#HUMANRETAIL

Non è più tempo per ALIBI (nonostante ve ne sarebbero molti in questo periodo..).

È tempo che il Retail si focalizzi sui propri CLIENTI- ricordandosi l’errore fatto negli anni passati in cui ha lasciato questo vantaggio competitivo ai player dell’online- non ascoltando chi dice che la “CUSTOMER CENTRICITY” sia una chimera (affermazione che sembra una versione moderna della favola del lupo e dell’uva di Esopo).

Il Retail deve concentrarsi anche sulle sue PERSONE, tra le quali si nascondono TALENTI e passioni che non attendono altro che di essere ascoltati e attivati.

La Distribuzione si trova di fronte a un bivio importante che richiede scelte e CORAGGIO: non è più tempo di tattici 3×2 o sottocosto ma di una profonda INNOVAZIONE, non tanto digitale quanto nei propri manager e nelle proprie STRATEGIE.

Nel video le mie considerazioni al termine del Marketing & Retail Summit di Milano che,come sempre, è stato un ricchissimo di spunti e stimoli.

@danielecazzani

Una #GDO fuori forma, una vecchia trapunta e nuove antenne di #marketing (con un occhio a #Google)

E’ legittimo che la GDO si lamenti per la difficile e lenta ripresa dei consumi? Certo! Lo è meno se nel farlo si lasciano per strada opportunità di vendita…

Prendiamo l’esempio del mese di gennaio. Dopo la grande abbuffata di dicembre (le vendite hanno registrato un segno positivo dopo una partenza del mese sottotono) gennaio sembra essere partito col piede sbagliato, in territorio negativo come registrato da A&F e Nielsen.

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gennaio

Non ho l’ambizione di proporre in poche righe risposte alla domanda “cos’è successo?”, ma segnalo come i numeri negativi arrivino in un inizio anno caratterizzato da forti azioni promozionali da parte della GDO: sconti gridati, come il “30-40-50%” di Esselunga o le “Grandi Marche al 50%” di Carrefour tanto per citare due big del settore.

Queste azioni sono spesso supportate dalla classica “Fiera del Bianco”: promozione le cui origini si perdono nella notte dei tempi…

Eppure a gennaio vi è un grande trend che pare essere stato ignorato dai più.

Gennaio è infatti il mese delle buone intenzioni e del rammarico per gli eccessi alimentari durante le tavole natalizie.

E’ il mese delle iscrizioni in palestra e dell’inizio delle diete (certo, febbraio è tutta un’altra storia…).

Non si tratta di sensazioni ma di fatti. Se non riteneste sufficiente chiedere al collega o all’amico, basterebbe guardare il seguente grafico che identifica l’andamento delle ricerche su Google a livello mondiale per “get fit” e “lose weight” (i numeri sono poi confermabili anche a livelli di singola country) per avere conferma di quanto detto.

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Ebbene, a fronte di questa domanda di benessere e leggerezza la GDO come risponde? Con ipersconti sui soliti prodotti ricchi di grassi e zuccheri e con qualche lenzuolo…

Così una domanda di benessere che va oltre la palestra- una ricerca sul mercato britannico (invito chi vuole a leggere l’articolo citato in calce a questo post) dimostra infatti come vi sia un’impennata di consumi anche di healty food– resta senza risposta, perché inascoltata da un settore che troppo spesso torna vittima dei propri tic promozionali (vedasi la citata Fiera del Bianco).

Per concludere, rapidamente, vi sono molte opportunità da cogliere là fuori, ma bisogna avere antenne pronte e curiose; insomma un nuovo marketing che sia in grado di scaldare i fatturati della GDO più di una vecchia trapunta…

Ready?

@danielecazzani

PS

Per chi fosse interessato ecco l’articolo di The Economist che ha “ispirato” questo contributo:

https://www.economist.com/news/business/21734459-while-low-cost-offerings-democratise-gym-business-fancy-ones-are-raising-bar-gyms

Due volantini, il potere d’acquisto delle famiglie italiane e il ruolo sociale della GDO

Nel novembre 2013 (vedi qui https://newmarketingretail.com/2013/11/20/quando-i-supermercati-imitano-male-i-discount-che-imitano-meglio-i-supermercati-e-gli-ipermercati/ ) avevo discusso della “rincorsa” ai discount da parte di iper e super preoccupati di accreditarsi come altrettanto convenienti agli occhi dei consumatori.

