Una #GDO fuori forma, una vecchia trapunta e nuove antenne di #marketing (con un occhio a #Google)

E’ legittimo che la GDO si lamenti per la difficile e lenta ripresa dei consumi? Certo! Lo è meno se nel farlo si lasciano per strada opportunità di vendita…

Prendiamo l’esempio del mese di gennaio. Dopo la grande abbuffata di dicembre (le vendite hanno registrato un segno positivo dopo una partenza del mese sottotono) gennaio sembra essere partito col piede sbagliato, in territorio negativo come registrato da A&F e Nielsen.

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Non ho l’ambizione di proporre in poche righe risposte alla domanda “cos’è successo?”, ma segnalo come i numeri negativi arrivino in un inizio anno caratterizzato da forti azioni promozionali da parte della GDO: sconti gridati, come il “30-40-50%” di Esselunga o le “Grandi Marche al 50%” di Carrefour tanto per citare due big del settore.

Queste azioni sono spesso supportate dalla classica “Fiera del Bianco”: promozione le cui origini si perdono nella notte dei tempi…

Eppure a gennaio vi è un grande trend che pare essere stato ignorato dai più.

Gennaio è infatti il mese delle buone intenzioni e del rammarico per gli eccessi alimentari durante le tavole natalizie.

E’ il mese delle iscrizioni in palestra e dell’inizio delle diete (certo, febbraio è tutta un’altra storia…).

Non si tratta di sensazioni ma di fatti. Se non riteneste sufficiente chiedere al collega o all’amico, basterebbe guardare il seguente grafico che identifica l’andamento delle ricerche su Google a livello mondiale per “get fit” e “lose weight” (i numeri sono poi confermabili anche a livelli di singola country) per avere conferma di quanto detto.

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Ebbene, a fronte di questa domanda di benessere e leggerezza la GDO come risponde? Con ipersconti sui soliti prodotti ricchi di grassi e zuccheri e con qualche lenzuolo…

Così una domanda di benessere che va oltre la palestra- una ricerca sul mercato britannico (invito chi vuole a leggere l’articolo citato in calce a questo post) dimostra infatti come vi sia un’impennata di consumi anche di healty food– resta senza risposta, perché inascoltata da un settore che troppo spesso torna vittima dei propri tic promozionali (vedasi la citata Fiera del Bianco).

Per concludere, rapidamente, vi sono molte opportunità da cogliere là fuori, ma bisogna avere antenne pronte e curiose; insomma un nuovo marketing che sia in grado di scaldare i fatturati della GDO più di una vecchia trapunta…

Ready?

@danielecazzani

PS

Per chi fosse interessato ecco l’articolo di The Economist che ha “ispirato” questo contributo:

https://www.economist.com/news/business/21734459-while-low-cost-offerings-democratise-gym-business-fancy-ones-are-raising-bar-gyms

Due volantini, il potere d’acquisto delle famiglie italiane e il ruolo sociale della GDO

Nel novembre 2013 (vedi qui https://newmarketingretail.com/2013/11/20/quando-i-supermercati-imitano-male-i-discount-che-imitano-meglio-i-supermercati-e-gli-ipermercati/ ) avevo discusso della “rincorsa” ai discount da parte di iper e super preoccupati di accreditarsi come altrettanto convenienti agli occhi dei consumatori.

Il punto di partenza dell’analisi era stato un piccolo volantino di Esselunga.

Oggi mi è capitato tra le mani un volantino simile che mi porta ad alcune riflessioni.

Nel 2013 (quasi quattro anni fa) la promessa era “una spesa completa a meno di 15 euro” e presentava un paniere (opinabile, come argomentavo nel post) di 20 prodotti per un importo complessivo di 14,78 euro.

Il volantino di oggi (sotto la promessa “Tutti i giorni, il più conveniente” che identifica i prodotti primo prezzo sugli scaffali dell’insegna di Pioltello) dichiara invece “una spesa completa a meno di 20 euro”. Il paniere oggi è di 25 articoli e l’importo complessivo è di 19,99 euro (mi chiedo, a margine: che fine faranno questi “giochetti” coi 99 centesimi quando saranno eliminate le monete da 1 cent di euro?).

