possa aiutare l’insegna nelle proprie strategie e nel confronto con arene competitive sempre più affollate e difficili. La Loyalty deve parlare coi numeri.

Una volta “portati a bordo” i CEO servirà trasmettere il valore della Loyalty a tutto il field e alla persone che sono a contatto coi Clienti affinché siano tutti Loyalty ambassador. Nessun loyalty program può funzionare se non risulta in grado di ingaggiare per primi i propri dipendenti.

Basta guardare- e ancora una volta grazie a Cristina Ziliani per la capacità che ha di evidenziare i veri cambiamenti del mercato- il caso di Amazon Prime che diventando nei fatti non solo il loyalty program di WholeFoods ma soprattutto il vero collante di una fusione tra digital e brick&mortar- che tanti dubbi aveva suscitato- sta dimostrando l’incredibile potenzialità della Loyalty.

La Loyalty in sintesi può essere IL NUOVO CONTRATTO TRA RETAIL E CLIENTE, e come tale svolgere il ruolo di autentico baricentro nelle strategie aziendali, togliendo dal tavolo la domanda (stucchevole) se l’obiettivo sia il drivetostore o il drivetoweb, per sostituirla con un ben più concreta alternativa: il drivetous ;).

Il consumatore è pronto a sottoscrivere questo contratto. Il Retail?

@danielecazzani

 

RINGRAZIAMENTI

Un sentito ringraziamento a Comarch Italia che mi ha invitato a partecipare alla tavola rotonda che ha chiuso i lavori del LoyaltyLab2018.

Dinosauri, scarafaggi e… brutti anatroccoli. Il futuro delle agenzie pubblicitarie (e del retail).

È indubbio che il panorama del mercato pubblicitario si sia fortemente modificato negli ultimi anni, principalmente per l’avanzata dell’ADVERTISING DIGITALE e l’ingresso di nuovi e “anomali” PLAYERS quali Facebook, Google piuttosto che nuovi STRUMENTI di pianificazione e gestione delle campagne.

Di fronte a quello che in molti commentatori- spesso soliti alle esagerazioni- hanno descritto come un “cataclisma epocale” (quasi il concetto di evoluzione non dovesse appartenere ai mercati…) la reazione delle grandi agenzie pubblicitarie- WPP, Omnicom, Publicis ecc- dopo un iniziale RIGETTO e rifiuto del nuovo, si è concretizzato in un grande processo di consolidamento caratterizzato da fusioni e acquisizioni, che ha potuto beneficiare di una forte crescita del settore (grazie allo sviluppo di nuovi mercati) che in qualche modo ha ridotto lo shock evolutivo.

grafici-televisivi-adv

televisione3

Ottimizzare i costi fissi, INTEGRARE in strutture con l’allure nostalgica da “mad men” l’energia di giovani START-UP e il know how di piccole e dinamiche agenzie, è stata una risposta efficace nel breve periodo che ha permesso alle grandi di schivare il destino da “media DINOSAURI” e confermarsi ancora una volta come resistenti “SCARAFAGGI”, in grado di sopravvivere alle più nefaste previsioni [vedere nota in calce all’articolo]

Le nuove tecnologie e i nuovi media hanno cambiato i paradigmi del settore (e in parte i suoi attori) ma il ruolo della pubblicità resta da sempre lo stesso: CONNETTERE brand e consumatori attraverso un racconto, un bridge valoriale e di contenuti.

Pensiamo ai grandi brand che si sono affermati negli ultimi anni. Amazon, Google, Netflix devono il loro successo certamente a molti fattori, tra i quali però la pubblicità (classicamente intesa) non riveste certo il ruolo principale…

Le grandi multinazionali hanno ottimizzato i BUDGET pubblicitari e in parte portato al proprio interno alcune delle funzioni prima svolte dalle agenzie, quali ad esempio il media buying.

Se WPP e le altre big non capiranno come il sistema sia ben lungi dall’essersi assestato illudendosi di essere al riparo dalla tempesta è allora probabile che i prossimi anni siano segnati ancora da nuove delusioni.

