#Esselunga, un #coupon, il Cliente e la #multicanalità (dimenticata?)

Alcuni giorni fa ho ricevuto un mailing di Esselunga contenente 3 coupon validi (in 3 distinti periodi) come sconto di 20 euro a fronte di una spesa minima di 100 euro (totale sconto 60 euro, per ricordare i sessant’anni dell’insegna di riferimento della GDO italiana).
Lodevole iniziativa ma in merito alla quale mi premono due domande.

La prima attiene al lato esperienziale. PER QUALE MOTIVO ESCLUDERE LA SPESA ONLINE? Non so cosa abbia dettato questa scelta (considerazioni di marginalità?) ma come Cliente per me è indifferente acquistare in un superstore Esselunga o online su esselungaacasa. Per questo sarebbe stato opportuno che anche Esselunga mi considerasse sempre come lo stesso Cliente senza penalizzare l’una o l’altra scelta. Si dice che siamo nell’epoca della multicanalità ma vedere queste barriera da parte di un’insegna che prima di altre ha creduto nella spesa on line lascia perplessi…

Seconda domanda sia tecnologica che (ancora una volta!) esperienziale. Il direct mailing cartaceo è certamente uno strumento utile per “bussare alla porta” dei propri Clienti (fatte salve le inefficienze delle società che si occupano di recapito), ma PERCHE’ NON ATTIVARE GLI SCONTI DIRETTAMENTE SULLA CARTA FIDATY DEL CLIENTE permettendo a questi di usufruirne anche a prescindere da eventuali non consegne del mailing (messe in conto dall’insegna?) o di eventuali dimenticanze del piccolo coupon in qualche cassetto di casa?

Con un nuovo approccio il mailing (ma perché non usare anche altri strumenti quali email o sms? certamente non innovativi ma assai apprezzati dai consumatori) avrebbe potuto essere lo strumento per informare il Cliente di questo “regalo” ma dal punto di vista dell’experience l’avere lo sconto direttamente sulla propria card sarebbe stato, a mio modesto avviso, un passo avanti.

Insomma: sessant’anni sono un bellissimo traguardo (raggiunto tra l’altro in splendida forma!) ma la storia (declinata come “affetto” verso vecchi strumenti) non dovrebbe mai essere da freno nell’adozione di nuove soluzioni che mettano al centro il Cliente e la sua esperienza.

@danielecazzani

Gli Ipermercati e il Non Food. I pesi massimi della GDO dal gigantismo alla crisi di identità..

ipermercato

Prendo spunto da un recente articolo di Retailwatch.it Retailwatch -Carrefour – Non Food    nel quale il direttore Luigi Rubinelli si chiedeva cosa ne sarebbe stato del Non Food in Carrefour in seguito alla scelta del CEO George Plassat di concentrarsi sul Food (che già rappresenta l’83% delle vendite del gigante francese della Distribuzione).

E’ a tutti noto come proprio il Food sia stato il comparto della GDO che più ha sofferto in questi anni, sia a causa  della riduzione dei consumi che della concorrenza delle GSS (anch’esse in grande crisi a onor del vero) e della crescita dell’e-commerce (che invece, per ora, ha solo marginalmente toccato l’ambito grocery)

Un insieme di fattori certamente critici che però ha colto la GDO impreparata, come già prevedevo nel lontano 2013 La GDO e il Non Food: aspettando Godot!?

La Grande Distribuzione ha infatti sempre gestito il Non Food come un complemento dell’offerta, gestendolo lungo gli assi dell’ampiezza e profondità dell’assortimento, con minimi investimenti sulla formazione del personale dedicato, contrariamente a quanto fatto nel Food dove si è capito quanto sia importante coltivare le competenze e i mestieri.

Da questa visione (miope) nascevano i gigantismi (tipici di Carrefour) con spazi del Non Food moltiplicati all’infinito, dove a perdersi non era solo la ratio dell’assortimento e della strategia commerciale, ma anche il cliente che per effettuare una spesa minima era costretto a chilometri di faticosa ricerca tra scaffali e “mondi” (di dubbia concezione).

L’e-commerce ha poi evidenziato come non vi sia gigantismo che regga di fronte agli infiniti spazi d’offerta di una piattaforma on line.

Dal sostanziale fallimento di quella stagione si è passati al momento dei tagli, ovvero alla riduzione di superficie di tanti di quegli ipermercati-monstre che erano stati salutati come il sole all’avvenire per la Distribuzione,

Ecco quindi il concentrarsi sul Food. Infatti i più interessanti sviluppi dei formati della distribuzione negli ultimi anni hanno avuto proprio come focus il Food, soprattutto su negozi di piccole e medie dimensioni: la prossimità è divenuta così il nuovo spazio per testare nuove soluzioni di vendita, nuovi assortimenti, nuovi servizi.

La scelta di un ipermercato di concentrarsi sul Food se intesa solo come una redistribuzione degli spazi e un lavoro sui consueti assi assortimentali rischia però a mio avviso di non essere efficace. Aumentare l’offerta Food non può essere sufficiente.

Ampiezza  e profondità sono certamente elementi importanti, ma un iper non può pensare di vincere la sfida Food rispetto a supermercati o superstore solo quel fronte: il servizio, la prossimità al bisogno, la frequenza d’acquisto, la conoscenza del cliente sono elementi importanti che hanno premiato (o penalizzato meno) i formati più piccoli in questi anni.

Infatti alcuni di questi elementi (pensiamo alla frequenza d’acquisto) vedono in partenza gli ipermercati perdenti, non fosse altro che per la localizzazione normalmente extra-urbana (almeno nel nostro Paese).

Per questo non posso immaginare che il prossimo step evolutivo degli iper sia quello di essere solo dei supermercati per così dire iper-vitaminizzati.

Il cambiamento deve essere a mio avviso più culturale e di approccio ai mercati. Da questo punto di vista aprirsi ai territori è certamente un passaggio importante: non più assortimenti generalisti ma declinati sulla storia dei territori e sui comportamenti di consumo di chi li abita.

Finiper da questo punto di vista rappresenta un esempio nel mondo degli ipermercati, offrendo in tanti casi ai propri clienti (penso a ortofrutta e formaggi) un’importante proposta di prodotti locali che avvicinano il Cliente e l’Insegna rendendo tangibile una comunione di interessi che è parte importante della nuova relazione che il consumatore ricerca.

Ciò detto, l’aspirazione a rispondere a un ampio ventaglio di bisogni del consumatore può (deve) restare obiettivo importante e fondante della formula iper.

Certo i bisogni Non Food vanno individuati con attenzione, focalizzandosi su quelli più importanti e integrabili coerentemente con la propria offerta Food, costruendo attorno ad essi assortimenti mirati, competenze e professionalità dedicate (ambito nel quale anche gli specialisti Non Food hanno tanto spazio da recuperare…).