Pignolo come sono mi sono preso la briga di confrontare i due volantini e annotare su quello attuale i prezzi dell’edizione 2013 come potete sotto leggere (ho artigianalmente riportato a penna il prezzo 2013 a fianco del prezzo attuale, spero in modo leggibile).

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Partendo dalla nota che i panieri risultano sostanzialmente omogenei, risulta evidente come in 4 anni i prezzi della maggior parte dei prodotti confrontabili non siano aumentati, risultando in alcuni casi addirittura diminuiti.

Pur confermando tutti i miei dubbi sull’efficacia di questo strumento e messaggio– altre sono, a mio avviso, le leve di contrasto verso i discount come già argomentavo nel 2013- non si può non evidenziare come avere mantenuto negli anni stabili i prezzi dei prodotti si sia tradotto in un importante fattore di tutela del potere d’acquisto dei consumatori.

Oltre ad Esselunga azioni simili sono state messe in atto da altri importanti player del settore.

Per quanto sia vero che gli ultimi due anni sono stati addirittura caratterizzati da una leggera deflazione, sarebbe sbagliato non riconoscere questo importante risultato e contributo della GDO alla condizione di vita delle famiglie italiane.

Ciò detto la Distribuzione vede difficilmente riconosciuto questo proprio ruolo sociale.

Anzi, a volerla dire tutta, la Distribuzione gode spesso di cattiva stampa, additata come speculatrice (pensiamo alle ricorrenti polemiche sui prezzi dell’ortofrutta dal campo al supermercato) e con debole capacità di lobbying su temi quali la tracciabilità dei prodotti, l’etichettatura, la normativa fiscale (pensiamo al tema IVA) e via dicendo (fatto salvo alcune iniziative di singole insegne che sono state meritoriamente in grado di portare sul tavolo della politica temi importanti).

Mi chiedo come questo sia possibile.

La Distribuzione rappresenta un importante settore dell’economia del Paese e ha peculiarità e ruoli (pensiamo alla promozione dei prodotti made in Italy e certificati) che nessun altro attore potrebbe svolgere con altrettanta efficacia (certo migliorabile).

Forse la sua frammentazione e la sostanziale debolezza degli organi di rappresentanza della Distribuzione ne sono una prima spiegazione, ma sarebbe interessante aprire un dibattito sul tema.

Chi vuole cogliere questo spunto?

@danielecazzani

Gli Ipermercati e il Non Food. I pesi massimi della GDO dal gigantismo alla crisi di identità..

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Prendo spunto da un recente articolo di Retailwatch.it Retailwatch -Carrefour – Non Food    nel quale il direttore Luigi Rubinelli si chiedeva cosa ne sarebbe stato del Non Food in Carrefour in seguito alla scelta del CEO George Plassat di concentrarsi sul Food (che già rappresenta l’83% delle vendite del gigante francese della Distribuzione).

E’ a tutti noto come proprio il Food sia stato il comparto della GDO che più ha sofferto in questi anni, sia a causa  della riduzione dei consumi che della concorrenza delle GSS (anch’esse in grande crisi a onor del vero) e della crescita dell’e-commerce (che invece, per ora, ha solo marginalmente toccato l’ambito grocery)

Un insieme di fattori certamente critici che però ha colto la GDO impreparata, come già prevedevo nel lontano 2013 La GDO e il Non Food: aspettando Godot!?

La Grande Distribuzione ha infatti sempre gestito il Non Food come un complemento dell’offerta, gestendolo lungo gli assi dell’ampiezza e profondità dell’assortimento, con minimi investimenti sulla formazione del personale dedicato, contrariamente a quanto fatto nel Food dove si è capito quanto sia importante coltivare le competenze e i mestieri.

Da questa visione (miope) nascevano i gigantismi (tipici di Carrefour) con spazi del Non Food moltiplicati all’infinito, dove a perdersi non era solo la ratio dell’assortimento e della strategia commerciale, ma anche il cliente che per effettuare una spesa minima era costretto a chilometri di faticosa ricerca tra scaffali e “mondi” (di dubbia concezione).