Il punto di partenza dell’analisi era stato un piccolo volantino di Esselunga.

Oggi mi è capitato tra le mani un volantino simile che mi porta ad alcune riflessioni.

Nel 2013 (quasi quattro anni fa) la promessa era “una spesa completa a meno di 15 euro” e presentava un paniere (opinabile, come argomentavo nel post) di 20 prodotti per un importo complessivo di 14,78 euro.

Il volantino di oggi (sotto la promessa “Tutti i giorni, il più conveniente” che identifica i prodotti primo prezzo sugli scaffali dell’insegna di Pioltello) dichiara invece “una spesa completa a meno di 20 euro”. Il paniere oggi è di 25 articoli e l’importo complessivo è di 19,99 euro (mi chiedo, a margine: che fine faranno questi “giochetti” coi 99 centesimi quando saranno eliminate le monete da 1 cent di euro?).

Pignolo come sono mi sono preso la briga di confrontare i due volantini e annotare su quello attuale i prezzi dell’edizione 2013 come potete sotto leggere (ho artigianalmente riportato a penna il prezzo 2013 a fianco del prezzo attuale, spero in modo leggibile).

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Partendo dalla nota che i panieri risultano sostanzialmente omogenei, risulta evidente come in 4 anni i prezzi della maggior parte dei prodotti confrontabili non siano aumentati, risultando in alcuni casi addirittura diminuiti.

Pur confermando tutti i miei dubbi sull’efficacia di questo strumento e messaggio– altre sono, a mio avviso, le leve di contrasto verso i discount come già argomentavo nel 2013- non si può non evidenziare come avere mantenuto negli anni stabili i prezzi dei prodotti si sia tradotto in un importante fattore di tutela del potere d’acquisto dei consumatori.

Oltre ad Esselunga azioni simili sono state messe in atto da altri importanti player del settore.

Per quanto sia vero che gli ultimi due anni sono stati addirittura caratterizzati da una leggera deflazione, sarebbe sbagliato non riconoscere questo importante risultato e contributo della GDO alla condizione di vita delle famiglie italiane.

Ciò detto la Distribuzione vede difficilmente riconosciuto questo proprio ruolo sociale.

Anzi, a volerla dire tutta, la Distribuzione gode spesso di cattiva stampa, additata come speculatrice (pensiamo alle ricorrenti polemiche sui prezzi dell’ortofrutta dal campo al supermercato) e con debole capacità di lobbying su temi quali la tracciabilità dei prodotti, l’etichettatura, la normativa fiscale (pensiamo al tema IVA) e via dicendo (fatto salvo alcune iniziative di singole insegne che sono state meritoriamente in grado di portare sul tavolo della politica temi importanti).

Mi chiedo come questo sia possibile.

La Distribuzione rappresenta un importante settore dell’economia del Paese e ha peculiarità e ruoli (pensiamo alla promozione dei prodotti made in Italy e certificati) che nessun altro attore potrebbe svolgere con altrettanta efficacia (certo migliorabile).

Forse la sua frammentazione e la sostanziale debolezza degli organi di rappresentanza della Distribuzione ne sono una prima spiegazione, ma sarebbe interessante aprire un dibattito sul tema.

Chi vuole cogliere questo spunto?

@danielecazzani

Il futuro dei discount tra prossimità, relazione e omnicanalità

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Nel 1992 la società francese Sodiaal insieme a Kraft si affacciò sul mercato italiano con una poderosa campagna pubblicitaria (oltre 20 miliardi di lire per la sola tv!) per il lancio del nuovo yogurt Yoplait.

Il claim della campagna era: “Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?” (se non la ricordate guardate qui: https://www.youtube.com/watch?v=N7bwGIrA2PI )

La risposta dei consumatori italiani fu chiara e niente affatto positiva per Yoplait. Già nel 1993 gli investimenti pubblicitari furono bloccati e pochi anni dopo il prodotto venne ritirato dal mercato italiano (pur rimanendo un prodotto di successo su tanti altri mercati).