Nel passato abbiamo visto ipermercati vendere autovetture, contratti luce e gas e chissà cos’altro!? Non è certo quello il modello che propongo. In quei casi si è trattato quasi sempre di insuccessi perché ogni volta l’insegna non era che il paravento dietro al quale si muovevano altri fornitori e quell’offerta era “straniante” per il cliente.

La nuova offerta andrà poi integrata laddove necessario con altrettanto efficaci piattaforme di e-commerce, perché la GDO può legittimamente continuare a ignorare che il consumatore sia multicanale ma il consumatore no…

In sintesi il nuovo Non Food deve essere presidiato dall’Insegna, dalle sue Persone e deve essere coerente con le proprie strategie, per divenire punto di forza del proprio posizionamento.

Anche in questo caso vi sono esempi virtuosi (penso sempre a Finiper e alla proposta di alcuni mondi Non Food come shop in shop all’interno dei propri ipermercati) a dimostrazione che questa strada, certamente non facile, è percorribile.

Un Distribuzione che giochi in difesa, scappando dal Non Food, rischia solo di compiere il primo passo verso un ulteriore arretramento, quando i nuovi player dell’e-commerce saranno pronti a presidiare in modo efficace anche una propria offerta Food.

Un comportamento assurdo se pensiamo alla forza della Distribuzione, alla sua capillarità territoriale e alla conoscenza del cliente (se solo si mettessero a valore i dati transazionali e comportamentali del Cliente raccolti negli anni coi programmi loyalty!).

Ecco perché ritengo che quella del Non Food sia per la GDO una sfida ancora tutta da giocare, certamente non persa a meno di non voler restare in attesa ancora una volta di Godot…

@danielecazzani

 

#Occhiali duepuntozero: un nuovo #marketing per il #retail dell’occhiale

Immagine

Riprendo con piacere un mio vecchio articolo di quasi quattro anni fa (era il lontano 12 marzo 2013…) in cui parlavo del retail nel settore dell’ottica, visto che il mio percorso professionale mi ha portato oggi a lavorare proprio nell’azienda leader di questo settore in Italia, e da poco entrata a far parte del più grande gruppo mondiale del settore.

Certo, rispetto al momento della prima redazione, le premesse sono fortunatamente cambiate- il mercato non è in sofferenza e la maggiore forza del retail ha permesso a molti operatori di coglierne le tante opportunità di crescita- ma restano forti i margini per un ulteriore crescita in un mercato estremamente frammentato, in cui l’integrazione verticale dalla produzione al consumatore pare essere oramai strada segnata (per chi avrà forza e capacità per percorrerla) con strategie che vedano al centro il cliente e i suoi bisogni.

Proprio perché convinto degli spunti allora proposti, ho deciso di riproporre oggi quell’articolo- scritto allora, lo ammetto, da outsider rispetto al settore- senza ritoccarne nemmeno una parola per quanto alcune delle semplificazioni (in parte obbligate per lo spazio a disposizione) oggi, mi rendo conto, potrebbero sembrare fin troppo forzate…

Ecco l’articolo.

 

I retailers del settore dell’occhialeria stanno registrando performances negative sia in termini di volumi che di valore- sia nel comparto “vista” che “sole”- in funzione di due tendenze:

  1. nel comparto delle montature, un aumento dell’incidenza degli home brands a danno della quota dei luxury brands, e
  2. un allungamento del tempi di sostituzione degli occhiali (oramai superiore ai 3 anni).

Mi permetto di semplificare il contesto (evitando fini distinzioni tra lenti e montature, tra occhiali e lenti a contatto, e via dicendo) ed evidenziare quelli che a mio avviso sono due forti elementi di debolezza:

  1. la indistintività dell’offerta commerciale tra le diverse insegne, e la conseguente forte dipendenza dall’industria dell’occhiale che, come sappiamo, è fortemente concentrata nelle mani di alcuni players nazionali;
  2. l’aumento della pressione promozionale per sostenere i volumi di vendita.

In merito al primo punto, non vi è dubbio che gli aspetti della moda e del brand siano ancora molto forti, visto che per molti consumatori l’occhiale è un accessorio fortemente personale, che parla dello stile o del modo di essere di chi lo indossa: anche gli occhiali da vista infatti da mero strumento correttivo di difetti oculistici, sono oramai divenuti uno shopping goods. Tale considerazione è ancor più valida nell’ambito degli occhiali da sole, ove l’acquisto presenta caratteri più impulsivi e la comunicazione pubblicitaria riveste un ruolo ancora più importante.

Ma se davvero l’acquisto di un occhiale branded è per il consumatore un modo per entrare nel mondo dei luxury goods, mi chiedo, provocatoriamente, per quale motivo i retailers non investano nella shopping experience del cliente, che risulta invece estremamente povera e indistinta nelle principali catene. Senza con questo negare la componente “tecnica” e “medicale” del mondo dell’occhiale, i negozi dovrebbe superare l’aspetto normalmente freddo e ambulatoriale, ispirandosi a brand del settore moda: l’acquisto di un occhiale (correttivo o meno che sia) potrebbe essere decisamente più emozionale, vivace, interessante, sociale. Per fare questo i retailers dovrebbero iniziare dall’analisi della shopping journey del cliente multicanale e disegnare percorsi flessibili di avvicinamento al punto vendita fisico, con servizi di personalizzazione delle offerte, ed enfatizzando la componente social (condivisione) dell’acquisto.

Anche gli assortimenti dovrebbero essere più narrati e meno caotici: per quanto alcuni negozi abbiano provato ad organizzare l’offerta inventandosi cluster sinceramente opinabili (penso alla suddivisione in “stile”, “eleganza”, “colori” e via dicendo di uno dei leader del settore) la sensazione che vive il cliente è quella spesso dello spaesamento e dell’eccesso di offerta, che, come insegna il Prof.Lugli dell’Università di Parma in altri contesti, può portare alla paralisi, e all’ansia (e quindi al non consumo). E’ prioritario migliorare la rappresentazione della scelta.

Pensiamo anche al mondo junior: un altro target cui molti retailers paiono assolutamente indifferenti, mentre molto si potrebbe fare per rendere meno “traumatica” l’esperienza di acquisto per un bambino “costretto” a utilizzare fin da piccolo gli odiati occhiali, e minimizzare la sindrome “Quattrocchi”. Potrebbe divenire un elemento di distinzione per il primo player che vi si applicasse con interesse e intelligenza.