Per le grandi agenzie la priorità è rendere più rapide e SMART le proprie strutture (snellendo organigrammi di accounting spesso paragonabili a BUROCRAZIE ministeriali) e soprattutto riscoprire e imparare a lavorare non più con comodi e sontuosi FEE (che potremmo dire hanno spesso lo stesso effetto dei matrimoni sulla passione…) ma per PROGETTI (con revenue variabili in base ai risultati, ancora oggi quasi una blasfemia il solo pensarlo…) e tornando a investire tempo e risorse per CAPIRE davvero il prodotto e la brand strategy del Cliente. Si eviterebbero così le tante pubblicità “copia e incolla” che infestano i media…

D’altro canto le aziende hanno l’opportunità di riprendersi il destino dei propri brand senza confidare in salvifici ruoli di agenzie in grado di trasformare un BRUTTO ANATROCCOLO (un prodotto senza “quid” e mercato per intenderci) in un successo.

Per intraprendere con ancora più convinzione questa strada le aziende hanno però la necessità di costruire al proprio interno nuove professionalità in grado di dialogare efficacemente con le agenzie pubblicitarie- senza sindromi da “sudditanza psicologica” verso art director, copywriter & c.- e (penso qui in primi alle aziende RETAIL) attingendo a quell’incredibile PATRIMONIO di informazioni che è dato dal proprio CUSTOMER DATABASE e lavorando in stretta sinergia con un moderno CRM.

Un grande CHALLENGE per tutti!

@danielecazzani

NOTA FINALE

La citazione su dinosauri e scarafaggi prende spunto da una frase attribuita a Rishad Tobaccowala (Chief Growth Officer di Publcis) e ripresa un un recente articolo dell’Economist:

“Everybody says that we’re dinosaurs but we’re not. We’re cockroaches. We know how to scurry around, we hide out in the corner, we figure out where the food is, we reconstitute ourselves.”

#LOYALTY GENERATION GAP

DI SEGUITO L’EXTENDED VERSION DEL MIO ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI MARZO 2018 DI MARKUP.

Baby boomers, generazione x, millennials, generazione z… Non v’è dubbio alcuno che sempre più il concetto di generazione risulti essere importante nelle strategie del moderno retail.

L’attenzione ai millennials e alla- ancora più giovane- generazione z è testimoniata da ricerche, convegni e studi che però spesso sembrano sottacere il fatto che proprio queste giovani generazioni, da tanti retailer viste come nuova terra di conquista, in realtà sono caratterizzate da un basso indice di fedeltà ai brand e, soprattutto, da un basso potere di spesa.

Non che vi sia nulla di cui stupirsi: pensando al panorama italiano, basta considerare come queste generazioni siano in realtà composte da giovani spesso disoccupati, o con contratti a tempo determinato o stage- cui sono correlati bassi livelli salariali- e che vivono in molti casi coi propri genitori fin oltre i trent’anni.

Potere di spesa a parte, certamente l’entrata nel mercato di queste generazioni- avvezze fin da subito ai nuovi digital device- ha avuto un impatto anche sui media utilizzati dai retailer, visto che la tv (almeno quella tradizionale) diventa sempre meno importante nella dieta mediatica quotidiana dei giovani, a favore del web e del social, arene nelle quali infatti tanti retailer si sono forzosamente e spesso affannosamente gettati.

E’ inoltre importante non cadere in facili stereotipi, come quello che abbina nuove generazioni ed e-commerce.

Come dimostra infatti una recente ricerca svolta da Accenture nel mercato USA i giovani consumatori nati dopo il 2000 (la generazione z di cui sopra) preferiscono effettuare acquisti negli store brick & mortar, non via e-commerce, pur pretendendo di trovare i retailer presenti anche sul web o nei social, con un coerente approccio multicanale.

seniorr

Se cerchiamo però di valutare l’impatto del nuovo composit generazionale sui programmi loyalty, dobbiamo prendere atto di come si siano registrate minime innovazioni su questo fronte negli ultimi anni.

Come se i retailer, su altri fronti pronti a rivedere assortimenti, politiche promozionali e piani media, sul lato della loyalty avessero immaginato che tutto potesse rimanere com’era.

