Una strategia #disruptive per il #turismo in #Italia: dall’abolizione del #Mibact a un moderno #crm

turismo-italia-630x400

Il turismo può essere una formidabile opportunità di crescita e sviluppo economico per il nostro Paese, nonché uno strumento di valorizzazione delle nostre eccellenze e tradizioni.

Da anni sentiamo ripetere come un mantra questa frase, ma pur a fronte di un mercato del turismo mondiale in continua crescita (oltre il 4% nel 2015) grazie all’aumento di nuovi turisti (pensiamo ai cinesi) e nel quale l’Europa continua ad assorbire oltre il 50% del traffico, l’Italia sembra non essere ancora in grado di cogliere questa opportunità, trovandosi dietro altri Paesi europei per flusso turistici; e questo nonostante numerose ricerche mondiali la indichino come uno dei luoghi più desiderati e ambiti per le proprie vacanze.

I dati che seguono (fonte UNWTO) fotografano bene la situazione.

Top 10 destinazioni del turismo internazionale

Arrivi internazionali (milioni)

Introiti (miliardi di US$)

var. % moneta locale

graduatoria 2015

2014

2015

var. %

graduatoria 2015

2014

2015

1 Francia

83,7

84,5

0,9

1 USA

177,2

178,3

0,6

2 USA

75,0

n.d.

n.d.

2 Cina

105,4

114,1

8,3

3 Spagna

64,9

68,2

5,0

3 Spagna

65,1

56,5

4,0

4 Cina

55,6

56,9

2,3

4 Francia

57,4

45,9

-5,4

5 Italia

48,6

50,7

4,4

5 Thailandia

38,4

44,6

22,0

6 Turchia

39,8

n.d.

n.d.

6 Regno Unito

46,6

42,4

-2,0

7 Germania

33,0

35,0

6,0

7 Italia

50,5

39,4

3,8

8 Regno Unito

32,6

n.d.

n.d.

8 Germania

43,3

36,9

1,9

9 Messico

29,3

32,1

9,5

9 Hong Kong (Cina)

38,4

35,9

-6,6

10 Russia

29,8

31,3

5,0

10 Macao (Cina)

42,6

31,3

-26,5

Fonti: UNWTO World Tourism Barometer, vol.14 – July 2016

A fronte di un 2015 che ha registrato una crescita del turismo nel nostro Paese (grazie anche all’effetto Expo), il primo semestre del 2016 evidenzia purtroppo un segno negativo (-3,3% arrivi, -1,3% presenze) secondo i dati diffusi dall’Enit.

Un segno non positivo che cozza con le parole di ottimismo che sentiamo spesso spendere sulle magnifiche sorti e progressive che attenderebbero il turismo per il nostro Paese.

La composizione dei turisti (dati Istat) per provenienza fotografa inoltre come buona parte dei turisti in Italia sia costituita da cittadini europei (un’utile riflessione per i detrattori della moneta unica) ma allo stesso tempo evidenzia la potenzialità costituita da Paesi quali Cina il cui numero di turisti sta rapidamente aumentando, grazie alla crescita delle economie domestiche.

I principali 15 mercati di provenienza (in ordine decrescente di arrivi 2015)

 

2015

Variazioni % 2014/2015

Quota % su totale 2015

Rank

Paesi

Arrivi

Presenze

Arrivi

Presenze

Arrivi

Presenze

1

Germania

10.858.540

53.294967

3,1

1,4

20,4

28,1

2

Stati Uniti

4.531.141

11.657.085

-4,2

-3,1

9,2

6,4

3

Francia

4.331.623

13.010.397

11,0

9,5

7,6

6,4

4

Cina

3.338.040

5.378.298

45,3

54,5

4,4

1,9

5

Regno Unito

3.316.921

12.482.716

6,7

5,2

6,0

6,4

6

Svizzera

2.691.106

10.046.878

12,0

7,8

4,7

5,0

7

Austria

2.320.615

8.807.043

4,9

2,2

4,3

4,6

8

Paesi Bassi

1.941.555

10.218.449

1,4

-3,1

3,7

5,6

9

Spagna

1.779.258

4.582.106

3,9

-3,1

3,3

2,5

10

Polonia

1.203.526

4.688.076

8,9

8,5

2,1

2,3

11

Russia

1.194.656

4.417.359

-33,1

-35,2

3,5

3,7

12

Belgio

1.177.933

4.749.500

5,3

1,4

2,2

2,5

13

Giappone

1.109.491

2.303.854

-15,3

-10,7

2,5

1,4

14

Australia

906.224

2.428.671

4,6

7,5

1,7

1,2

15

Brasile

872.736

2.196.001

14,4

16,9

1,5

1,0

Fonte: Istat

In questo contesto di chiaroscuri (crescita del turismo mondiale, ma nostra difficoltà nel coglierne le opportunità) sono numerosi i motivi che possono spiegare il ritardo italiano, e sarebbe troppo impegnativo volerli citare tutti.

Tra i più citati vi è la mancanza di infrastrutture.

Si tratta certamente di un deficit che rallenta tanti settori, ma nel caso del turismo, una delle risposta che si è voluta dare, ovvero la moltiplicazione di aeroporti a livello provinciale- con fisiologici conti in profondo rosso e mantenuti in vita solo grazie ai generosi contributi dei soci pubblici- ha dimostrato la profonda ignoranza dei fondamentali del turismo e una inversamente proporzionale conoscenza della gestione dei rapporti politici locali.