Venendo al secondo punto il rischio è che- come già capitato nella GDO- il progressivo aumento della pressione promozionale porti non tanto a un incremento dei volumi e dei valori, ma a una riduzione dei margini (per tutta la filiera) e a un’alterazione del comportamento d’acquisto dei clienti, trasformati sempre più in soggetti price sensitive, con l’effetto di vanificare gli interventi effettuati sul primo punto.
Almeno finché con un’azione di lobbying gli attori del settore non riusciranno ad imporre una regolamentazione che  preveda un “tagliando” obbligatorio ai propri occhiali correttivi (per quanto gli italiani paiano non prestare molta attenzione alla cura delle proprie lenti, dobbiamo sempre ricordare che si tratta di presidi medici) così da ridurre i tempi di sostituzione (almeno) delle lenti, ritengo che la strada obbligata sia quella di lavorare sugli assortimenti (e la loro architettura e narrazione) e sulla costruzione di una shopping experience più appagante e distintiva, che parta da un ridisegno fisico del punto vendita e da un salto di qualità nel marketing (anche sul fronte della relazione e fidelizzazione del cliente).

Daniele Cazzani @danielecazzani

Una strategia #disruptive per il #turismo in #Italia: dall’abolizione del #Mibact a un moderno #crm

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Il turismo può essere una formidabile opportunità di crescita e sviluppo economico per il nostro Paese, nonché uno strumento di valorizzazione delle nostre eccellenze e tradizioni.

Da anni sentiamo ripetere come un mantra questa frase, ma pur a fronte di un mercato del turismo mondiale in continua crescita (oltre il 4% nel 2015) grazie all’aumento di nuovi turisti (pensiamo ai cinesi) e nel quale l’Europa continua ad assorbire oltre il 50% del traffico, l’Italia sembra non essere ancora in grado di cogliere questa opportunità, trovandosi dietro altri Paesi europei per flusso turistici; e questo nonostante numerose ricerche mondiali la indichino come uno dei luoghi più desiderati e ambiti per le proprie vacanze.

I dati che seguono (fonte UNWTO) fotografano bene la situazione.

Top 10 destinazioni del turismo internazionale

Arrivi internazionali (milioni)

Introiti (miliardi di US$)

var. % moneta locale

graduatoria 2015

2014

2015

var. %

graduatoria 2015

2014

2015

1 Francia

83,7

84,5

0,9

1 USA

177,2

178,3

0,6

2 USA

75,0

n.d.

n.d.

2 Cina

105,4

114,1

8,3

3 Spagna

64,9

68,2

5,0

3 Spagna

65,1

56,5

4,0

4 Cina

55,6

56,9

2,3

4 Francia

57,4

45,9

-5,4

5 Italia

48,6

50,7

4,4

5 Thailandia

38,4

44,6

22,0

6 Turchia

39,8

n.d.

n.d.

6 Regno Unito

46,6

42,4

-2,0

7 Germania

33,0

35,0

6,0

7 Italia

50,5

39,4

3,8

8 Regno Unito

32,6

n.d.

n.d.

8 Germania

43,3

36,9

1,9

9 Messico

29,3

32,1

9,5

9 Hong Kong (Cina)

38,4

35,9

-6,6

10 Russia

29,8

31,3

5,0

10 Macao (Cina)

42,6

31,3

-26,5

Fonti: UNWTO World Tourism Barometer, vol.14 – July 2016

A fronte di un 2015 che ha registrato una crescita del turismo nel nostro Paese (grazie anche all’effetto Expo), il primo semestre del 2016 evidenzia purtroppo un segno negativo (-3,3% arrivi, -1,3% presenze) secondo i dati diffusi dall’Enit.

Un segno non positivo che cozza con le parole di ottimismo che sentiamo spesso spendere sulle magnifiche sorti e progressive che attenderebbero il turismo per il nostro Paese.

La composizione dei turisti (dati Istat) per provenienza fotografa inoltre come buona parte dei turisti in Italia sia costituita da cittadini europei (un’utile riflessione per i detrattori della moneta unica) ma allo stesso tempo evidenzia la potenzialità costituita da Paesi quali Cina il cui numero di turisti sta rapidamente aumentando, grazie alla crescita delle economie domestiche.

I principali 15 mercati di provenienza (in ordine decrescente di arrivi 2015)

 

2015

Variazioni % 2014/2015

Quota % su totale 2015

Rank

Paesi

Arrivi

Presenze

Arrivi

Presenze

Arrivi

Presenze

1

Germania

10.858.540

53.294967

3,1

1,4

20,4

28,1

2

Stati Uniti

4.531.141

11.657.085

-4,2

-3,1

9,2

6,4

3

Francia

4.331.623

13.010.397

11,0

9,5

7,6

6,4

4

Cina

3.338.040

5.378.298

45,3

54,5

4,4

1,9

5

Regno Unito

3.316.921

12.482.716

6,7

5,2

6,0

6,4

6

Svizzera

2.691.106

10.046.878

12,0

7,8

4,7

5,0

7

Austria

2.320.615

8.807.043

4,9

2,2

4,3

4,6

8

Paesi Bassi

1.941.555

10.218.449

1,4

-3,1

3,7

5,6

9

Spagna

1.779.258

4.582.106

3,9

-3,1

3,3

2,5

10

Polonia

1.203.526

4.688.076

8,9

8,5

2,1

2,3

11

Russia

1.194.656

4.417.359

-33,1

-35,2

3,5

3,7

12

Belgio

1.177.933

4.749.500

5,3

1,4

2,2

2,5

13

Giappone

1.109.491

2.303.854

-15,3

-10,7

2,5

1,4

14

Australia

906.224

2.428.671

4,6

7,5

1,7

1,2

15

Brasile

872.736

2.196.001

14,4

16,9

1,5

1,0

Fonte: Istat

In questo contesto di chiaroscuri (crescita del turismo mondiale, ma nostra difficoltà nel coglierne le opportunità) sono numerosi i motivi che possono spiegare il ritardo italiano, e sarebbe troppo impegnativo volerli citare tutti.

Tra i più citati vi è la mancanza di infrastrutture.

Si tratta certamente di un deficit che rallenta tanti settori, ma nel caso del turismo, una delle risposta che si è voluta dare, ovvero la moltiplicazione di aeroporti a livello provinciale- con fisiologici conti in profondo rosso e mantenuti in vita solo grazie ai generosi contributi dei soci pubblici- ha dimostrato la profonda ignoranza dei fondamentali del turismo e una inversamente proporzionale conoscenza della gestione dei rapporti politici locali.

Rapporti che vedono come attori una pluralità di soggetti che si occupano di promozione turistica. E questa pluralità costituisce un altro minus del nostro sistema. Facciamone un elenco (certamente non esaustivo):

  • Ministero del Turismo

  • Regione

  • Provincia (o città metropolitane)

  • Camera di Commercio

  • Coldiretti

  • Federalberghi

  • Confesercenti

  • Ascom

  • Unione Agricoltori

  • Università

  • Aziende agrituristiche e relative associazioni

  • Sistemi museali

  • Comunità Montane

  • Associazioni e Consorzi per la promozione di prodotti tipici del territorio

  • Associazione Albergatori

  • Aziende agroalimentari e vinicole

  • e via elencando…

Una moltitudine di soggetti il cui effetto è un cacofonico insieme di iniziative ed eventi spesso non in grado di andare oltre i confini del territorio in cui nascono, senza raggiungere alcun target di potenziali turisti.