Purtroppo non è così.

Millennials e generazione z sono, come clienti, ben diversi dalla precedente generazione x o ancor più dai baby boomers. Non parlo ovviamente di gusti o preferenze per questo o quel prodotto, ma di approccio al consumo e di orizzonti temporali.

Le precedenti generazioni- mi si permetta di semplificare qui alcuni insight tratti da diverse ricerche sociologiche (lettura sempre da consigliare al retail)- vedevano nel prodotto un fine (l’attestazione del raggiungimento di un traguardo) e l’orizzonte temporale delle proprie scelte era quello medio-lungo, quello per intenderci del piano di risparmio per l’acquisto della casa e l’accensione del mutuo o della lunga carriera (fata di tanti, solidi, gradini) all’interno di un’organizzazione aziendale e sociale.

Millennials e generazione z vivono l’oggi, e per essi il prodotto è elemento di un’esperienza non un obiettivo in quanto tale.

La loro infedeltà (al brand, ma anche al posto di lavoro, come lamentano tanti forum di hr manager) nasce da questo nuovo approccio culturale al consumo, non da altro.

Inoltre millennials e generazione z sono caratterizzati da un maggiore individualismo (che si apre agli altri nel momento della condivisione ex post di una propria esperienza), rispetto alla precedenti generazioni che condividevano un più ampio paniere di ideali (spesso contrapponendosi gli uni agli altri proprio in funzione di questi) e di obiettivi sociali e di vita (il matrimonio, la casa e il lavoro erano il trittico di questo “altare culturale”).

Per citare Bauman, sono la generazione della connettività, non della collettività.

Certo, l’età non dice tutto dei propri clienti, né è pensabile che si possa costruire una strategia di loyalty basata solo su questo parametro, ma un moderno retail deve prendere atto che, oggi più che ieri, è necessario tenerne conto anche in ambito loyalty e, in tal senso, ripensarsi e reinventarsi.

Non solo nei contenuti (come premi meno “cose” e più “esperienze” o “cose che abilitano esperienze”), nelle meccaniche (la formula “1 euro uguale 1 punto” è equazione della banalità, quando invece si potrebbero considerare numerosi altri comportamenti del cliente) e nei tempi (chiedere a un giovane di programmare acquisti per molti mesi per arrivare all’obiettivo è chiedere quasi un comportamento contro-natura).

Ad esempio, in relazione a quest’ultimo parametro il programma Vodafone Happy, che ogni venerdì premia i propri iscritti con un “regalo”, dimostra di avere ben compreso questa nuovo approccio.

Soprattutto per non perdere appeal verso le nuove generazioni- senza dimenticare con questo le precedenti- i programmi loyalty potrebbero essere strutturati non più come rigidi palinsesti, ma in modo flessibile, permettendo ai singoli clienti (quindi anche alle nuove generazioni) di costruire un proprio programma, sulla falsariga di quanto è successo con l’arrivo di Netflix nel mondo televisivo.

Non si tratta certamente di un cambiamento facile, ma siamo certi che vi sia un’altra strada e che i programmi loyalty possano continuare a ignorare la realtà?

@danielecazzani

DAL #CRM AL #SOCIAL CRM: L’ECOSISTEMA RELAZIONALE DEL CLIENTE AL CENTRO DELLE STRATEGIE DEL #RETAIL

crm jpg google

Paradossalmente esistono così tante definizioni di CRM che verrebbe da dubitare che sia a tutti chiaro di cosa si parli…

A seconda dell’angolazione infatti il CRM è visto da qualcuno come una strategia, da taluni come un processo, e da altri ancora come uno strumento tecnologico per gestire dati…

Partiamo da una breve frase di Kotler:

CRM is concerned with managing detailed information about individual customers and all customer “touch points” to maximize customer loyalty and improve the customer shopping experience.

In queste poche righe (illuminanti, come spesso accade con Kotler) troviamo tutti gli elementi fondanti del CRM:

  • detailed information (ricordando che … information is more than data)

  • individual customers

  • customer touchpoints (attenzione alla “s” plurale!)