L’e-commerce ha poi evidenziato come non vi sia gigantismo che regga di fronte agli infiniti spazi d’offerta di una piattaforma on line.

Dal sostanziale fallimento di quella stagione si è passati al momento dei tagli, ovvero alla riduzione di superficie di tanti di quegli ipermercati-monstre che erano stati salutati come il sole all’avvenire per la Distribuzione,

Ecco quindi il concentrarsi sul Food. Infatti i più interessanti sviluppi dei formati della distribuzione negli ultimi anni hanno avuto proprio come focus il Food, soprattutto su negozi di piccole e medie dimensioni: la prossimità è divenuta così il nuovo spazio per testare nuove soluzioni di vendita, nuovi assortimenti, nuovi servizi.

La scelta di un ipermercato di concentrarsi sul Food se intesa solo come una redistribuzione degli spazi e un lavoro sui consueti assi assortimentali rischia però a mio avviso di non essere efficace. Aumentare l’offerta Food non può essere sufficiente.

Ampiezza  e profondità sono certamente elementi importanti, ma un iper non può pensare di vincere la sfida Food rispetto a supermercati o superstore solo quel fronte: il servizio, la prossimità al bisogno, la frequenza d’acquisto, la conoscenza del cliente sono elementi importanti che hanno premiato (o penalizzato meno) i formati più piccoli in questi anni.

Infatti alcuni di questi elementi (pensiamo alla frequenza d’acquisto) vedono in partenza gli ipermercati perdenti, non fosse altro che per la localizzazione normalmente extra-urbana (almeno nel nostro Paese).

Per questo non posso immaginare che il prossimo step evolutivo degli iper sia quello di essere solo dei supermercati per così dire iper-vitaminizzati.

Il cambiamento deve essere a mio avviso più culturale e di approccio ai mercati. Da questo punto di vista aprirsi ai territori è certamente un passaggio importante: non più assortimenti generalisti ma declinati sulla storia dei territori e sui comportamenti di consumo di chi li abita.

Finiper da questo punto di vista rappresenta un esempio nel mondo degli ipermercati, offrendo in tanti casi ai propri clienti (penso a ortofrutta e formaggi) un’importante proposta di prodotti locali che avvicinano il Cliente e l’Insegna rendendo tangibile una comunione di interessi che è parte importante della nuova relazione che il consumatore ricerca.

Ciò detto, l’aspirazione a rispondere a un ampio ventaglio di bisogni del consumatore può (deve) restare obiettivo importante e fondante della formula iper.

Certo i bisogni Non Food vanno individuati con attenzione, focalizzandosi su quelli più importanti e integrabili coerentemente con la propria offerta Food, costruendo attorno ad essi assortimenti mirati, competenze e professionalità dedicate (ambito nel quale anche gli specialisti Non Food hanno tanto spazio da recuperare…).

Nel passato abbiamo visto ipermercati vendere autovetture, contratti luce e gas e chissà cos’altro!? Non è certo quello il modello che propongo. In quei casi si è trattato quasi sempre di insuccessi perché ogni volta l’insegna non era che il paravento dietro al quale si muovevano altri fornitori e quell’offerta era “straniante” per il cliente.

La nuova offerta andrà poi integrata laddove necessario con altrettanto efficaci piattaforme di e-commerce, perché la GDO può legittimamente continuare a ignorare che il consumatore sia multicanale ma il consumatore no…

In sintesi il nuovo Non Food deve essere presidiato dall’Insegna, dalle sue Persone e deve essere coerente con le proprie strategie, per divenire punto di forza del proprio posizionamento.

Anche in questo caso vi sono esempi virtuosi (penso sempre a Finiper e alla proposta di alcuni mondi Non Food come shop in shop all’interno dei propri ipermercati) a dimostrazione che questa strada, certamente non facile, è percorribile.

Un Distribuzione che giochi in difesa, scappando dal Non Food, rischia solo di compiere il primo passo verso un ulteriore arretramento, quando i nuovi player dell’e-commerce saranno pronti a presidiare in modo efficace anche una propria offerta Food.