Ma se questa è una (opinabilissima e rapidissima) diagnosi, quale potrebbe essere la cura?

Una cura disruptive che abbia il coraggio di cambiare l’approccio al mercato, sia sul lato degli attori, che delle strategie che dovranno essere centrate sul nuovo concetto di turista/ospite.

Iniziamo dall’abolizione del Ministero dei Beni Artistici e Culturali e del Turismo. Che il turismo debba essere abbinato alla tutela dei beni culturali rappresenta una visione limitata, vecchia del turismo. Il turismo non è solo beni culturali; è turismo d’affari, è turismo d’eventi, è turismo enogastronomico ecc.

Serve un nuovo attore, più snello che funga da playmaker nel settore, da facilitatore di connessioni tra gli altri attori in campo, allocando risorse laddove si sappiano costruire network tra enti pubblici e soggetti privati, con la stessa logica che ha dimostrato l’efficacia, in ambito industriale, dei distretti.

Al nostro Paese non servono nuovi loghi o portali turistici il cui unico effetto è arricchire le agenzie che li studiano e progettano, ma che non hanno la forza di divenire brand o raggiungere i clienti finali.

E’ invece necessario prendere atto che la disintermediazione messa in atto dai consumatori alla ricerca del prodotto turistico (pensiamo all’incredibile sviluppo dell’e-commerce in tale ambito) ha cambiato del tutto il paradigma del settore.

Nell’era di Netflix è sempre più il consumatore a costruirsi il proprio palinsesto esperienziale, pertanto perdono di efficacia i pacchetti prefabbricati, mentre diventa fondamentale presidiare tutti i touchpoint che compongono la shopping journey del turista.

L’Italia all’estero non è rappresentata tanto da un buon catalogo turistico, quanto dai propri prodotti (da qui la centralità della tutela del madeinitaly), e da touchpoint esperienziali che possono essere una mostra di pittura, piuttosto che la sede di Eataly a NewYork…

Allo stesso modo deve essere centrale la figura del turista/ospite.

I dati che seguono (elaborazione Enit sui dati della Banca d’Italia) dimostrano che la spesa media giornaliera dei turisti in Italia è superiore a quella degli altri Paesi europei, che invece inseguiamo in termini di traffico.

turismo

Insomma, dobbiamo aumentare il volume dei turisti non certo la nostra capacità di spremerli…

Per questo è fondamentale integrare nelle politiche turistiche un moderno approccio di customer relationship management, che parta innanzi tutto da una conoscenza di chi sia il turista, mettendo a comun denominatore i diversi database e agevolando la condivisione dei dati.

Una volta definitone il profilo, altro obiettivo dovrà essere quello di massimizzare la qualità della journey experience, costruendo metriche che ne misurino la soddisfazione in base a parametri qualitativi e quantitativi.

Poco sopra ho parlato di turista/ospite, non di turista/cliente. Quella che a prima vista potrebbe sembrare un banale distinguo lessicale, nasconde invece una profonda differenza.

Il concetto di ospite prevede un rapporto paritario tra chi ospita e chi viene ospitato.

L’obiettivo primario in questo contesto deve essere quello della retention per mantenere e rafforzare la base di turisti/ospiti, massimizzandone la soddisfazione così che possano essere a loro volta i migliori sponsor dell’Italia una volta rientrati nei propri Paesi.

Mentre sul lato dell’acquisition le risorse devono essere investite per fare in modo di presidiare in modo coerente ed efficace tutti i touchpoint, come sopra accennato.

Come detto non ho certamente toccato tutti i punti critici della nostra attuale offerta turistica, ma il mio obiettivo (forse fin troppo ambizioso) era solo quello di attivare una riflessione su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

E’ certamente più difficile il nuovo contesto del turismo, ma ritirarsi dalla sfida sarebbe il modo migliore per perdere l’ennesima grande opportunità per un Paese, il nostro, alla ricerca del proprio futuro e che dovrebbe trovare la forza di guardare con meno nostalgia e compiacenza al proprio passato, concentrando forze ed energie sulle sfide dell’oggi e del domani.

@danielecazzani

NOTA FINALE

Parte di questo articolo nasce dalla rilettura di un mio progetto del 2013 sottoposto all’allora Presidente della Camera di Commercio di Pavia, e rimasto inerte in qualche cassetto, mentre una commissione istituita ad hoc studiava le migliori azioni da intraprendere per sfruttare il volano di Expo2015 per lo sviluppo del turismo in una delle province (da questo punto di vista) più arretrate del Nord Italia. E’ inutile dire che Expo2015 è passato e di quelle azioni non se ne è avuta notizia…

Il futuro del #retail tra #disruption #ecommerce e antichi mestieri #retail2016

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Anche quest’anno il Consumer & Retail Summit organizzato da GDOWeek, MarkUp e IlSole24Ore è stato l’occasione per fare il punto sullo stato di salute del retail e parlare delle opportunità e delle sfide dell’oggi e del futuro.

Il contesto non positivo dei consumi certamente descrive una situazione non facile, ma che nel contempo registra importanti novità, come la crescita dell’ecommerce, che non possono che spingere il retail verso l’innovazione.

Nonostante vi sia chi pensa ancora che lo sviluppo delle reti sia la strada per lo sviluppo dei fatturati, è parsa sempre più condivisa la consapevolezza che sarebbe illusorio attendersi la ripresa dei consumi senza fare nulla; è invece prioritario innovare format, servizi e strategie per rispondere a un consumatore che a sua volta ha innovato il proprio stile di consumo e che si dimostra sempre più selettivo (e meno fedele).

La crescita dell’e-commerce appare ancora per molti una terribile minaccia, anziché una splendida opportunità: questa visione di Amazon come spettro che si aggira per …il retail appare sinceramente eccessiva, frutto più di paranoia piuttosto che di un’analisi dei numeri.

Tale reazione è spesso il sintomo di una visione ancora dicotomica del retail tra online e offline che porta tanti retailers a vedere nel click & collect un buon compromesso anziché solo come uno dei tanti touchpoint col cliente.

Ma non è tempo per manicheismi: il retail invece deve essere uno, perché questo è ciò che sia attende il cliente. Un cliente multichannel che è più difficile da conquistare e da fidelizzare, ma è questa, lo si voglia o meno, la sfida che attende il retail.

Ciò che serve è un approccio disruptive (con un briciolo di pazzia per citare Mario Gasbarrino, AD di Unes/U2) che sappia ripensare processi, strategie, organizzazioni. Ma l’innovazione che serve non è un adattamento del “famolo strano” di verdolina memoria: il cliente non chiede novità fini a se stesse– la GDO negli ultimi anni ne ha già proposte molte spesso naufragate- né vuole essere stupito da effetti speciali; cerca piuttosto servizi reali e una semplice, reale attenzione alle proprie esigenze.