  • customer loyalty

  • customer shopping experience

Quindi, trasformare le informazioni che possiamo raccogliere dai diversi touchpoint- attraverso i quali i singoli clienti entrano in contatto con noi- nella base per elaborare strategie volte alla massimizzazione della loyalty e al miglioramento della customer shopping experience.

Quando parliamo di touchpoints al plurale già dovremmo capire che pensiamo a molto più dei soli dati di acquisto che pure hanno costituito una ricca miniera di informazioni alla quale in tanti, troppi, finora non hanno saputo attingere con la necessaria convinzione e dedizione.

Partiamo infatti dai dati transazionali di negozio: importo di spesa, frequenza d’acquisto, composizione paniere d’acquisto, cross selling, adesione e partecipazione ai programmi loyalty… Inseriamo la variabile temporale per valutare andamento nel tempo di questi basici parametri per ogni singolo cliente e già ci troveremmo nelle condizioni di dover gestire un’immensa mole di dati con la conseguente possibilità di effettuare attività di targeting piuttosto sofisticate.

Aggiungiamo ancora informazioni derivanti dalla risposta del cliente alle nostre e-mail, sms o mailing cartacei.

O ancora la registrazione dei contatti dei clienti col customer service (web, call center, negozio ecc) o dati derivanti dalla navigazione sul nostro sito web o pagine social

Ecco così aumentare ancora la complessità dell’ecosistema di informazioni nel quale possiamo muoverci. E tutto senza guardare all’esterno della nostra realtà…

Eppure spesso queste informazioni rimangono in silos non comunicanti tra loro, impedendo il disegno di un reale e veritiero profilo/cliente e quindi la costruzione di efficaci strategie customer-centriche che abbiano cioè al centro il Cliente con le proprie esigenze.

Senza allargare lo sguardo al mondo esterno, fermiamoci ancora a pensare al CRM e al suo potenziale.

In primis qual è l’orizzonte del CRM?

Fino a poco tempo fa avremmo detto il medio-lungo periodo- e questo, onestamente, è stato un alibi per rifiutare tanti investimenti su questo fronte (meglio una promozione mass market tattica e subito misurabile si pensava…)- proprio perché il customer relationship management ha l’obiettivo di gestire una relazione continua col Cliente– senza concentrarsi sulla semplice singola transazione- e così porre le basi per un aumento della profittabilità dei Clienti.

E’ infatti dimostrato che più perdura la relazione col Cliente (fedeltà, ovvero esistenza di un rapporto) tanto più questa risulterà profittevole (fidelizzazione, ovvero intensità e qualità della fedeltà).

Ma oggi quella risposta, valida forse nella prima fase del CRM, non può essere che parziale.

La possibilità di processare efficacemente bigdata e gli strumenti informatici a disposizione permettono di trasformare rapidamente i dati in insight e questi in decisioni.

Decisioni rapide.

Da attuarsi con strumenti rapidi (non v’è che l’imbarazzo della scelta).

Inoltre siamo soliti sentire dire che il principale obiettivo del CRM è la retention, ovvero la capacità di mantenere il cliente all’interno dell’orbita relazionale (e transazionale) dell’azienda.

Personalmente credo sia un obiettivo importante, ma minimo

E’ infatti limitativo pensare che obiettivo del CRM sia solo quello di migliorare le opportunità per comunicare costantemente con i clienti, per fornire l’offerta corretta (meglio dire il contenuto oggigiorno), attraverso i canali di comunicazione più efficaci e adatti, nel momento e al tempo giusto.

Il singolo Cliente può, deve, essere visto come elemento di un ecosistema di relazioni.

E’ solo in quest’ottica che il Social CRM assume un ruolo centrale e può appieno contribuire alle strategie di un retailer.

Intendiamo con questo termine andare oltre il social media monitoring, inteso come processo col quale i Retailer monitorano i principali social network- come Facebook, Twitter…- per rilevare informazioni inerenti i prodotti/servizi commercializzati, citazioni del brand ecc.

Infatti monitorare i propri Clienti presuppone prima di tutto la conoscenza della loro customer journey.