Rapporti che vedono come attori una pluralità di soggetti che si occupano di promozione turistica. E questa pluralità costituisce un altro minus del nostro sistema. Facciamone un elenco (certamente non esaustivo):

  • Ministero del Turismo

  • Regione

  • Provincia (o città metropolitane)

  • Camera di Commercio

  • Coldiretti

  • Federalberghi

  • Confesercenti

  • Ascom

  • Unione Agricoltori

  • Università

  • Aziende agrituristiche e relative associazioni

  • Sistemi museali

  • Comunità Montane

  • Associazioni e Consorzi per la promozione di prodotti tipici del territorio

  • Associazione Albergatori

  • Aziende agroalimentari e vinicole

  • e via elencando…

Una moltitudine di soggetti il cui effetto è un cacofonico insieme di iniziative ed eventi spesso non in grado di andare oltre i confini del territorio in cui nascono, senza raggiungere alcun target di potenziali turisti.

Ma se questa è una (opinabilissima e rapidissima) diagnosi, quale potrebbe essere la cura?

Una cura disruptive che abbia il coraggio di cambiare l’approccio al mercato, sia sul lato degli attori, che delle strategie che dovranno essere centrate sul nuovo concetto di turista/ospite.

Iniziamo dall’abolizione del Ministero dei Beni Artistici e Culturali e del Turismo. Che il turismo debba essere abbinato alla tutela dei beni culturali rappresenta una visione limitata, vecchia del turismo. Il turismo non è solo beni culturali; è turismo d’affari, è turismo d’eventi, è turismo enogastronomico ecc.

Serve un nuovo attore, più snello che funga da playmaker nel settore, da facilitatore di connessioni tra gli altri attori in campo, allocando risorse laddove si sappiano costruire network tra enti pubblici e soggetti privati, con la stessa logica che ha dimostrato l’efficacia, in ambito industriale, dei distretti.

Al nostro Paese non servono nuovi loghi o portali turistici il cui unico effetto è arricchire le agenzie che li studiano e progettano, ma che non hanno la forza di divenire brand o raggiungere i clienti finali.

E’ invece necessario prendere atto che la disintermediazione messa in atto dai consumatori alla ricerca del prodotto turistico (pensiamo all’incredibile sviluppo dell’e-commerce in tale ambito) ha cambiato del tutto il paradigma del settore.

Nell’era di Netflix è sempre più il consumatore a costruirsi il proprio palinsesto esperienziale, pertanto perdono di efficacia i pacchetti prefabbricati, mentre diventa fondamentale presidiare tutti i touchpoint che compongono la shopping journey del turista.

L’Italia all’estero non è rappresentata tanto da un buon catalogo turistico, quanto dai propri prodotti (da qui la centralità della tutela del madeinitaly), e da touchpoint esperienziali che possono essere una mostra di pittura, piuttosto che la sede di Eataly a NewYork…

Allo stesso modo deve essere centrale la figura del turista/ospite.

I dati che seguono (elaborazione Enit sui dati della Banca d’Italia) dimostrano che la spesa media giornaliera dei turisti in Italia è superiore a quella degli altri Paesi europei, che invece inseguiamo in termini di traffico.

turismo

Insomma, dobbiamo aumentare il volume dei turisti non certo la nostra capacità di spremerli…

Per questo è fondamentale integrare nelle politiche turistiche un moderno approccio di customer relationship management, che parta innanzi tutto da una conoscenza di chi sia il turista, mettendo a comun denominatore i diversi database e agevolando la condivisione dei dati.

Una volta definitone il profilo, altro obiettivo dovrà essere quello di massimizzare la qualità della journey experience, costruendo metriche che ne misurino la soddisfazione in base a parametri qualitativi e quantitativi.

Poco sopra ho parlato di turista/ospite, non di turista/cliente. Quella che a prima vista potrebbe sembrare un banale distinguo lessicale, nasconde invece una profonda differenza.

Il concetto di ospite prevede un rapporto paritario tra chi ospita e chi viene ospitato.

L’obiettivo primario in questo contesto deve essere quello della retention per mantenere e rafforzare la base di turisti/ospiti, massimizzandone la soddisfazione così che possano essere a loro volta i migliori sponsor dell’Italia una volta rientrati nei propri Paesi.

Mentre sul lato dell’acquisition le risorse devono essere investite per fare in modo di presidiare in modo coerente ed efficace tutti i touchpoint, come sopra accennato.

Come detto non ho certamente toccato tutti i punti critici della nostra attuale offerta turistica, ma il mio obiettivo (forse fin troppo ambizioso) era solo quello di attivare una riflessione su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

E’ certamente più difficile il nuovo contesto del turismo, ma ritirarsi dalla sfida sarebbe il modo migliore per perdere l’ennesima grande opportunità per un Paese, il nostro, alla ricerca del proprio futuro e che dovrebbe trovare la forza di guardare con meno nostalgia e compiacenza al proprio passato, concentrando forze ed energie sulle sfide dell’oggi e del domani.

@danielecazzani

NOTA FINALE

Parte di questo articolo nasce dalla rilettura di un mio progetto del 2013 sottoposto all’allora Presidente della Camera di Commercio di Pavia, e rimasto inerte in qualche cassetto, mentre una commissione istituita ad hoc studiava le migliori azioni da intraprendere per sfruttare il volano di Expo2015 per lo sviluppo del turismo in una delle province (da questo punto di vista) più arretrate del Nord Italia. E’ inutile dire che Expo2015 è passato e di quelle azioni non se ne è avuta notizia…

#IlCentro dello #shopping center è davvero il Cliente?