Essere disruptive vuole dire anche rimettere le Persona al centro delle strategie del retail, riscoprendo mestieri e saperi. Lo sviluppo delle competenze delle risorse che  lavorano nel retail- come ha raccontato Crai- è una strada forse faticosa ma necessaria per dare valore ai negozi fisici, dove la relazione tra personale e cliente deve diventare il valore aggiunto.

In conclusione sono tante le sfide che attendono il retail, ma solo il prossimo Summit ci dirà se i buoni propositi si sono trasformati in buone strategie…

@danielecazzani

Un nuovo #NONFOOD per un nuovo #RETAIL: riflessioni a margine del 13mo Osservatorio NonFood @GS1Italy

Electronics Icons Set

Lunedì 29 giugno a Milano GS1 (indicod-ecr.it) ha presentato i risultati della tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food che ha evidenziato come questo comparto abbia beneficiato della lieve ripresa nel 2014 dei consumi della famiglie italiane, con un incoraggiante +0,6% (che pone fine ad anni di pesanti flessioni pur lasciando la quota dei consumi non alimentari al di sotto del 15%).

Questo dato è evidentemente la media di situazione molto diverse tra i tanti comparti dell’universo non alimentare ma ciò nondimeno è un segnale positivo in un anno che ha visto una contrazione importante (-7%) nei punti vendita e la crisi aziendale di importanti player, uno dei quali solo due anni fa, proprio in occasione dell’Osservatorio Non Food dichiarava invece di avere individuato una nuova strategia, poi risoltasi in un leggero make-up dei propri punti vendita (evidentemente non apprezzato dai consumatori).

Preso atto dei numeri la domanda fondamentale da porsi a questo punto è però: il non alimentare ha raggiunto questo risultato grazie a nuove strategie e nuovi approcci oppure ha beneficiato della generale (mini)ripresa dei consumi?

Mia opinione è che il risultato sia ascrivibile in buona parte al secondo fattore, perché a fianco di alcune interessanti novità (cito lo svilippo di Ikea e, anche se relativa al 2015, l’arrivo in Italia di Zodio) gli ipermercati e tanti storici retailers specializzati paiono essere ancora in una situazione di stallo decisionale.

Pensiamo agli ipermercati che fino a poco tempo fa vedevano nel non food non dico la gallina dalle uova d’oro ma certamente un comparto da sviluppare (pensiamo ad alcuni “gigantismi” testati, con scarso successo, da insegne non italiane) e che ora invece stanno riducendo gli spazi, prendendo così atto che il non food non è affatto un’arena competitiva più facile del food: anche qui servono competenze, risorse umane (bello che se ne sia parlato ampiamente a Milano!) e strategie di medio lungo periodo.

Un altro piccolo esempio su un comparto- quello della GDO- che mi sta sempre a cuore. Avete presenti i settori libri e videogiochi di alcuni ipermercati: spazi dimenticati, dove l’assortimento pare essere stato disegnato dal caso (o dal caos?), con una noncuranza che stride rispetto all’attenzione al display merchandising che giustamente regna negli altri reparti. Mi chiedo: che senso ha destinare metri quadri (e lineari) di vendita a tali merceologie, per poi nella realtà abbandonarle (o come nel caso dei libri, darli in gestione esterna) come fossero corpi estranei. Ecco, la GDO dovrebbe fare questo: smettere di vedere il non food come un corpo estraneo rispetto alla propria anima food. Anche solo dal punto di vista della cultura manageriale sarebbe un gran passo in avanti.

Tornando ai numeri sono molti gli ambiti nei quali il non food è chiamato a fare di più e qui ne citerò solo due.

Ad esempio, in un anno che ha visto l’e-commerce crescere del 17% il risultato del non food, per quanto interessante in alcune categorie (arredamento in primis che ha raddoppiato le vendite) pare essere molto distante dalle sue potenzialità; questa situazione è frutto di una ancora non chiarito rapporto tra store fisico e store digitale. Anzi, proprio questa visione duale è sintomo di un’arretratezza di approccio che pare non considerare come oramai i touch point tra brand e consumatori si siano moltiplicati e approfonditi.

Allo stesso modo- ed eccomi al secondo punto- è proprio l’assenza di una brand strategy che penalizza il comparto non food, i cui punti vendita sono spesso gestiti come come rassemblement di merci: quasi una provocazione in anni in cui un consumatore sempre più attento e informato non chiede solo un prodotto, ma un senso da dare alla propria relazione col retailer. E non si tratta di aggiungere servizi ai prodotti (soprattutto se il servizio- banalmente penso a un’estensione di garanzia di un prodotto hi-tech- è vista come un altro prodotto da vendere…) quanto di analizzare le domande dei Clienti e strutturare i propri store (siano questi fisici o virtuali) affinché siano in grado di dare le risposte migliori, grazie anche al fondamentale contributo delle persone che vi lavorano. Ogni contatto in uno store deve essere vissuto come un incontro, come il primo passo per una relazione, mentre spesso la formazione delle risorse umane è finalizzata a migliorarne le perfomances di vendita, con effetti in realtà controproducenti.

Nuove strategie, nuovi approcci, un nuovo coraggio insomma: ecco ciò che serve al non food per uscire dalle proprie contraddizioni e ritrovare il proprio ruolo in un Retail moderno.

@danielecazzani

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L’EMOZIONE E’ #PROMOZIONE: UNA STRATEGIA PER IL #MADEINITALY #AGROALIMENTARE E LA #GDO NELL’ANNO DI #EXPO2015

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C’è ancora chi, soprattutto nel nostro Paese, pensa che per promuovere un prodotto agroalimentare o un territorio sia sufficiente realizzare un bel marchio (anzi, chiamiamolo brand che fa più… worldwide) trascurando tutte le conseguenti implicazioni, prima fra tutte le scelte strategiche di posizionamento, la comunicazione, la pubblicità, la distribuzione e via dicendo.

Stiamo vivendo una stagione caratterizzata da una contrazione dei consumi alimentari, ma in cui, nel contempo, la qualità dei prodotti è sempre più elemento determinante nella scelta dei consumatori. E questo è valido sia nel nostro Paese quanto in Europa e, seppure con sfumature diverse, nel resto del Mondo.

Sembrerebbe quindi il momento ideale per i prodotti di qualità italiani, di cui siamo giustamente orgogliosi, ma la realtà è che pur essendo il Paese col maggior numero di prodotti DOP, IGP e STG registrati in Europa (circa un quinto del totale pari a oltre 1200 prodotti) la penetrazione di questi prodotti nel mercato domestico e internazionale è spesso di fatto marginale.

Prima di addentrarci nelle valutazioni, alcuni numeri dei prodotti con denominazione di origine o DO (fonte Ismea) ci aiuteranno a inquadrare la situazione.