Un comportamento assurdo se pensiamo alla forza della Distribuzione, alla sua capillarità territoriale e alla conoscenza del cliente (se solo si mettessero a valore i dati transazionali e comportamentali del Cliente raccolti negli anni coi programmi loyalty!).

Ecco perché ritengo che quella del Non Food sia per la GDO una sfida ancora tutta da giocare, certamente non persa a meno di non voler restare in attesa ancora una volta di Godot…

@danielecazzani

 

#Disabilità e #retail: quante barriere a una strategia inclusiva?

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Sabato 3 dicembre è stata la Giornata Internazionale delle Disabilità. Vorrei qui condividere una mia brevissima riflessione su come il retail potrebbe e dovrebbe affrontare questo tema, partendo da un semplice dato: in Italia sono circa 3 milioni le persone con forme di disabilità.

Quello delle barriere architettoniche è tema noto ai più, ma spesso si pensa che queste siano costituite solo dai gradini sui marciapiedi, o dalle strade dissestate; o ancora che il problema principale sia la mancanza di posti auto dedicati alle persone con disabilità o la presenza di dislivelli agli ingressi di un negozio… Certo quelle citate sono vere e proprie barriere per le persone con disabilità motorie, ma l’elenco delle difficoltà che un disabile deve affrontare all’interno di un negozio è ahimè molto più ricco.

E’ infatti indubbio che anche i negozi moderni siano spesso dei labirinti di trappole e strettoie ostiche per chi non abbia la piena libertà di muoversi o abbia altre disabilità (all’udito, alla vista…).

Pensiamo a un supermercato.

L’altezza degli scaffali- con la connessa impossibilità di raggiungere i prodotti esposti- o di alcune attrezzature di aree a libero servizio (le ceste e le bilance dell’ortofrutta), o ad altri elementi di servizio (come i terminali pos alle casse), la larghezza stessa dei corridoi casse, o la spesso caotica comunicazione di prezzo (talvolta di dimensioni così minime da mettere in difficoltà chiunque), unita al disordine che spesso regna nelle corsie- con scatole abbandonate ai piedi degli scaffali- possono rendere il fare la spesa una sfida quasi impossibile alle persone con disabilità.

Se pensiamo che “fare la spesa” dovrebbe costituire un diritto “minimo” per un disabile, possiamo forse immaginare (solo immaginare) quanto il vedersi preclusa questa possibilità possa costituire una ferita alla dignità della persona.

Personalmente ritengo che quella preclusione dovrebbe essere ritenuta una ferita anche per un retail moderno.

L’e-commerce da questo punto di vista è privo di barriere e i servizi che è in grado di offrire- pensiamo alla consegna a domicilio- rappresentano a tutta evidenza una risposta efficace ai problemi della disabilità.

Risposte e servizi spesso non disponibili ovunque né per tutte le categorie di spesa e con costi talvolta superiori a quelli del retail tradizionale. Così che all’assenza di barriere “tecniche” si sostituisce la presenza di barriere economiche.

Quella degli spazi fisici è certamente solo uno degli ambiti di intervento per il retail sul tema della disabilità, senza con questo precludere interventi in altri campi (penso ad esempio alla formazione del personale per una corretta gestione relazionale della clientela con disabilità).

Progettare i negozi pensando a tutta la propria clientela, è certamente una sfida importante per il retail di oggi e di domani.

La capacità di coglierla e vincerla sarà a mio avviso segno di una visione capace di mettere davvero al centro il cliente e di una strategia pienamente inclusiva e non esclusiva.

In conclusione mi piace immaginare che le associazioni di categoria e i principali attori del retail italiano, sappiano farsi attori protagonisti di questo percorso, magari fissando a un anno da oggi un momento di incontro per fare il punto sui passi avanti compiuti e le sfide ancora da cogliere. Insieme. A beneficio di tutti i propri clienti.

Grazie per l’attenzione.