UG3300

Pochi giorni fa ha aperto ad Arese IlCentro: il più grande centro commerciale italiano e tra le più importanti strutture in Europa.

Riprendo quindi con piacere un mio post pubblicato nel settembre 2013 (https://wordpress.com/post/marketingretail.wordpress.com/350), per vedere se e come il settore dei centri commerciali abbia intrapreso o meno quel percorso di innovazione che, da ex addetto (ed appassionato) ai lavori mi ero permesso di proporre.

Il centro della mia tesi era (ed è) che ai centri commerciali servisse un’identità, che non è affatto data dalla summa delle identità (insegne) del mall, in primis da quella dell’ancora alimentare (se presente).

Quell’identità andava creata- così dicevo- attraverso un’attenta gestione di cinque leve di marketing:

1. la valorizzazione di sinergie tra ancora alimentare e negozi;

2. la fidelizzazione della clientela;

3. la collaborazione col territorio;

4. la gestione strategica della comunicazione;

5. un palinsesto di eventi unici.

Sono passati quasi tre anni da allora ed è evidente come quell’approccio non risponda più alle esigenze di un contesto che è ancora mutato, e si è reso più competitivo non tanto, non solo, per l’aumento della concorrenza tra centri commerciali, ma per la crescente concorrenza trasversale tra centri commerciali e altri ambienti, altri spazi (reali o virtuali) in cui il consumatore si reca per il soddisfacimento dei propri bisogni.

Siamo nell’era della multicanalità– anzi della omnicanalità- e già solo la definizione di “centro commerciale” risulta difficile. Come detto, la concorrenza non è più, non è solo, tra centri commerciali perché il consumatore oggi ha molteplici strade di fronte a sé…

Non sono più sufficienti un corretto mix merceologico nella galleria, una food court ampia e varia, un buon calendario di eventi, importanti investimenti in comunicazione…

E’ necessario molto di più.

E’ la dimensione esperienziale il vero elemento che può rendere forte un centro commerciale,. Attraverso l’attenzione alle esigenze della più ampia tipologia di bisogni e la presenza di servizi per diversi target si può arrivare a costruire l’esperienza per il Cliente DEL e NEL centro commerciale. Quest’ultima infatti non può essere solo la somma di diverse esperienze, ma deve rispondere a un disegno unitario, con una regia (nelle mani del gestore del centro commerciale) che non ha il compito di trovare il minimo comun denominatore tra gli operatori presenti, ma che deve essere in grado di valorizzare i singoli ma all’interno di una strategia di posizionamento unitaria.

Da questo punto di vista la strada da compiere a mio avviso è ancora molta. In primis nella fase di commercializzazione.

Non è sufficiente provare a riunire sotto un unico tetto le migliori insegne dei singoli settori (pensiamo proprio a IlCentro dove convivono i migliori esempi di fast fashion: Zara, H&M e Primark), ma sarà premiante un lavoro di ideazione di format innovativi, differenzianti, pensati per il target del centro commerciale (ma esiste in realtà oggi un centro commerciale che abbia definito il proprio target e che non si sia invece limitato a indicarlo nell’universo-mondo?).

Questo vale per a maggiore ragione per le food court dove non può essere solo la varietà a vincere, ma la ricerca di novità e il coraggio di proporre.

Sperimentare e innovare devono essere parte integrante non solo del retail moderno, ma anche di un moderno real estate.

Innovare anche nei servizi. Aree bimbi, aree di custodia per i propri amici a quattro zampe sono certamente degne di nota, ma esistono altri target? Gli anziani, ad esempio. IlCentro ne ha valutato le esigenze? Le dimensioni del mall certamente non li aiutano- ma non possiamo certamente mettere in discussione una scelta architettonica che ci offre uno dei centri commerciali più belli del Continente, per spazi e materiali!- ma la prima (opinabilissima) sensazione è che siano stati dimenticati nel progetto, più rivolto ad accarezzare le nuove generazioni, dimenticando una fetta consistente della nostra società (come, a onor del vero, fa buona parte del retail).

Ma non è mio obiettivo entrare nel dettaglio su questo tema.

Ai centri commerciali serve una nuova anima, più vicina al Cliente. Certamente questa evoluzione può essere più facile per le nuove strutture, e più difficile per i centri commerciali più datati, ma si tratta di una via obbligata per tutto il settore. Altrimenti, per i più deboli e lenti nel costruire la propria proposta attorno al Cliente, la concorrenza dei centri commerciali virtuali e dei nuovi mall, sarà sempre più forte e difficile da contrastare.

Si tratterebbe alla fin fine dell’applicazione in salsa retail della darwiniana selezione naturale. Se non fosse per gli impatti occupazionali di un simile scenario potremmo anche pensare che un settore arrivato oramai alla fase di maturità non dovrebbe stupirsi che sia arrivato oramai questo momento…

In sintesi: creare esperienze e innovare. Ecco i due verbi che il settore dei centri commerciali dovrebbe declinare giornalmente.

Concludo con una provocazione. La prima domenica di apertura de IlCentro è stata in concomitanza col cosidetto referendum sulle trivelle. Sui social si sono scatenati in molti lamentandosi di quante persone si fossero recate ad Arese per vedere il nuovo centro commerciale- magari attratti dai gadget distribuiti da tanti negozi- piuttosto che recarsi alle urne. Lasciando da parte per un attimo le ragioni del sì, del no e dell’astensione, pensavo quanto sarebbe rivoluzionario se i seggi elettorali venissero allestiti all’interno dei centri commerciali, che- lo si dice da anni- sono divenuti le nuove piazze di aggregazione domenicale per migliaia di nostri concittadini.