Potremmo porci la stessa domanda per i discount: ma con tutti i discount che ci sono c’è ancora spazio per altri discount?

E’ indubbio che la formula discount abbia incontrato negli ultimi anni il favore del consumatore, sia come riflesso della crisi dei consumi sia per merito di strategie volte a migliorarne ambiente, assortimenti e servizi, oltre che a un rafforzamento delle reti dei 3 principali attori (Eurospin, Lidl e MD-LD) tant’è che alcuni di questi stanno cercando di togliersi l’etichetta di discount provando ad accreditarsi come supermercati.

Al di là di questioni terminologiche- che non mi appassionano…- torniamo alla domanda.

La quota dei discount in Italia è cresciuta negli ultimi anni e si prospetta possa crescere ancora di alcuni punti percentuali in primis perché la presenza territoriale non è omogenea nel nostro Paese, con quote più basse nei territori ove è più forte la domanda (e la concorrenza of course).

Quale potrà essere quindi il ruolo del discount all’interno di una GDO sempre più in fibrillazione con conto economici critici e alle prese con test di nuovi format- come testimoniano ad esempio i percorsi intrapresi di Carrefour, Auchan- ristrutturazioni assortimentali e della rete commerciale, e che vede all’orizzonte l’arrivo di Aldi e di Leader Price?

Riprendendo quanto avevo già anticipato nel lontano aprile 2013 (https://newmarketingretail.com/2013/04/15/discount-3-0-il-futuro-del-discount-in-una-societa-in-evoluzione/ ) a mio avviso le leve che potranno assicurare il successo di questo format sono tre:

  1. la prossimità,

  2. la relazione e

  3. l’omnicanalità.

La prima si declina nella scelta di location non solo periferiche, in layout chiari e punti vendita belli oltre che funzionali; ma anche in assortimenti mirati, attenti ai territori, con focus sui freschi, e un chiaro posizionamento di prezzo senza cedere alla tentazione della promozione da cui gli altri format (iper e super) stanno con difficoltà cercando di disintossicarsi.

La seconda leva costituisce una sfida che nessuno degli attuali leader di mercato ha saputo o voluto cogliere. Pur avendo copiato molti dei “tic” dei supermercati (l’eccessiva pressione promozionale in primis) infatti per ora i discount si sono ben guardati da investire nella conoscenza del cliente, che costituisce il punto di partenza partenza per la costruzione di una relazione.

E’ certamente vero che lo scontrino medio del cliente discount è decisamente inferiore rispetto a quello del cliente di un ipermercato, ma a bene vedere non è poi molto distante da quello del cliente di un super.

Perché quindi non investire su questo tema e dotarsi di strumenti per monitorare il comportamento del cliente e in base a questi dati perfezionare azioni promozionali, proposta di servizi ecc? Non dico che iniziare questo percorso sia facile, ma la strada per il miglioramento raramente lo è..

Infine l’omnicanalità. Lasciando da parte la paura per Amazon & co. che tanto spaventa (e spesso paralizza) la GDO nostrana, non esistono motivi per ritenere che il cliente di un discount non si attenda da questo una coerente presenza multicanale, a partire ad esempio da un servizio click & collect (lo vogliamo chiamare drive?) tanto quanto la attende/pretende dagli altri format (taluni in grosso ritardo sul tema).

Certo l’assortimento di un discount è ben più ristretto rispetto a quello di un iper, ma non è l’ampiezza dell’assortimento a rendere necessaria questa scelta: è la sola osservazione della realtà e delle mutate esigenze e attese dei consumatori.

Alla domanda che ho posto all’inizio io quindi rispondo con un sì. C’è spazio per nuovi discount, ma che siano di prossimità e sempre più vicini al cliente e alle sue mutate esigenze.

I discount in conclusione hanno la possibilità di crescere ancora, disegnando un proprio percorso evolutivo che senza ripetere gli errori passato degli altri format possa definitamente consolidarlo come attore principale del mercato, non più come una cenerentola guardata di sottecchi dai big della distribuzione (se ve ne fosse bisogno il caso inglese da questo punto di vista dovrebbe costituire un efficace alert http://www.gdonews.it/2017/06/12/il-discount-fa-paura-a-tutti-ecco-cosa-sta-succedendo-in-inghilterra/ ).