Solo in questo modo è possibile individuare quali siano gli spazi social da monitorare.

Bisogna infatti stare attenti a non cadere nell’errore di concentrare l’attenzione solo sui social media “facili” da monitorare (Facebook in primis) solo perché siamo confidenti di ritrovare in essi una buona quota dei nostri Clienti.

La verità è che si dovrebbero monitorare i social nei quali i contenuti creati, gestiti e condivisi dai nostri Clienti siano rilevanti per il nostro business e la cui conoscenza ci permetterà di arricchire il nostro patrimonio informativo e conoscitivo sul singolo Cliente.

Questa azione va poi resa continuativa, perché per poter innescare un circolo virtuoso il Retailer deve essere in grado di apprendere in modo continuo dai propri Clienti.

La targetizzazione deve essere flessibile, come lo sono i consumatori.

Per quanto ci piacciono le etichette (e i cluster), innamorarsene può essere un errore.

Solo se il CRM riuscirà a costituirsi come unico serbatoio informativo sul singolo Cliente- un serbatoio non statico ma alimentato da insight in real time– allargando la visione all’ecosistema relazionale del Cliente potremo allora annotare un lungo (ma sempre parziale) elenco di nuovi obiettivi:

  • migliorare la shopping experience del Cliente nel negozio (o sulla piattaforma di ecommerce of course), migliorando l’efficienza e la professionalità della forza vendita, grazie alla condivisione della conoscenza del Cliente, che è patrimonio di tutti non solo del Marketing;

  • acquisire nuovi Clienti sia attraverso la leva dei Clienti già acquisti e fidelizzati, sia grazie alla definizione di lookalike audience con obiettivi di lead generation;

  • elaborare efficaci modelli di redditività del singolo Cliente, calcolandone ad esempio il Life Time Value;

  • perfezionare gli investimenti nei media di contatto, calibrandoli in base al contenuto e al target selezionato (ad esempio con azioni di retargeting);

  • valorizzare l’esperienza del Cliente per la proposta o il test di nuovi prodotti e servizi (anche con l’organizzazione di survey, focus group ecc)

Questo è in sintesi il vero obiettivo del CRM: creare maggiore valore per il singolo Cliente e per il Retailer.

@danielecazzani

NOTA FINALE

L’immagine riportata a inizio post è il risultato della ricerca della parola “CRM” su Google. Simpatici disegni, icone, chart, ma nessuna persona reale

Ecco perché invece come immagine di copertina ho voluto inserire il volto intenso di un uomo qualunque* che quasi si chiede “quando parli di CRM parli di me?” Perché i nostri Clienti sono Persone e non tutti sono Millenials 😉

* uno scatto del giovane fotografo francese Philippe Echaroux che nelle vie di Parigi (ma non solo) ha fotografato persone comuni ma con la medesima attenzione e cura degli scatti più cool per vip e personaggi famosi…)

https://petapixel.com/2012/11/25/shooting-studio-portraits-of-strangers-on-the-street-as-if-they-were-famous/

Il futuro dei discount tra prossimità, relazione e omnicanalità

discount-italia-loghi-600-ifn

Nel 1992 la società francese Sodiaal insieme a Kraft si affacciò sul mercato italiano con una poderosa campagna pubblicitaria (oltre 20 miliardi di lire per la sola tv!) per il lancio del nuovo yogurt Yoplait.

Il claim della campagna era: “Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?” (se non la ricordate guardate qui: https://www.youtube.com/watch?v=N7bwGIrA2PI )

La risposta dei consumatori italiani fu chiara e niente affatto positiva per Yoplait. Già nel 1993 gli investimenti pubblicitari furono bloccati e pochi anni dopo il prodotto venne ritirato dal mercato italiano (pur rimanendo un prodotto di successo su tanti altri mercati).

Potremmo porci la stessa domanda per i discount: ma con tutti i discount che ci sono c’è ancora spazio per altri discount?

E’ indubbio che la formula discount abbia incontrato negli ultimi anni il favore del consumatore, sia come riflesso della crisi dei consumi sia per merito di strategie volte a migliorarne ambiente, assortimenti e servizi, oltre che a un rafforzamento delle reti dei 3 principali attori (Eurospin, Lidl e MD-LD) tant’è che alcuni di questi stanno cercando di togliersi l’etichetta di discount provando ad accreditarsi come supermercati.