Può esserci un ruolo “civico” per i centri commerciali? Perché no?

Provocare potrebbe anche far rima con innovare…

@danielecazzani

Il paradigma #Netflix e una nuova #loyalty per la #GDO

L’arrivo di Netflix nel nostro Paese rischia, dicono gli esperti, di cambiare il panorama della televisione. Una sorte analoga potrebbe capitare alla GDO. Vediamo come e perché.

Per anni infatti la nostra vita domestica è stata scandita dal ritmo definito dalla televisione: a tavola alle otto per vedere il tg della sera; tutti sul divano alle nove per vedere insieme il film; domenica pomeriggio tutti incollati per seguire i risultati delle partite con la schedina in mano; e via dicendo.

Il palinsesto era fisso. Uguale per tutti. Immodificabile.

Baumgardner_c1958_Family_in_front_of_TV_set

Lo sviluppo del panorama televisivo ha portato poi alla moltiplicazione dei canali tv: pensiamo alla tv satellitare e digitale coi suoi innumerevoli canali tematici che si rivolgono non più alla massa di telespettatori ma, di volta in volta, agli appassionati di avventura, cucina, arte, sport…

Così facendo l’audience dei singoli canali si è certamente ridotta in termini assoluti, ma gli investitori pubblicitari hanno avuto la possibilità di mirare messaggi su target più definiti (e selezionabili).

Oggi però le nuove tecnologie permettono a ognuno di noi di costruirsi il proprio palinsesto personale. La diffusione del mobile poi ci permette di costruirlo e di fruirne ovunque.

Il prossimo arrivo di Netflix da questo punto di vista non è che l’ultimo passo di un percorso che si preannuncia ancor lungo e ricco di novità.

Fin qui però sembriamo fuori argomento, avendo parlato solo di televisione. Passiamo quindi alla GDO.

C’è un motivo per cui dovremmo pensare che la libertà che le persone hanno conquistato (o, meglio, scoperto) in questo ambito non sia estendibile ad altri comparti, ad altri momenti della giornata, come ad esempio la spesa?

Pensando alla prima televisione, quella col palinsesto unico, viene automatico un parallelo col palinsesto promozionale della GDO, composto da volantini rivolti a tutti i consumatori, con contenuti e date fisse. Tanto per fare alcuni esempi, a tanti sarà capitato di ricevere nella cassetta postale un volantino con offerte per il fai da te pur essendo però assolutamente incapaci di piantare anche un solo chiodo; oppure ricevere un volantino dedicato all’infanzia, peccato che i propri figli siano già all’università…

Negli anni la GDO ha sviluppato programmi di loyalty che attraverso la lettura e l’analisi dei dati relativi al comportamento d’acquisto dei Clienti, hanno permesso di raggruppare i Clienti in cluster in base a un numero via via crescente di parametri partendo dai basici dati di affluenza e importo scontrino (usati quali deboli indicatori della fedeltà all’insegna o al punto vendita).

Ora la numerica di questi dati e la capacità di leggerli è andata aumentando- parliamo di big data, no?- ma senza riuscire a incidere più di tanto sul vecchio approccio promozionale fatto da volantini con offerte pensate per la generalità dei Clienti (mass market è un termine freddo ma rende l’idea).

Il paradosso è che le promozioni, più ancora che i servizi (tasto dolente di tanta Distribuzione), sono uno dei momenti in cui la GDO potrebbe dimostrare maggiore prossimità ai propri Clienti; prossimità intesa come capacità di conoscerne le esigenze e attorno a questa costruire offerte e proposte mirate.

La verità è che questa potenzialità non è stata colta dai più. Vi sono come sempre eccezioni, con insegne che hanno costruito dei cluster di Clienti cui destinare particolari offerte, ma la realtà è che si tratta spesso di attività di scarso impatto e la cui ratio spesso sfugge (vi sono retailers che utilizzano parametri che portano a considerare “premium” quasi il 40% dei propri Clienti, ingannando così se stessi e i Clienti stessi).

Il nuovo paradigma e le nuove tecnologie propongono quindi alla GDO una nuova sfida, ancora più importante: ovvero la possibilità di disegnare un nuovo rapporto coi propri Clienti, in cui questi ultimi siano in grado di costruirsi un proprio palinsesto promozionale, ritagliato in base ai propri desiderata (ovviamente all’interno di regole definite).

I Clienti potrebbero accedere a uno “store promozionale” dal quale attingere a particolari promozioni, già attive o attivabili da particolari comportamenti degli stessi Clienti (determinati acquisti ad esempio).

Questa possibilità- che potrebbe essere riservata ai particolari target di clientela- permetterebbe a tanti operatori di cercare (trovare) una via d’uscita alla sempre minore efficacia promozionale delle attività mass market ora messe in campo.

Affinché ciò avvenga è però necessario che buona parte della GDO si accorga che i propri Clienti la sera non se ne stanno più sul divano in attesa del programma tv, ma sono oramai liberi di scaricarsi un film (scelto da un ampio portfolio) quando e dove vogliono, fruendone in qualsiasi momento delle giornata

Certo si tratta di concedere maggiore libertà ai Clienti e questo spaventa. Ma siamo certi che vi sia un’altra strada?