Innanzi tutto il fatturato delle DO (in crescita oer effetto di incrementi di volumi e prezzi, pur con differenze tra comporti e comparti) pari a oltre 6 miliardi di euro è nella realtà generato per oltre l’80% da dieci prodotti; in particolare il podio è nell’ordine presidiato da Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Prosciutto di Parma.

L’export– pari a oltre 2 miliardi di euro- è per il 60% concentrato in Europa.

I canali di vendita vedono primeggiare la distribuzione (GDO, grossisti e dettaglio) con poco meno del 90%, mentre la vendita diretta è pari solo al 4% (in epoca di e-commerce il dato è certamente migliorabile) e poco meglio fa il canale ho.re.ca.

L’accesso ai mercati si pone pertanto come tema fondamentale per questi prodotti. Pensiamo alla GDO: per quanto questo canale permetta il contatto con l’ampio pubblico, la realtà è che spesso gli operatori della GDO non sono grado di proporlo in modo corretto al consumatore, sia per la sempre maggiore pressione promozionale proposta proprio dai principali attori del settore- che rischia di compromettere in modo drammatico le possibilità di resistere sugli scaffali per i piccoli e medi produttori di DOP, IGP e STG- sia per la scarsa o nulla capacità (o volontà) di tanti retailers i “raccontare” la storia e la qualità di questi prodotti. Per quanto vi siano nel nostro Paese esempi di brand a ciò dedicati- penso a Terre d’Italia in Carrefour e Iper e a Sapori & Dintorni di Conad- nella realtà spesso gli spazi assegnati all’interno dei punti vendita sono sacrificati, la comunicazione lacunosa, la promozione (non di prezzo) nulla: l’effetto finale è che il consumatore vede prodotti a scaffale o sui banchi serviti con prezzi maggiori dei brand di riferimento senza capirne la ragione e, con ciò, optando per altre scelte di consumo.

Tornando solo un attimo sulla pressione promozionale, pensiamo al caso dell’olio d’oliva e allo spread tra prezzi dei prodotti DO e quelli industriali sempre in offerta che altera il posizionamento prezzi della categoria nella mente del consumatore e penalizza la produzione di qualità dei primi (se posso comprare un olio extravergine di oliva in offerta a 3 euro, per quale motivo spenderne 9 per un olio di un produttore di cui non ho mai sentito parlare?).

Se poi guardiamo alle ricerche di mercato che indagano su chi sia il consumatore di prodotti DO, scopriremmo che vi è una forte concentrazione degli acquisti: vi è cioè una quota di circa il 10/15% delle famiglie che assorbe la quota maggioritaria dei consumi.

Tante, troppe, famiglie non conoscono e non comprano prodotti DO. Su questo dato influiscono certamente due aspetti: la forte attenzione al prezzo (importante per oltre il 90% delle famiglie) e il fatto che l’Italia è il Paese dove la marca (industriale) è importante ancora per circa il 70% dei consumatori (valore doppio rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna).

E’ evidente quindi che oltre ai problemi connessi al canale distributivo vi è uno spread di conoscenza che i prodotti DO devono colmare. Però se analizziamo gli investimenti pubblicitari scopriamo che (dati 2012) sono stati pari a solo 40 milioni di euro (l’80% dei quali concentrati nei consorzi Grana Padano, Parmigiano Reggiano e Prosciutto di Parma): un dato che impallidisce di fronte agli investimenti dell’industria (e della GDO).

A questo panorama si deve poi aggiungere l’italica “fantasia” (spesso simile all’anarchia) che ha portato alla nascita di una miriade di piccoli brand territoriali, che pur ponendosi il coraggioso (ma dovrei dire velleitario) obiettivo di promuovere le specialità di un determinato territorio (tra le quali tante DOP, IGP e STG), nella realtà hanno spesso e volentieri ottenuto l’unico effetto di finanziare agenzie creative e garantire qualche uscita stampa all’associazione, consorzio, ente o politico che ne sono stati fautori.

A mio avviso infatti, la nascita di questi piccoli brand è ben poco d’aiuto alla “causa” dei prodotti DO e più in generale del made in Italy agroalimentare, perché ben difficilmente avranno le risorse per farsi conoscere dal consumatore- abbiamo già detto dei limitati investimenti pubblicitari dei prodotti più famosi…- e arrivare sugli scaffali dei punti vendita, o, meglio ancora, sulla tavola degli Italiani (e dei consumatori di tutto il Mondo).

Ma la causa è tutt’altro che persa.

Vi è infatti un aspetto estremamente importante che caratterizza i nostri prodotti di qualità: la prossimità al consumatore. Grana Padano, Prosciutto San Daniele, Mozzarella di Bufala Campana (solo per citare alcuni esempi) nascono a pochi metri dalle nostre case, sono la nostra storia. I prodotti DO sono vicini ai consumatori molto più di un brand industriale che arriva nelle case attraverso la televisione o altri media.

O, meglio, lo sono potenzialmente. Perché per essere realmente vicini non basta la scarsa distanza geografica, serve il contatto col consumatore, la trasparenza, l’apertura dei luoghi di coltivazione e produzione, il contatto con le giovani generazioni. Serve cioè un nuovo approccio: non più basato sul presupposto di essere migliori per definizione- che spesso comporta la scarsa attitudine a sporcarsi le mani nell’agone del mercato- ma sul coraggio di creare momenti di contatto per trasferire emozioni ai consumatori, in modo più forte e vero di quanto possano fare i brand industriali, che da anni hanno capito come questa sia la leva per entrare nella mente e nel cuore delle persone.

Entrate ad esempio in una cantina di stagionatura del culatello di Zibello: il profumo che vi inebrierà vi dirà molto di più della migliore pubblicità…

Il contatto crea emozione; l’emozione è promozione.

Allo stesso modo è auspicabile la capacità (il coraggio) per definire un nuovo approccio alla distribuzione, finora vista come un interlocutore (controparte) ostile, seppure necessario, per fare dare uno sbocco alle proprie produzioni.

E’ evidente però che questo nuovo approccio non deve essere richiesto solo ai produttori, ma anche, soprattutto, alla distribuzione stessa che deve avere la visione e la capacità di dedicare risorse e professionalità specifiche per questi prodotti che, pur a fronte di volumi e spesso marginalità inferiori rispetto ai prodotti industriali potrebbero (dovrebbero) essere la base per un nuovo contratto di qualità tra retailer e Clienti/Consumatori.

Ciò che serve è quindi un patto tra made in Italy agroalimentare di qualità e GDO: promuovere infatti i prodotti del territorio vuol dire promuovere e arricchire i territori che proprio le insegne della GDO presidiano coi propri punti vendita. Significa mantenere viva e forte l’economia di un territorio e con essa la capacità di spesa delle famiglie. 