@danielecazzani

La forza rosa (e il futuro) del Retail: le donne.

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L’occupazione femminile nel nostro Paese continua a registrare un divario di oltre 18 punti rispetto a quella maschile (47,2% contro il 65,5%), ciononostante, in questo contesto, il Retail è riuscito più di altri ad offrire nuove opportunità d’impiego grazie al forte sviluppo che ha registrato negli ultimi anni.

Dal 2005 al 2015 infatti l’occupazione del settore è cresciuta e a trainarla è stata la componente femminile, per una quota ben superiore all’50% come registrato dall’ISTAT.

Si assiste così a un sempre maggiore femminilizzazione del settore (che già da anni registra dati superiori a quelli di Industria, Agricoltura e altri settori).

Oltre al dato quantitativo è da sottolineare anche quello qualitativo, perché la crescita ha visto un ruolo importante delle giovani laureate.

Se si pensa a donne e Retail, però, una delle prime immagini che può sovvenire alla mente è quella di una cassiera del supermercato o di una commessa in un negozio di abbigliamento.

Diciamo subito che si tratta di un’immagine limitante e parziale, dalla quale voglio però partire per sottolineare, se mai ve ne fosse bisogno, l’assoluta centralità di quei ruoli.

La gestione della relazione col cliente è un elemento centrale nel Retail moderno. Ebbene, buona parte di quella relazione- con buona pace per chi pensa che il Retail e i consumatori siano già tutti nell’era di Amazon & C.- si svolge all’interno di negozi fisici, nei quali la commessa e la cassiera svolgono un ruolo potenzialmente determinante, per quanto spesso non riconosciuto (se non a parole) o taciuto.

Ma come sopra accennato questa visione rischia di essere limitante poiché numerose donne nel retail ricoprono oramai ruoli di primaria importanza.

Cito solo a titolo d’esempio, Rossella Brenna, Direttore Vendite di quel fenomeno della distribuzione rappresentato da Unes/U2 del vulcanico Mario Gasbarrino, piuttosto che Eleonora Graffione Presidente di Coralis, che ha saputo dimostrare come anche i piccoli distributori possano fare le cose in grande se hanno la capacità di mettere al centro il cliente.

Ma come non citare in questo contesto la direttrice di Gdoweek e MarkUp, Cristina Lazzati, autentico punto di riferimento di tutto il settore che con intelligenza e visione, aiuta migliaia di manager a mantenere gli occhi aperti sul presente- sulle evoluzioni degli stili di vita, dei consumi e dei consumatori- per poter così cogliere le opportunità del futuro?

Ma potrei andare avanti a citare agguerritissime buyer, instancabili area manager, talentuose store manager, attente hr manager ecc che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere lungo il mio percorso professionale.

Esiste una specificità del contributo femminile al retail? Personalmente ne sono convinto, ma non sono uno sociologo quindi non mi addentro in questo delicato tema.

Penso però che i manager del retail farebbero bene a cancellare dalle proprie menti le stereotipate immagini della consumatrice stile “casalinga di Voghera”- che sento ancora citare (sic!)- per accorgersi che le donne in questi anni hanno fatto, non senza difficoltà, molti più passi in avanti di quanti ne abbia fatti il Retail (ma molti ne restano da compiere) e che loro energia, visione e testarda determinazione costituiscono un metodo che sarebbe importante fare propri anche all’interno delle proprie organizzazioni.

Infine un invito e uno spunto al Retail e alla Distribuzione tutta.

Innanzi tutto a non pensare alla Festa delle Donne solo come a un momento per qualche la vendita incrementale di mimose, torte e profumi

Perché- ecco qui lo spunto- non organizzare per il prossimo anno a un momento di incontro dedicato al ruolo delle donne nel Retail (parlando dei passi in avanti che si possono ancora fare per abbattere barriere e valorizzarne appieno le potenzialità) e oltre il Retail (la dimensione personale e familiare è altrettanto importante di quella professionale e anche in questo ambito un Retail cosciente del proprio ruolo sociale potrebbe fare molto di più), mettendo sul palco non qualche sociologo, ma proprio quelle commesse, store manager, e donne che ogni giorno sono le protagoniste del Retail?