Al di là di questioni terminologiche- che non mi appassionano…- torniamo alla domanda.

La quota dei discount in Italia è cresciuta negli ultimi anni e si prospetta possa crescere ancora di alcuni punti percentuali in primis perché la presenza territoriale non è omogenea nel nostro Paese, con quote più basse nei territori ove è più forte la domanda (e la concorrenza of course).

Quale potrà essere quindi il ruolo del discount all’interno di una GDO sempre più in fibrillazione con conto economici critici e alle prese con test di nuovi format- come testimoniano ad esempio i percorsi intrapresi di Carrefour, Auchan- ristrutturazioni assortimentali e della rete commerciale, e che vede all’orizzonte l’arrivo di Aldi e di Leader Price?

Riprendendo quanto avevo già anticipato nel lontano aprile 2013 (https://newmarketingretail.com/2013/04/15/discount-3-0-il-futuro-del-discount-in-una-societa-in-evoluzione/ ) a mio avviso le leve che potranno assicurare il successo di questo format sono tre:

  1. la prossimità,

  2. la relazione e

  3. l’omnicanalità.

La prima si declina nella scelta di location non solo periferiche, in layout chiari e punti vendita belli oltre che funzionali; ma anche in assortimenti mirati, attenti ai territori, con focus sui freschi, e un chiaro posizionamento di prezzo senza cedere alla tentazione della promozione da cui gli altri format (iper e super) stanno con difficoltà cercando di disintossicarsi.

La seconda leva costituisce una sfida che nessuno degli attuali leader di mercato ha saputo o voluto cogliere. Pur avendo copiato molti dei “tic” dei supermercati (l’eccessiva pressione promozionale in primis) infatti per ora i discount si sono ben guardati da investire nella conoscenza del cliente, che costituisce il punto di partenza partenza per la costruzione di una relazione.

E’ certamente vero che lo scontrino medio del cliente discount è decisamente inferiore rispetto a quello del cliente di un ipermercato, ma a bene vedere non è poi molto distante da quello del cliente di un super.

Perché quindi non investire su questo tema e dotarsi di strumenti per monitorare il comportamento del cliente e in base a questi dati perfezionare azioni promozionali, proposta di servizi ecc? Non dico che iniziare questo percorso sia facile, ma la strada per il miglioramento raramente lo è..

Infine l’omnicanalità. Lasciando da parte la paura per Amazon & co. che tanto spaventa (e spesso paralizza) la GDO nostrana, non esistono motivi per ritenere che il cliente di un discount non si attenda da questo una coerente presenza multicanale, a partire ad esempio da un servizio click & collect (lo vogliamo chiamare drive?) tanto quanto la attende/pretende dagli altri format (taluni in grosso ritardo sul tema).

Certo l’assortimento di un discount è ben più ristretto rispetto a quello di un iper, ma non è l’ampiezza dell’assortimento a rendere necessaria questa scelta: è la sola osservazione della realtà e delle mutate esigenze e attese dei consumatori.

Alla domanda che ho posto all’inizio io quindi rispondo con un sì. C’è spazio per nuovi discount, ma che siano di prossimità e sempre più vicini al cliente e alle sue mutate esigenze.

I discount in conclusione hanno la possibilità di crescere ancora, disegnando un proprio percorso evolutivo che senza ripetere gli errori passato degli altri format possa definitamente consolidarlo come attore principale del mercato, non più come una cenerentola guardata di sottecchi dai big della distribuzione (se ve ne fosse bisogno il caso inglese da questo punto di vista dovrebbe costituire un efficace alert http://www.gdonews.it/2017/06/12/il-discount-fa-paura-a-tutti-ecco-cosa-sta-succedendo-in-inghilterra/ ).

@danielecazzani

Il più evoluto sistema di CRM si chiama… Mario!