@danielecazzani

Il #mobile e la nuova socialità immobile: paure e opportunità per #GDO e #Retail

smartphone couch
smartphone couch

I retailers nostrani (e in particolare la #GDO) hanno coscienza di quale mutamento del Consumatore sia in atto grazie (anche) alla diffusione del mobile e alle nuove possibilità tecnologiche di connessione e interazione che i nuovi device abilitano?

Ma prima di dare una mia risposta (ovviamente opinabile) faccio un passo indietro. Non avrei che l’imbarazzo delle scelta nel proporre i più recenti dati sullo sviluppo del mobile nel nostro Paese, attingendo ai dati dell’Osservatorio Mobile & Marketing (www.osservatori,net) del Politecnico di Milano (www.polimi.it) piuttosto che ai dati Audiweb o di altri Istituti di Ricerca.

I mobile device infatti sono oramai parte integrante della nostra vita (a breve l’accesso al web dal mobile supererà quello dal PC…) e ci permettono una connessione continua (anche nei momenti interstiziali, un tempo vuoti di contatti, come, ad esempio, una poco piacevole coda in autostrada) e quindi un potenzialità di relazione prima inimmaginabile.

Schermata-2014-07-09-alle-10.12.33

Fatte salve alcune rare eccezioni, finora la reazione a questo mutamento di paradigma è stata la PAURA: paura di vedere svuotati i proprio negozi fisici a favore dei negozi virtuali (magari della concorrenza) tanto che showrooming è diventata una parola in grado di far rabbrividire tanti manager (senza che ne capiscano bene il motivo a onor del vero…). Tale timore dimostra, a mio avviso, un drammatico ritardo da parte di tanti retailers, innanzi tutto perché in realtà web e mobile non significano solo ecommerce, i cui tassi di crescita sono sì promettenti, ma la cui quota sui consumi reali, perlomeno di beni fisici- pensiamo al grocery- sono ancora fermi allo zerovirgola. Inoltre la moltiplicazione delle possibilità di relazione coi propri Clienti (o più genericamente Consumatori) dovrebbe essere visto con favore da parte di tanti operatori che per anni si sono riempiti la bocca dicendo che al centro delle proprie strategie v’erano appunto i Clienti, mentre in realtà l’ombelico strategico era cosa riservata alla funzioni Acquisti e Vendite e non certo al Marketing. Pensiamo solo alla GDO e al suo rapporto con l’IDM: v’è forse traccia del Cliente/Consumatore (e delle sue esigenze) nel paradigma organizzativo e commerciale con cui approcciano il mercato? O non è forse la sola pressione sui volumi di vendita a guidare le loro scelte (ecchissenefrega – mi si perdoni l’inglesismo- se il Cliente non chiede volumi ma solo un chiaro contenuto di qualità ai giusti prezzi)?

Lo sviluppo del mobile non è quindi una minaccia, anzi è un’incredibile opportunità. Ma NON un’opportunità per veicolare al consumatore altra pubblicità: anche in questo caso i dati di sviluppo del mobile advertising sono interessanti, ma infinitesimali rispetto al valore della pubblicità nel suo complesso. Lo smartphone e il tablet non sono altri schermi per spot di dubbia efficaci, ma piattaforme relazionali.

Relazioni che assumono una valenza ancora più forte se inquadrati nel più generico fenomeno dello sviluppo dei social network, che vede nel mobile il device preferito proprio perché SEMPRE al proprio fianco e- altro elemento assolutamente fondamentale- del tutto PERSONALE.

La nuova socialità aiutata e incentivata dal mobile è però una socialità immobile: è possibile restare in contatto con la propria cerchia di amici, partecipare ad eventi, commentare trasmissioni TV o Radio senza muoversi dal proprio divano. Questo aspetto, spesso sottovalutato a mio avviso, è fondamentale per i retailers che continuavano a vedere i propri store come naturali centri di aggregazione. Tale funzione non sarà certo cancellata dal social mobile ma gli store fisici potranno aggregare solo se saranno in grado di offrire ai propri Clienti ESPERIENZE e VALORI; in caso contrario la virtualità sarà sempre più premiata dai Consumatori, proprio perché li lascerà più liberi di definire i tempi delle Relazione. Ci vorranno certamente degli anni per erodere le quote del commercio tradizionale fisico, ma l’erosione sarà tanto più veloce quanto più i retailers saranno lenti nel capire come sia cambiato l’ambiente sociale in cui si muovono e come i Consumatori siano nuovi, non tanto per il naturale (fisiologico) cambiamento di gusti e tendenze, quanto per le nuove possibilità di approccio e confronto che i web prima e il mobile oggi mettono loro a disposizione.

Da questo punto di vista la #GDO si trova in una posizione ancora più critica, proprio perché spesso priva di contenuti sul fronte dell’Esperienza e dei Valori fruibili dai proprio Clienti nel punto vendita fisico: un’ennesima sfida per un settore che da tanti, troppi, anni sta rimandando il confronto coi propri errori e limiti, sperando inutilmente che una ripresa dei consumi (solamente attesa finora) permetta di rimandare a un lontano futuro un salto evolutivo nella propria organizzazione.

Nota finale: ho scritto questo post seduto sul divano, twittando di tanto in tanto in risposta ad amici che come me stanno seguendo una trasmissione TV, e interagendo con la mia pagina Facebook; ad un certo punto ho interrotto la stesura del testo per aprire la porta all’addetto che mi ha portato a casa la spesa ordinata online.