Perché, ne sono convinto, le donne non solo costituiscono la forza rosa del Retail di oggi ma ne saranno anche il futuro.

@danielecazzani

NOTA FINALE

Nella foto un bassorilievo del primo secolo D.C. che rappresenta una donna in una bottega dell’antica Roma. 

#MDD: UN VOLANO PER LE ECCELLENZE #AGROALIMENTARI DEL #MADEINITALY

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L’Italia da anni si conferma come il Paese europeo col maggior numero di prodotti certificati DOP, DOC e SGT, arrivati alla ragguardevole cifra di 814. Questo dato conferma la ricchezza e la pluralità della nostra produzione agroalimentare che è parte importante dell’export madeinitaly nel mondo- con una quota del 21% sulle esportazioni agroalimentari- che continua a segnare importanti tassi di crescita (poco meno del 10% nell’ultimo anno) come evidenziato dall’ultimo rapporto Ismea Qualivita (www.qualivita.it)

L’importanza di queste produzioni si conferma anche sulla tavola degli italiani che dimostrano di apprezzare i prodotti certificati, con una leggera crescita dei consumi che va comunque integrata in un contesto di mercato di generale compressione degli acquisti food.

Se quel che serve per migliorare ancora l’export- ricordiamoci infatti che pur potendo vantare cifre in crescita l’export food & wine tricolore è di gran lunga inferiore ai risultati della Germania, il che è tutto dire…- è la capacità di fare sistema e promozione all’estero, attivando efficaci canali retail (non dimenticandoci che anche l’e-commerce potrà aiutare questa crescita), sul fronte interno certamente vi sono ampi margini di manovra per quanto concerne la comunicazione e il marketing di questi prodotti.

Di per sé le sigle DOP, DOC e SGT si basano su disciplinari di produzione alquanto rigidi e importanti, con rigorose filiere di controllo, ma di tutto questo, spesso, ben poco arriva al consumatore.

E’ come se questi prodotti- e chi li distribuisce- si accontentasse di dire al consumatore “accontentati del marchio, al resto abbiamo già pensato noi”.

Credo invece che viviamo un’epoca in cui il consumatore/cliente pretende (e premia) la trasparenza, l’apertura, il racconto.

Ma questo aspetto spesso si scontra con la pulviscolare realtà dei produttori– fatta di piccole realtà che non hanno forza di entrare in contatto col consumatore- e con consorzi di tutela spesso bravi nella gestione della filiera interna, ma poco aperti ed efficaci verso l’esterno, verso il consumatore (penso ad alcune imbarazzanti pubblicità del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano, due autentici monstre del nostro panorama agroalimentare, che in trenta secondi con scelte comunicative quanto meno discutibili hanno banalizzato secoli di storia…).

In questo contesto ritengo che la Distribuzione possa svolgere un ruolo importante per lo sviluppo del mercato interno, attraverso la leva dei propri prodotti mdd.

I dati recentemente diffusi a Marca, hanno infatti evidenziato una crescita dei prodotti premium, all’interno dei quali un ruolo importante lo giocano- oltre ai prodotti bio e ai nuovi prodotti “con” e “senza”- i prodotti certificati.

Per questo motivo sono confidente che la Distribuzione attraverso il volano dei propri prodotti a marchio possa ancora di più avvicinare il consumatore/cliente ai prodotti DOP, DOC e SGT, presentandoli, valorizzandoli, promozionandoli e raccontandoli non uno per uno, ma all’interno di una strategia più ampia che sia in grado di valorizzarne l’effetto corale dell’offerta, non il singolo attore/prodotto.

Il brand MDD diverrebbe così l’ombrello sotto il quale ricomprendere una serie di prodotti di per sé unbranded, conferendo loro identità e riconoscibilità. La “firma” del distributore diverrebbe inoltre un ulteriore elemento di garanzia agli occhi del consumatore/cliente.