Riconosce i Clienti appena entrano nel negozio (ancora meglio di AmazonGo). Ne ha memorizzato i gusti, i precedenti acquisti, ed è così che sa proporre mirate proposte promozionali o azioni di cross selling. Sa individuare i clienti per test e survey, perché è conscio che il vero giudice di qualsiasi innovazione è il Cliente. Ed è in grado di mapparne le interazioni sulle proprie pagine social.

In sintesi mixa le principali caratteristiche di un moderno CRM- ascolto, dialogo, coinvolgimento, profilazione e misurazione- con l’unico obiettivo di migliorare la customer shopping experience e costruire, partendo da questa, strategie efficaci, dinamiche, flessibili, tailor made (cucite sul singolo cliente).

Questo sistema non è in cloud, e non stato progettato da qualche start-up americana (né tantomeno italiana o europea), ma è il frutto… dell’amore di Monica e Carlo, due appassionati commercianti.

Questo “sistema” si chiama infatti Mario.

E’ il figlio di Monica e Carlo- ne ha ereditato il negozio- ed è il titolare di una gastronomia di cui da anni sono affezionato cliente (nonché involontario testimone dell’efficacia del suddetto sistema).

15803193_570814766448699_2418319634236178432_n

Purtroppo Mario è un “sistema” non replicabile né esportabile.

Mi si perdoni quindi il divertissement iniziale, ma il tema del CRM è per me fondamentale soprattutto in realtà dove non si può fare affidamento sulla singola Persona, ma, come nelle moderne e complesse realtà retail, deve essere la struttura e la cultura organizzativa a costruire un efficace “sistema” di relazione col Cliente.

Se si è davvero convinti che le strategie debbano sempre più essere customer-centriche e che il focus debba sempre più essere il Cliente- cose che sento ripetere ovunque…- per quale motivo il CRM stenta a diventare vero motore delle strategie aziendali- penso qui a tante realtà retail- rimanendo invece, spesso, una “riserva” del marketing?

A mancare non sono certi gli strumenti tecnologici, ma forse più la volontà di compiere un passo culturale verso quei Clienti- siano essi boomers, generazione x, millenials…- che chiedono di essere ascoltati, che si organizzano in comunità attorno ai brand preferiti e che pretendono sempre più una nuova relazione.

Il paradosso è che Mario lo aveva capito anni fa senza partecipare ad alcun convegno…

@danielecazzani

 

#Esselunga, un #coupon, il Cliente e la #multicanalità (dimenticata?)

Alcuni giorni fa ho ricevuto un mailing di Esselunga contenente 3 coupon validi (in 3 distinti periodi) come sconto di 20 euro a fronte di una spesa minima di 100 euro (totale sconto 60 euro, per ricordare i sessant’anni dell’insegna di riferimento della GDO italiana).
Lodevole iniziativa ma in merito alla quale mi premono due domande.

La prima attiene al lato esperienziale. PER QUALE MOTIVO ESCLUDERE LA SPESA ONLINE? Non so cosa abbia dettato questa scelta (considerazioni di marginalità?) ma come Cliente per me è indifferente acquistare in un superstore Esselunga o online su esselungaacasa. Per questo sarebbe stato opportuno che anche Esselunga mi considerasse sempre come lo stesso Cliente senza penalizzare l’una o l’altra scelta. Si dice che siamo nell’epoca della multicanalità ma vedere queste barriera da parte di un’insegna che prima di altre ha creduto nella spesa on line lascia perplessi…

Seconda domanda sia tecnologica che (ancora una volta!) esperienziale. Il direct mailing cartaceo è certamente uno strumento utile per “bussare alla porta” dei propri Clienti (fatte salve le inefficienze delle società che si occupano di recapito), ma PERCHE’ NON ATTIVARE GLI SCONTI DIRETTAMENTE SULLA CARTA FIDATY DEL CLIENTE permettendo a questi di usufruirne anche a prescindere da eventuali non consegne del mailing (messe in conto dall’insegna?) o di eventuali dimenticanze del piccolo coupon in qualche cassetto di casa?