Non sono multiscreen, non sono multichannel: smettiamola di etichettare i Clienti/Consumatori con neologismi degni del miglior Asimov: continuiamo a chiamarli Carlo, Roberta, Marco… Persone insomma. Loro sono cambiate raccogliendo la sfida e le opportunità dei nuovi device e dei nuovi media. Retailers  e GDO possono dire altrettanto?

@danielecazzani

Le #banche, le false lacrime, lo #spot divertente e un #customerservice inesistente!

cb830656a352db77a41f3a834b80c8ba

Gli spot tv e radio della mia Banca sono davvero divertenti e simpatici: dopo tutto il testimonial è un noto comico e attore italiano e la trama è simpatica (vuoi che i protagonisti siano giovani bancari o, altrettanto giovani e ancor più sorridenti clienti…). Meno divertente e simpatico il modo in cui la mia Banca (ma sono in procinto di dire ex Banca) tratta i propri clienti. Il fatto che brevemente racconterò è molto, molto illuminante su quanto la crisi del sistema bancario tradizionale sia frutto di una totale mancanza di attenzione verso i propri clienti che, non c’è da stupirsi, sempre più facilmente optano per soluzione di internet e mobile banking…

Cos’è successo quindi. Una semplice comunicazione nella casella di posta del servizio di internet banking (lo confesso: causa lavoro, mi reco in filiale al massimo due o tre volte all’anno; ma la frequenza potrebbe essere maggiore se la filiale non rispettasse orari da anni settanta e fosse aperta anche il sabato (mamma mia, che dico!?). L’oggetto della comunicazione era “cambio iban”. Appena ho letto l’oggetto ho pensato “che seccatura, dovrò comunicarlo al mio datore di lavoro e a chi altro???”.

Apro la comunicazione e scopro che il tema non è il cambio dell’IBAN ma addirittura la CHIUSURA DELLA MIA FILIALE! Come, chiude la mia filiale e la Banca che mi tampina con lettere di vario tono durante l’anno per approfittare di questo o quel finanziamento non si degna di inviarmi alcuna comunicazione scritta o email- magari con un avviso sul bancomat in occasione di uno dei miei prelievi, ma mi rendo conto di chiedere troppa intelligenza!- confidando che fortunosamente pochi giorni prima della chiusura io apra la posta tramite l’internet banking per apprendere la lieta novella. Gentilmente la Banca mi avvisa che il conto è stato trasferito presso altra filiale in una vicina città. Non hanno nemmeno pensato di propormi la scelta tra più filiali: caso vuole ce ne sarebbe una a pochi metri dall’ufficio di mia moglie, ma, no, sarebbe troppo facile così; molto meglio farmi percorrere chilometri per recarmi in un quartiere sempre al di fuori dei miei tragitti…

La sensazione è quella di essere un pacco (e un numero) nelle mani del peggior fattorino, senza alcuna voce in capitolo… Devo ammetterlo: non è una bella sensazione soprattutto considerando che a trattarmi così è l’Istituto cui ho affidato i miei risparmi…

Non ho intenzione di approfondire il caso specifico, ma la riflessione è naturale: chiudere una filiale senza avere l’accortezza di avvisare in modo tempestivo ed efficace i propri Clienti è un’assurdità che non può essere coperta nemmeno dallo spot tv più divertente e simpatico. La fiducia dei Clienti si costruisce nel tempo, non in trenta secondi sui principali network. La domanda è se quella Banca abbia un Marketing, un Customer Service o qualche funzione che tra i propri obiettivi abbia il Cliente (e non intendo con questo la “spremitura” del Cliente!). La risposta che mi sono dato è evidente, ma è per me altrettanto evidente come le lacrime sulla crisi di tanti istituti bancari (talvolta, sia ben inteso, lacrime da coccodrillo) siano in prima battuta causati dalla totale assenza di cultura del Cliente non tanto dei vari CEO o Board, ma, più prosaicamente, di un Management chiuso in torri di cristallo e uffici di marmo e legno pregiato che non hanno mai incrociato lo sguardo di un Cliente in cerca solo di sicurezza, chiarezza, rispetto e una relazione che vada al di là dell’estratto conto mensile.

Vi sono praterie di opportunità ancora non colte nel settore bancario… ma bisogna avere il coraggio di uscire dalla proprie tenute per conquistare nuove terre. Purtroppo il sistema bancario italiano sembra davvero troppo pigro e immobile come i mattoni d’epoca delle proprie prestigiose sedi per avere il coraggio di mettere davvero al centro delle strategie i propri Clienti (anche nella realtà, oltre che nei titoli dei tanti convegni).

@danielecazzani

#Discount 3.0: il futuro del #discount in una società in evoluzione

VIGNETTA 1

LO STATO DELL’ARTE

In una società che sta vivendo una profonda evoluzione sociale che impatta fortemente anche sugli stili di vita e di consumo, è necessario prendere atto che il discount del futuro potrà e dovrà essere ben diverso da quello che finora abbiamo conosciuto, e questo nonostante negli ultimi anni questo format abbia registrato indubbi successi, incontrando il favore dei consumatori (in questo certamente aiutato dalla contingente situazione di crisi che- almeno questo è l’auspicio dei più- dovrà prima o poi terminare anche nel nostro Paese, ma i cui effetti sulla struttura della nostra società potranno sopravvivere ancora per anni).
In Italia la crescita del discount (sia a valore che a volume) sta rallentando nei primi 3 mesi del 2012 come testimoniano i dati SymphonyIRI

iri discount 13 e 12

iri volume e valore discount

Se allarghiamo la prospettiva agli ultimi anni in effetti possiamo notare come l’incremento della rete non abbia coinciso con un aumento della quota sui consumi LCC che resta di poco superiore al 10%.

quota discount

La spiegazione di questa mancata correlazione tra quota e crescita della rete è in parte imputabile alla progressiva saturazione del mercato (non solo del format discount ovviamente): i dati esposti possono quindi essere visti come indicatori di una minore “qualità” delle nuove aperture (scelta di location e bacini con potenziali poco più che discreti in quanto già presidiati da altri competitors o formati).