Nel contempo la Distribuzione dovrebbe, potrebbe, aiutare i consorzi a scendere dallo scranno per andare verso il consumatore/cliente aprendo le porte dei produttori, facendo conoscere cosa si cela dietro un marchio, anche sorpassando la retorica fine a se stessa del madeinitaly (cosa ne sarebbe ad esempio del nostro latte madeinitaly senza la forte presenza di comunità sikh nella pianura padana?) in uno sforzo di trasparenza certamente non facile, ma oggi quantomai necessario.

Infine, lo sviluppo del prodotti certificati significa anche sviluppo dei territori e tutela delle competenze, delle storie e delle professionalità che sono alla base di quelle eccellenze che siamo tutti bravi a lodare ma di cui spesso ignoriamo le basi.

Una motivazione in più per quella parte della Distribuzione che senta l’appartenenza ai territori come elemento fondante del suo essere azienda sociale.

Si tratta a mio avviso di una sfida importante per tutto il nostro Paese e in particolare per la ricca filiera agroalimentare di qualità, che parte della Distribuzione ha già saputo cogliere (penso a IlViaggiatorGoloso di Unes U2 e a Sapori&Dintorni di Conad) e che, ne sono certo, saprà premiare chi avrà il coraggio di affrontarla.

@danielecazzani

Il futuro delle #privatelabels: da #mdd a #mdc (marca del Cliente). Riflessioni a margine di #marca2017

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Anche quest’anno MARCA, la prestigiosa rassegna bolognese che ogni anno è il punto d’incontro tra la Distribuzione e l’Industria (ma il consumatore dov’è?)  per parlare di private labels- ma non solo…- ha fornito numerosi spunti e tanti numeri.

Intanto i numeri. Le private labels nel 2016 hanno raggiunto in Italia una quota del 18,5% (come sempre la media cela valori molti diversi tra le diverse insegne) registrando una crescita rispetto al 2015: 1,7% a valore- grazie soprattutto alla perfomance dei prodotti premium- e 0,2% a volume.

Una crescita non certo impetuosa che sembra confermare quasi l’esistenza di un tetto alle potenzialità di crescita del comparto (ne parlavo già anni fa…) e che si conferma se diamo uno sguardo alle percentuali di altri Paesi (vedi grafico)

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Altro tema importante è la sinergia tra Distribuzione e Industria. Pensado soprattutto al mercato italiano le private labels rappresentano un’incredibile opportunità di sviluppo per tante piccole e medie aziende produttrici.

Le private labels hanno dimostrato appieno la capacità di divenire cardine di un processo di fidelizzazione della clientela come dimostrano Sapori & Dintorni di Conad e ViaggiatorGoloso di Unes-U2. In quest’ultimo caso i successi dei temporary natalizi e del nuovo store di Milano sono il segno che la MDD può divenire insegna.

Ma, ribadito che mi è parso che a Marca mancasse il consumatore (o, meglio, il Cliente), a mio avviso le reali possibilità di successo per le private labels sono legate alla capacità che la Distribuzione avrà di trasformarle da MDD a MDC, ovvero a Marche del Cliente caratterizzate da:

  1. trasparenza/tracciabilità (i clienti vogliono sempre più sapere e conoscere mentre l’opacità è un freno alla fiducia)
  2. value for money (che non significa prezzo basso, ma prezzo giusto, anche nei comparti come i prodotti “bio” e “senza” o “con” nei quali spesso il “light” si sposa con prezzi davvero troppo “heavy”) e ridotto ricorso alla leva promozionale
  3. attenzione alle nuove tendenze e stili di consumo (anche le nicchie quindi, non solo il mainstream)
  4. innovazione nel packaging, nel servizio (pensiamo al ViaggiatorGoloso su Amazon)
  5. educazione (ad un consumo corretto e consapevole, non promozionale e coercitivo).
  6. esposizione e valorizzazione all’interno del punto vendita (quante volte abbiamo la sensazione che il distributore quasi si vergogni dei propri prodotti? assurdo!)

Per la Distribuzione si tratta di un’occasione imperdibile, visto che l’IDM dimostra tutta la sua rigidità e schizofrenia (lanciando ogni anno sul mercato prodotti flop) e pare ancora concentrata su investimenti in advertising e in uno storytelling che assomiglia troppo spesso ad un moderno tentativo di affabulazione più che a un racconto sincero dei propri valori e della propria promessa.