Sulla stessa base anche lo sviluppo all’estero del made in Italy agroalimentare dovrebbe essere perseguito attraverso un maggiore e migliore presidio dei canali distributivi, mentre ora ci si affida soprattutto ai grossisti e alle grandi catene, ma senza poi curarsi della reale qualità degli sbocchi dei propri prodotti.

Su questo fronte è certamente necessario un diverso supporto anche da parte dei Ministeri e degli Istituti ed Enti che si occupano dell’export: una migliore concertazione, il coraggio di fare qualche passo indietro e mettere a comun denominatore risorse e capacità potrebbe certamente giocare un ruolo importante nel dare nuovi mercati ai nostri prodotti.

Facendo solo un esempio penso che Eataly New York svolga un ruolo più importante rispetto a seminari, workshop e convegni organizzati negli USA dai tanti enti che si occupano del nostro export: sugli scaffali e ai tavoli di Eataly il consumatore americano può respirare, vivere, gustare e comprare le nostre eccellenze, vivendo un’esperienza di gran lunga più potente e memorabile rispetto a qualsivoglia convegno o advertising. Questo mi spinge a dire che Eataly- e i ristoranti reali interpreti del made in Italy- sono le vere ambasciate italiane negli Stati Uniti: potrà sembrare un’affermazione provocatoria, ma, come per il mercato domestico, sono certo che anche negli altri mercati solo la capacità di generare emozioni può essere di reale supporto alla promozione delle nostre eccellenze.

In caso contrario continueremo ad essere convinti di avere i migliori prodotti del Mondo, ma rischieremo che sulle tavole di miliardi di consumatori i nostri prodotti abbiano una quota sempre più marginale…

Proprio per questi motivi anche il web non può più essere trascurato come finora è colpevolmente avvenuto. La possibilità di costruire relazioni dirette coi consumatori del Mondo, l’attivazione di efficaci strategie di e-commerce non possono non essere nell’agenda di chi ha a cuore lo sviluppo di questo settore.

Non ho la sfera di cristallo per sapere se i miei auspici e suggerimenti si trasformeranno in realtà, ma ho la certezza che questo sia il momento giusto per far compiere un decisivo salto di qualità alle nostre eccellenze agroalimentari. Perderlo non sarebbe colpevole dimenticanza ma dolosa ignoranza.

Daniele Cazzani @danielecazzani

NOTA FINALE: come si potrà notare ho evitato di parlare di Expo2015 (solo accennato nel titolo del post), sia perché viene citato spesso a sproposito, sia perché a questo importantissimo evento (che ricordo tra parentesi non è la fiera dei prodotti italiani, ma un’esposizione mondiale dedicata al tema dell’alimentazione) vedo attribuite aspettative taumaturgiche di rilancio dell’Italia tutta che temo possano essere smentite. Pensiamo sì all’Expo 2015 e facciamo in modo che possa essere una splendida vetrina per i nostri prodotti, ma pensiamo anche al dopo Expo2015 e a quei milioni di consumatori del Mondo che non lo visiteranno…

Il #mobile e la nuova socialità immobile: paure e opportunità per #GDO e #Retail

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I retailers nostrani (e in particolare la #GDO) hanno coscienza di quale mutamento del Consumatore sia in atto grazie (anche) alla diffusione del mobile e alle nuove possibilità tecnologiche di connessione e interazione che i nuovi device abilitano?

Ma prima di dare una mia risposta (ovviamente opinabile) faccio un passo indietro. Non avrei che l’imbarazzo delle scelta nel proporre i più recenti dati sullo sviluppo del mobile nel nostro Paese, attingendo ai dati dell’Osservatorio Mobile & Marketing (www.osservatori,net) del Politecnico di Milano (www.polimi.it) piuttosto che ai dati Audiweb o di altri Istituti di Ricerca.

I mobile device infatti sono oramai parte integrante della nostra vita (a breve l’accesso al web dal mobile supererà quello dal PC…) e ci permettono una connessione continua (anche nei momenti interstiziali, un tempo vuoti di contatti, come, ad esempio, una poco piacevole coda in autostrada) e quindi un potenzialità di relazione prima inimmaginabile.

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Fatte salve alcune rare eccezioni, finora la reazione a questo mutamento di paradigma è stata la PAURA: paura di vedere svuotati i proprio negozi fisici a favore dei negozi virtuali (magari della concorrenza) tanto che showrooming è diventata una parola in grado di far rabbrividire tanti manager (senza che ne capiscano bene il motivo a onor del vero…). Tale timore dimostra, a mio avviso, un drammatico ritardo da parte di tanti retailers, innanzi tutto perché in realtà web e mobile non significano solo ecommerce, i cui tassi di crescita sono sì promettenti, ma la cui quota sui consumi reali, perlomeno di beni fisici- pensiamo al grocery- sono ancora fermi allo zerovirgola. Inoltre la moltiplicazione delle possibilità di relazione coi propri Clienti (o più genericamente Consumatori) dovrebbe essere visto con favore da parte di tanti operatori che per anni si sono riempiti la bocca dicendo che al centro delle proprie strategie v’erano appunto i Clienti, mentre in realtà l’ombelico strategico era cosa riservata alla funzioni Acquisti e Vendite e non certo al Marketing. Pensiamo solo alla GDO e al suo rapporto con l’IDM: v’è forse traccia del Cliente/Consumatore (e delle sue esigenze) nel paradigma organizzativo e commerciale con cui approcciano il mercato? O non è forse la sola pressione sui volumi di vendita a guidare le loro scelte (ecchissenefrega – mi si perdoni l’inglesismo- se il Cliente non chiede volumi ma solo un chiaro contenuto di qualità ai giusti prezzi)?

Lo sviluppo del mobile non è quindi una minaccia, anzi è un’incredibile opportunità. Ma NON un’opportunità per veicolare al consumatore altra pubblicità: anche in questo caso i dati di sviluppo del mobile advertising sono interessanti, ma infinitesimali rispetto al valore della pubblicità nel suo complesso. Lo smartphone e il tablet non sono altri schermi per spot di dubbia efficaci, ma piattaforme relazionali.

Relazioni che assumono una valenza ancora più forte se inquadrati nel più generico fenomeno dello sviluppo dei social network, che vede nel mobile il device preferito proprio perché SEMPRE al proprio fianco e- altro elemento assolutamente fondamentale- del tutto PERSONALE.