Come detto, la crescita degli ultimi anni è stata certamente “aiutata” dal contesto economico, ma sarebbe improprio dire che i discount ne abbiano semplicemente “beneficiato”, dato che tutti i principali players del settore hanno messo in campo strategie di evoluzione sul fronte dell’offerta e dei servizi che hanno saputo incontrare il favore dei consumatori in un momento tanto delicato. Ma è indubbio, come testimoniano numerose indagini, che i discount siano per molti consumatori un “canale rifugio”, ovvero un modo per fare fronte al contesto modificando le proprie preferenze di spesa alla ricerca di un maggiore risparmio.

strategie risparmio nielsen

strategie risparmio nielsen 2

In sintesi, qual è stato il percorso evolutivo dei discount? Senza soffermarsi in eccessive precisazioni (troppe e con ben distinte strategie sono le insegne operanti sul mercato italiano), voglio suddividere la vita dei discount in tre principali passaggi:

  1. PRICE! Fase caratterizzata da una forte enfasi sui prezzi, con layout molto semplici, un assortimento non particolarmente ampio né tantomeno profondo, e nessun tipo di servizio;
  2. MORE GOODS, BUT ALWAYS CHEAPER! Un assortimento più ricco– c’è chi intraprende, più o meno prudentemente, la strada delle private label e chi invece inserisce le marche leader– i punti vendita divengono meno “austeri” e si iniziano attività di      comunicazione di tipo promozionale più classiche, abbandonando in alcuni casi l’approccio puro every day low price;
  3. SERVICES AND PROMOTIONS! Si introducono i reparti freschi e assistiti, per aumentare il      servizio alla clientela ampliando così la sovrapposizione competitiva rispetto ai supermercati; si arricchisce l’offerta con prodotti non food– tale aspetto per alcuni retailers diviene addirittura la principale value proposition per il cliente- e aumentano gli investimenti in comunicazione, soprattutto promozionale.

tabella discount

Partendo dalla considerazione che la crescita di questi anni è stata aiutata anche da una certa distrazione e sufficienza con la quale gli altri formati (supermercati in primis) e l’Industria hanno osservato l’evoluzione in atto nei discount, la domanda da porsi è quale debba essere il prossimo passo del format.

GLI ERRORI DA EVITARE E IL FUTURO DISCOUNT 3.0

Il formato quindi è cresciuto, sia per l’evoluzione del contesto esterno ma soprattutto per la capacità che ha avuto di modificarsi (e migliorarsi)nel corso degli anni. Il rischio che si corre oggi, però, è che il percorso evolutivo del formato inizi a somigliare troppo a quello dei supermercati…

Per inseguire i volumi, infatti, negli ultimi tre anni la pressione promozionale  è aumentata, soprattutto in alcuni comparti (pensiamo ai freschi e al freddo, quelli in qualche modo più esposti alla concorrenza trasversale degli altri formati, dove la pressione media è raddoppiata in soli 2 anni). Tale scelta porta con sé delle ovvie conseguenze: per i discount in cui la quota del prodotto di marca è ancora elevata, ciò comporta una pericolosa erosione dei margini;  per i discount in cui la marca commerciale ha un ruolo cruciale, un’eccessiva pressione promozionale rischia di alterare la strategia di costruzione della scala prezzi, sia quella reale che- cosa ancora più importante- quella percepita dal consumatore/cliente con conseguenti rischi di disorientamento.

Ma al di là di queste ovvie considerazioni sarebbe sufficiente volgere lo sguardo agli altri canali- ipermercati in primis- dove la sempre maggiore pressione promozionale (pari oramai al 30%) non è andata di pari passo con un miglioramento dei volumi, anzi ha drogato il mercato trasformando i consumatori in cherry pickers seriali.

Riempire le cassette delle lettere di volantini potrebbe non essere la scelta migliore per il futuro...

Avendo ben presente questo quadro e le sfide del futuro, a mio avviso, il discount è in grado di disegnare nuove strade di crescita, che siano sostenibili non solo nel breve ma anche nel medio e lungo periodo.

Il primo passo da compiersi è pertanto perdere la mera connotazione di “canale rifugio”: il discount, senza perdere l’atout della convenience, dovrà compiere un percorso che lo porti a mettere al centro delle proprie strategie il cliente, ispirandosi- absit inuria verbis vista la diversità dei settori- a quanto fatto da Ikea, che ha investito  molte risorse sul cliente, sul miglioramento della sua shopping experience, su un’integrazione intelligente della propria offerta merceologica (pensiamo ai ristoranti) e su una serie di servizi e attenzioni che hanno lavorato non solo su aspetti tangibili (il rapporto qualità/prezzo dei propri prodotti è rimasto un must) quanto su elementi più intangibili, emozionali e sociali.

Ciò ovviamente non significa porre in secondo piano l’assortimento, che resta la variabile critica di partenza, quella attorno alla quale costruire la strategia.