Fra un anno vedremo se (e da chi) sarà colta appieno questa opportunità.

 

@danielecazzani

 

PS

Un suggerimento agli organizzatori di Marca: inviate un biglietto anche al consumatore/Cliente per la prossima rassegna. Sono certo che vederlo tra gli stand non potrà che fare bene ai tanti espositori (e relatori) 😉

Grazie!

Un patto #bio tra #agricoltura, #distribuzione e #consumatori

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In tempi di crisi dei consumi vedere un numero positivo fa sempre piacere.

Fino ancora a pochi anni fa considerato da tanta parte della distribuzione come una nicchia  o una moda passeggera, il biologico è ora al centro dell’attenzione della GDO.

Con una crescita del 21% (anno terminante maggio 2016) il biologico si conferma un settore in piena salute per quanto ancora piccolo nel mondo dei consumi, pesando solo per il 3% sul totale delle spese alimentari delle famiglie italiane (una percentuale però quasi raddoppiata negli ultimi cinque anni).

Ma la passione per il biologico si sta radicando, se è vero che le ricerche dimostrano che il 18% delle famiglie consuma abitualmente prodotti bio, mentre è decisamente superiore il numero delle famiglie che anche occasionalmente li acquista.

In questo contesto vi sono certamente degli heavy users (o dovremmo dire heavy eaters?) del bio se è vero che il 23% delle famiglie acquirenti pesa per oltre il 70% delle vendite, ma il perimetro di consumatori si sta allargando rapidamente, complice la maggiore attenzione alla qualità del cibo, come testimonia ad esempio la parallela crescita del comparto dei prodotti alimentari “senza” (senza glutine, senza olio di palma, senza conservanti e via dicendo).

L’aumento dei consumi bio è dovuta da una parte dall’aumento della produzione– in questi ultimi anni si è registrato un notevole incremento dei terreni per agricoltura biologica- dall’altra dall’entrata in campo della grande distribuzione e dal moltiplicarsi dei canali di acquisto a disposizione dei consumatori: negozi specializzati (pensiamo al grande sviluppo avuto da un’insegna quale NaturaSì), centri di acquisto, vendite dirette da agricoltori e ultimo, ma non meno importante, l’e-commerce.

Ma numerose sono ancora le possibilità di espansione del mercato; basti pensare al mondo della ristorazione (commerciale e non) e alla sua ancora marginale attenzione a questo fenomeno…

Tornando alla GDO l’incremento delle vendite è stato determinato, oltre che dalla domanda, da un aumento dell’assortimento disponibile, cresciuto solo nell’ultimo anno di oltre il 26% e spesso trainato dalle private labels.

In un comparto produttivo caratterizzato dalla presenza di piccoli operatori, quasi pulviscolare, e dove, fatte alcune eccezioni, è risultato finora difficile fare branding sul biologico, le private labels possono giocare un ruolo fondamentale mettendo sul piatto tutto il peso del brand d’insegna.

La tracciabilità del prodotto, il suo luogo di coltivazione e produzione sono elementi ancora più importanti in un mondo, quello del biologico, tutto sommato nuovo per buona parte dei consumatori. Non si può certo pensare che basti il bollino “agricoltura biologica” per convincere all’acquisto i propri clienti. Serve trasparenza e chiarezza. Ecco perché ritengo che le private labels possano giocare un ruolo fondamentale, anche per abbattere una delle barriere all’acquisto più forte per i prodotti bio: il prezzo.

Chi di noi fa la spesa sa bene quale sia il price divide tra un prodotto bio e un prodotto non bio. Spesso, è opportuno dirselo, tale differenza non nasconde fondamentali differenze nella catena del costo; piuttosto il prezzo elevato è stato utilizzato (non so dire quanto impropriamente) come leva di marketing, quale elemento di “certificazione” della maggiore qualità del biologico.

Anche su questo tema la distribuzione può e deve giocare un ruolo importante: per il consumatore moderno il value for money è formula che funziona se entrambi i piatti della bilancia sono equilibrati. Ben disposto a pagare un prezzo superiore quindi per il biologico, ma a fronte di tangibili e trasparenti elementi che ne attestino la superiore qualità e la veridicità della promessa.