La nuova socialità aiutata e incentivata dal mobile è però una socialità immobile: è possibile restare in contatto con la propria cerchia di amici, partecipare ad eventi, commentare trasmissioni TV o Radio senza muoversi dal proprio divano. Questo aspetto, spesso sottovalutato a mio avviso, è fondamentale per i retailers che continuavano a vedere i propri store come naturali centri di aggregazione. Tale funzione non sarà certo cancellata dal social mobile ma gli store fisici potranno aggregare solo se saranno in grado di offrire ai propri Clienti ESPERIENZE e VALORI; in caso contrario la virtualità sarà sempre più premiata dai Consumatori, proprio perché li lascerà più liberi di definire i tempi delle Relazione. Ci vorranno certamente degli anni per erodere le quote del commercio tradizionale fisico, ma l’erosione sarà tanto più veloce quanto più i retailers saranno lenti nel capire come sia cambiato l’ambiente sociale in cui si muovono e come i Consumatori siano nuovi, non tanto per il naturale (fisiologico) cambiamento di gusti e tendenze, quanto per le nuove possibilità di approccio e confronto che i web prima e il mobile oggi mettono loro a disposizione.

Da questo punto di vista la #GDO si trova in una posizione ancora più critica, proprio perché spesso priva di contenuti sul fronte dell’Esperienza e dei Valori fruibili dai proprio Clienti nel punto vendita fisico: un’ennesima sfida per un settore che da tanti, troppi, anni sta rimandando il confronto coi propri errori e limiti, sperando inutilmente che una ripresa dei consumi (solamente attesa finora) permetta di rimandare a un lontano futuro un salto evolutivo nella propria organizzazione.

Nota finale: ho scritto questo post seduto sul divano, twittando di tanto in tanto in risposta ad amici che come me stanno seguendo una trasmissione TV, e interagendo con la mia pagina Facebook; ad un certo punto ho interrotto la stesura del testo per aprire la porta all’addetto che mi ha portato a casa la spesa ordinata online.

Non sono multiscreen, non sono multichannel: smettiamola di etichettare i Clienti/Consumatori con neologismi degni del miglior Asimov: continuiamo a chiamarli Carlo, Roberta, Marco… Persone insomma. Loro sono cambiate raccogliendo la sfida e le opportunità dei nuovi device e dei nuovi media. Retailers  e GDO possono dire altrettanto?

@danielecazzani

Il cliente è mobile. Il retail è mobile?

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Mobile marketing, mobile commerce, mobile payment, mobile advertising e via dicendo sono termini oramai entrati nel gergo comune di professionisti e riviste, siti internet, blog del mondo retailing. Si potrebbe dire che se negli anni Novanta del secolo scorso era sintomo di modernità parlare di Internet ed e-commerce, nel secondo decennio del XXI Secolo pare che il must sia avere una app. Con il rischio, come accaduto nel primo caso, che spesso a fare da traino allo sviluppo di un settore siano elementi di moda e tendenza- o più prosaicamente la ricerca di nuovi strumenti per fare business una volta avviati al tramonto vecchi media- piuttosto che una reale conoscenza e competenza sulle potenzialità dei nuovi strumenti e sul loro ruolo nell’ambito della proprio business. Aumentano gli smartPhone Senza citare dati specifici- l’evolversi del settore porta a un invecchiamento precoce di tabelle e torte- si può dire che l’aumento di vendite di smartphone nel corso del 2011 è stato davvero esaltante in tutto il mondo (con mercati che hanno toccato tassi di crescita del 100%) e anche in Italia il numero dei nuovi device in circolazione (circa 20 milioni) supererà fra non molto quello dei vecchi e semplici (sigh) telefoni cellulari. Nulla di cui stupirsi nel Paese, il nostro, che vanta il maggior numero procapite di SIM e in cui il cellulare ha una diffusione e penetrazione nella popolazione oramai paragonabile a quella della vecchia tv. E’ quindi evidente come a breve gli smartphone sostituiranno tutti i vecchi cellulari, restringendo il campo d’azione dei pc e notebook- si stima che nel 2013 gli accessi al web da smartphone supereranno quelli da pc- già insediati dall’altro fenomeno dei tablet; in entrambi i casi il forte sviluppo è dato dalla diffusione di tariffe flat da parte degli operatori telefonici e dalla sempre maggiore propensione degli Italiani alla navigazione in Internet (e non solo, come spesso si immagina, nelle fasce più giovani della popolazione). Lo smartphone e il negozio Preso atto che prima o poi tutti noi saremo dotati di uno smartphone, la vera domanda da porsi è come questo fatto possa influire sulla relazione tra retailer e cliente o consumatore. ,Al momento, come detto in apertura, pare che l’obiettivo sia quella di avere un’app, il che in tutta onestà pare una visione quanto meno limitante per le potenzialità di questo media. Restringendo il campo d’analisi al settore della GDO sono già state lanciate alcune applicazioni (Esselunga, Bennet e Auchan per citarne alcune) che offrono i seguenti servizi: store locator, orari e aperture straordinarie punti vendita, promozioni (normalmente limitata alla visualizzazione del volantino, fatta eccezione di Esselunga in cui il cliente può navigare tra le offerte dei diversi reparti anche extra volantino), informazioni sulla carta fedeltà (saldo punti nel caso di Bennet ed Esselunga). Dalla competenza commerciale a… Le iniziative fin qui avviate paiono quindi concentrarsi, per l’ennesima volta, sulla componente commerciale della relazione ovvero sulla promozionalità mass market,- ignorando di fatto una delle caratteristiche più importanti del nuovo device, ovvero la possibilità di personalizzazione e interazione- mentre non vi sono attività di customer service (la prenotazione di un premio senza il vincolo di recarsi presso il punto vendita ad esempio) oppure attività promozionali mirate al singolo cliente, o progetti che prevedono che il cliente dialoghi con l’insegna durante l’esperienza di acquisto. E’ probabile che mentre scrivo alcune di queste evoluzioni siano già in cantiere- come detto il settore è estremamente mutevole- ma la sensazione che, per lo meno nella GDO, l’approccio alla nuova frontiera del mobile assomigli, purtroppo, a quanto avvenuto all’avvento di Internet (ad oggi vi sono ancora molti siti che rappresentano mere vetrine aziendali senza tenere in alcun conto il cliente).

Concludo con un rimando a un filmato che in varie circostanze è stato trasmesso e commentato proprio per supportare le argomentazioni a favore dell’incredibile sviluppo del mobile: il caso della metropolitana di Seoul in cui Home Plus (ovvero Tesco in Corea) ha allestito con dei pannelli che replicano gli scaffali di un punto vendita; i clienti leggono il codice del prodotto per inserirlo nel loro carrello virtuale che, grazie alla consegna a domicilio, la sera si trasforma in carrello reale. Al di là del fatto che un cliente potrebbe fare la spesa col suo smartphone seduto in metropolitana anziché sulla banchina, la domanda che pongo è: che spesa è in grado di fare una persona in circa due minuti ( tempo massimo di attesa di una carrozzo nella metropolitana della capitale sudcoreana)? O qualcuno pensa che i sempredicorsa Coreani se ne stiano in banchina a fare la spesa vedendo sfrecciare le carrozze sui binari dietro i pannelli? Non ho in progetto trasferte in Asia ma mi piacerebbe conoscere qualcuno che abbia visto dal vivo il progetto…

Daniele Cazzani @danielecazzani