Pertanto i discount dovranno usare strategicamente gli assortimenti attraverso un’accorta attività di category management- monitorando i nuovi stili di consumo e presidiandone intelligentemente le nuove tendenze- migliorando l’appeal del punto vendita, organizzando in modo più distintivo la “rappresentazione” della propria offerta merceologica (per citare un termine caro al Prof.Lugli dell’Università di Parma e ben spiegato nel suo recente libro “Troppa scelta”), facendo attività di branding sui propri marchi, dialogando coi territori per divenire il nuovo e vero proximity store (andando ben oltre mere attività di sponsorship) e implementando distintive attività di loyalty marketing che sappiano essere distintive e contribuire al branding d’insegna. Vediamo però rapidamente alcuni di questi punti, partendo dall’ultimo citato.

E’ oramai maturo il tempo che anche i discount varino attività di customer relationship management: il fatto che nei primi mesi del 2013 i comparti merceologici dei discount che stanno registrando i maggiori incrementi (in valore) siano il fresco e l’ortofrutta (rispettivamente +5,2% e + 11,7% in base ai dati InfoScan Census di SymphoniIRI) è un’ennesima spia di come parlare di fidelizzazione della clientela discount non debba più sembrare un’eresia.

Ciò non significa che sia sufficiente dotarsi di una carta fedeltà (i portafogli dei consumatori italiani ne sono già pieni…), quanto dotarsi di una strategia di relazione col cliente chiara e diffusa (ovvero condivisa da tutte le risorse umane e parte integrante di qualsiasi scelta dell’insegna), che parta dagli assortimenti e dai servizi e definisca percorsi di fidelizzazione e relazione nell’ambito dei quali siano chiari e dichiarati gli obiettivi dell’insegna e i benefici tangibili per il cliente, in un rapporto trasparente e che non può non tenere conto dell’approccio multicanale del consumatore italiano, oramai molto più attento e intelligente nella fase di acquisto e sordo alle sole voci dell’advertising tradizionale. Le risorse andranno pertanto dirottate dalla classica pubblicità e investite nella relazione con la propria clientela (reale o potenziale).

Ad esempio. Hanno ancora senso operazioni a premio con in palio set di padelle o altri utensili di cucina? Ci si è mai chiesti se tali operazioni costituiscono un effettivo valore per il cliente o non sono che un’appendice a una scelta di consumo del cliente determinata da altri elementi? E’ vero che spesso tali attività spesso per semplici “copia e incolla” anno dopo anno, per l’ossessiva analisi delle controcifre d’affari, ma mi chiedo provocatoriamente se abbia senso gestire le strategie commerciale di un discount come una fotocopisteria.

Sarebbe certamente più premiante investire in attività di special (social) promotion in grado di attivare in modo più dinamico i propri bacini d’utenza e clienti con effetti anche nel medio e lungo termine.

Anche sul fronte degli assortimenti, bisogna avere la capacità di seguire l’evoluzione della nostra società, abbandonando cliché e stereotipi del cliente-tipo che non hanno più motivo d’esistere.

Solo a titolo d’esempio citiamo tre dati che testimoniano, se ce ne fosse bisogno, l’emergere di nuove tendenze di consumo e la nuova struttura della società italiana:

  • a Milano il secondo cognome più diffuso è Hu;
  • 8,5 milioni di Italiani si dichiaranao vegetariani (nel 2000 erano 1,5 milioni);
  • il giro d’affari del cibo halal in Italia è di 5 miliardi euro.

Sapere leggere tali modifiche significa avere la capacità di porre sui propri scaffali il prodotto giusto proprio nel momento in cui il cliente lo sta cercando, acquisendo un vantaggio competitivo nei confronti degli altri retailers.

Questo arricchimento dell’offerta- in cui lo sviluppo della marca commerciale continuerà ad essere centrale- non dovrà però comportare la perdita della “sobrietà” degli scaffali, perché inflazionare i punti vendita di prodotti inutili è un errore già compiuto da altri formati che rischia di essere un groviglio da cui risulta poi difficile districarsi.

Contestualmente la comunicazione nei punti vendita dovrà divenire elemento centrale, per essere non tanto elemento di grido e distrazione per il cliente, quanto strumento guida nella lettura dell’offerta. Sfruttando i nuovi device a disposizione dei consumatori e il loro nuovo approccio all’atto d’acquisto, è ora possibile sviluppare attività di socializzazione degli acquisti, per non dimenticarsi di come il vecchio passaparola sia da sempre il più potente mezzo di comunicazione a nostra disposizione.

In tale ambito non si intende disconoscere il ruolo di traino che il non food può avere, ma è importante non correre il rischio che l’offerta non alimentare di carattere promozionale diventi distraente rispetto all’obiettivo principale. I discount trarrebbero sicuramente vantaggio, nel medio termine, dall’evitare di vendere cose inutili ai propri clienti…

In conclusione, riagganciandoci al tema della fidelizzazione è necessario prendere atto che non esiste più “IL” consumatore, ma migliaia di consumatori, che in questi anni stanno attuando una spending review dei propri stili di vita e di consumo.

Se i discount sapranno prendere atto di questa evoluzione e fare evolvere un approccio al mercato e un paradigma organizzativo che finora è stato certamente premiante, lavorando su assortimenti, relazione col cliente e strategie commerciali (scegliendo ad esempio se perseguire attività di edlp o hi-low o un chiaro- per il cliente- bilanciamento tra questi due estremi) è facile prevedere che tale format saprà affermarsi ancora di più negli anni a venire- erodendo quote a formati che faticano a cambiare pelle come ipermercati e supermercati- a prescindere da quale sarà il contesto economico contingente.

@danielecazzani