Si tratta di una sfida avvincente per quei distributori che sapranno coglierla perché, se è verosimile che i tassi di crescita non saranno infiniti per questo comparto, il prodotto biologico potrebbe divenire un’importante leva di fidelizzazione della propria clientela; invito i distributori a vedere oggi quali siano i propri clienti che acquistano anche bio: sono piuttosto sicuro che il profilo che ne emergerebbe sarebbe quello del cliente fedele, alto-frequentante e alto-spendente. Perché l’acquisto di un prodotto bio presuppone conoscenza e confidenza che solo un cliente fedele può riconoscere a un distributore.

Per concludere quella che si presenta, a mio avviso, è anche una grande opportunità per i produttori bio.

La distribuzione moderna infatti si presta ad essere una grande veicolo di diffusione della cultura e del consumo del biologico. Inoltre le esigenze logistiche e commerciali della distribuzione potrebbero indurre il comparto biologico a fare un ulteriore salto di qualità finalizzato all’innovazione e alla modernizzazione di tutta la filiera con benefici per il consumatore finale.

Certo per fare questo sarà necessario da un lato un ruolo attivo della distribuzione- in realtà sono già molte le insegne soprattutto italiane che dimostrano di avere colto questa sfida…- e una crescita imprenditoriale anche dei produttori che farebbero bene a imparare dal passato quanto sia importante trovarsi al tavolo con la distribuzione con una voce sola, piuttosto che a gruppi sparsi o singolarmente portando con sé ceste di bellissimi e buonissimi ortaggi ma idee poco chiare sul proprio futuro e le proprie strategie.

Un patto bio tra agricoltura e distribuzione che vedrebbe come beneficiario finale anche quel nuovo consumatore che la prolungata stagnazione dei consumi ha plasmato e i cui nuovi valori, la distribuzione tutta farebbe bene a studiare con attenzione.

@danielecazzani

 

NOTA

I dati riportati nell’articolo sono stati estratti da “Trend e prospettive di crescita per l’alimentare e il biologico in Italia” di Nielsen e anticipati per Sana Bologna.

#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

#Rollinz vs #Peluche. Gli orologi della #GDO sono sincronizzati con quelli dei Clienti?


Assortimento? Certo! Convenienza? Certo! Servizio? Certo! Negli ultimi anni i driver di scelta dei consumatori sono sempre più stati questi, soprattutto come riflesso della crisi e delle modifiche (più o meno profonde) nei comportamenti d’acquisto.

Ma i Clienti in questi anni hanno “alzato l’asticella” in termini di aspettative e di esigenze soprattutto quando si propongono attività strutturate come le special promotion che hanno l’obiettivo di attirare nuova clientela, aumentare frequenza d’acquisto e scontrini medi… insomma, sulla carta, una vera a propria manna per le vendite della distribuzione non ancora uscite dalla crisi dei consumi.

Riuscire a ingaggiare il Cliente in modo efficace richiede una grande investimento in creatività proprio perché lo strumento delle special promotion è nella fase di maturità e padelle & c. hanno da tempo smesso di essere efficaci leve di vendita. Inoltre il progetto deve essere coerente coi valori del brand e innestarsi sinergicamente con le attività commerciali (promozioni). Per quanto paiono considerazioni scontate, la realtà dimostra che spesso le special promotion restano dei “corpi estranei” rispetto alle altre attività dell’insegna (chiedere informazioni agli addetti vendita può essere esperienza illuminante da questo punto di vista).

Esselunga da questo punto di vista sta dimostrando di avere capito questo contesto mentre altri operatori sembrano continuare a operare su paradigmi del passato: prodotti simpatici (sempre rivolto al target kids e junior, mentre Esselunga ha saputo costruire operazioni cross-generazionali), una spolverata di attività sociali e voilà la special è fatta!

Così facendo però oltre a inficiare i risultati dell’operazione si dimostra come sia sia ben poco compreso il potenziale delle special nell’ambito delle strategie di marketing dell’insegna.
Questo approccio in fondo è riflesso di una GDO che sta incontrando grandi difficoltà a ripensensarsi, ma lo spazio per migliorare è davvero molto, a beneficio dei propri Clienti e  delle proprie vendite.

@danielecazzani