Con un nuovo approccio il mailing (ma perché non usare anche altri strumenti quali email o sms? certamente non innovativi ma assai apprezzati dai consumatori) avrebbe potuto essere lo strumento per informare il Cliente di questo “regalo” ma dal punto di vista dell’experience l’avere lo sconto direttamente sulla propria card sarebbe stato, a mio modesto avviso, un passo avanti.

Insomma: sessant’anni sono un bellissimo traguardo (raggiunto tra l’altro in splendida forma!) ma la storia (declinata come “affetto” verso vecchi strumenti) non dovrebbe mai essere da freno nell’adozione di nuove soluzioni che mettano al centro il Cliente e la sua esperienza.

@danielecazzani

LA PROMESSA SMARRITA DELLA #LOYALTY E L’INSEGNAMENTO DELLA GOLCONDA DI #MAGRITTE PER UN NUOVO #CRM

Quanti retailer sono veramente interessati a conoscere il proprio cliente? E quanti tra questi possono dire di conoscerlo veramente? All’apparenza si tratta di due domande molto semplici ma che nascondono pericolose insidie.

Andiamo però con ordine.

Per quanto la conoscenza del proprio cliente dovrebbe costituire un patrimonio fondamentale per il retail, spesso l’enorme mole di dati sui cui questi letteralmente siedono non è divenuta patrimonio comune e non è riuscita a influenzare le scelte strategiche, di posizionamento e commerciali degli stessi.

Ecco perché parlo di promessa smarrita, o peggio ancora persa; perché non valorizzando quella conoscenza il retailer hanno di fatto rinunciato a dialogare coi propri clienti.

Nascono così progetti loyalty che iniziano e finiscono in un pezzo di plastica, frettolosamente consegnatoci alla cassa e di cui spesso ignoriamo i vantaggi. Oppure programmi loyalty fotocopia l’uno dell’altro- con le medesime meccaniche di accumulo e conversione punti ad esempio- mere cornici per collection o cataloghi sempre più poveri e stanchi.

E pensare che la possibilità che il cliente concede al retailer di accedere ai propri dati e transazioni si dovrebbe basare su un patto semplice e chiaro, un moderno do ut des: il cliente acconsente alla lettura dei propri dati per ricevere in cambio valore, servizi, vantaggi. Invece questa promessa viene spesso, troppo spesso, non rispettata (e non certo da parte del cliente, che spesso inconsapevolmente, fornisce al retail una serie impressionante di dati su di sé e le proprie abitudini di consumo).

Per questo sono convinto che il retail debba ridisegnare il rapporto col proprio cliente. Col singolo cliente. Partendo da Magritte e da uno dei suoi quadri più famosi: Golconda

magritte-golconde-19531

Osserviamo il dipinto. In apparenza una pioggia di uomini identici l’uno all’altro. Ciascuno vestito nel medesimo modo, con la classica bombetta. Tutti uguali proprio come i clienti si potrebbe dire. Eppure…

Eppure, tutti quegli uomini sono diversi: ciascuno si trova in una posizione diversa, chi rivolto verso di noi chi no, e in una diversa relazione spaziale rispetto agli altri. Attenzione quindi a considerare tutti i clienti uguali!

La sfida per il retail è avvincente. Portare a valore i dati quantitativi (generati dalle transazioni di acquisto) e arricchirli con dati qualitativi che possano misurare, ad esempio, la shopping experience dei clienti, o ancora la loro capacità di divenire ambassador per il propri prodotti o servizi, piuttosto che l’interazione col brand sul web e i social e via dicendo.

Quando parliamo di trasformare in quantitativi elementi qualitativi in molti penseranno al  famoso Net Promoter Score. Ma, aggiungo provocatoriamente, una nota: se ci ricordiamo che questo indice nasce negli anni Settanta è evidente che sia molta la strada da fare per arrivare a costruire nuove metriche per il nuovo cliente/consumatore omnichannel.

Per fare questo percorso non esistono kit pronti all’uso.

Ciascun retailer deve essere capace di costruire dei propri strumenti perché il proprio cliente è unico, così come lo è quella relazione che un moderno CRM e una Loyalty finalmente al centro delle strategie aziendali, potranno costruire e rafforzare.

@danielecazzani