@danielecazzani

#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

L’alba della #GDO: un #Fiat Ducato e degli zaini che trasportano milioni di #euro.

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Scendono. Uno a uno. Silenziosi. Il viso assonnato. Gesti rapidi. Poche parole (quasi a non voler disturbare il nascente giorno). Lo zaino viene rapidamente riempito da mani che sbucano dal portellone di un Fiat Ducato (il cui colore blu lotta da anni contro un’indolente ruggine). Ad un cenno del capo dell’uomo appena sceso dal posto guidatore, tutti partono in direzioni diverse, come particelle impazzite in un reattore nucleare. Il furgone si rimette in moto e dopo alcuni borbottii, si perde in un altra via…

Ma cosa trasporta quel furgone arrugginito? Carta. Certamente. Ma carta che vale milioni di euro.

Quella descritta è infatti la scena che si svolge quasi quotidianamente nelle vie di città e paesi, e che da il là alla distribuzione di quei volantini promozionali che sono una delle colonne portanti della nostra GDO.

La filiera del volantino, oltre ad assorbire buona parte delle risorse professionali nei rapporti Industria-Distribuzione, drena incredibili risorse anche dal punto di vista economico. La sua ideazione, stampa e distribuzione assorbe infatti budget sempre crescenti, perché negli anni ne è aumentato il numero, la fogliazione e la tiratura.

Ciononostante il campo della distribuzione door to door è rimasto un settore grigio, marginale: quello in cui si è disposti a investire meno come se l’ultimo miglio non contasse poi molto.

E’ però evidente tutta la limitatezza di una simile visione. Che senso ha approcciare in modo approssimativo il momento fondamentale, quello in cui il volantino (che è il frutto di ore di trattative, e che innesca una serie di attività logistiche e gestionali sul punto vendita di grande impatto) può arrivare nelle mani del (potenziale) Cliente?

Certo la distribuzione dei volantini presenta tanti e tali variabili che diviene estremamente difficile riportarla nel novero delle attività scientificamente organizzabili, ma chiudere gli occhi non è probabilmente la soluzione ideale.

Anche per questo si è provato negli anni a immaginare soluzioni di monitoraggio sia interne, in accordo col fornitore del servizio (controllo tramite gps), che esterne (con società che controllano chi distribuisce), ma la sensazione è che si sia cercato di intervenire ex post su questo aspetto.

Paradossalmente l’aumento nell’ampiezza dei bacini e nella numerica dei volantini (per un ipermercato di buone dimensioni si può parlare anche di centinaia di migliaia di pezzi) sono stati visti come una risposta alla dispersione naturale che si ritiene insita in questa attività, con l’effetto però di darne per acquisita e accettata l’approssimazione.

Alla base di questo tema dovrebbe invece innescarsi una progettualità più attenta delle aree da coprire con tale servizio (che per il consumatore ora è affiancato, o affiancabile, anche da altri strumenti come il volantino digitale o le app mobili, piuttosto che i siti di aggregazione dei volantini della distribuzione) e una misurazione dei risultati delle singole operazioni promozionali.

La mia esperienza professionale mi ha portato a misurare negli anni risposte ben diverse in base alla tipologia di promozione. Se una promozione sottocosto porta a un ampliamento del bacino di clientela (con aumenti della redemption, superiori anche al 200% anche nelle aree periferiche) una più prosaica e generica operazione “taglio prezzo” rischia invece di investire il bacino tradizionale con piccoli effetti sia sul numero clienti che sugli altri parametri (ad esempio lo scontrino medio).

E’ evidente quindi che la definizione dei bacini andrebbe messa sul tavolo al momento dello studio del palinsesto promozionale, come elemento determinante dei risultati attesi.

In conclusione, i manager della GDO farebbero bene a prestare maggiore attenzione alle prime ore del giorno: rischiano infatti di essere quelle fondamentali per i propri obiettivi di budget più della riunione del mattino! La soluzione non sta certamente nel chiedere ai manager di salire su quel furgoncino, ma nello studio attento dei bacini, nella selezione attenta dei propri partner e nel monitoraggio dei comportamenti dei propri Clienti come strumenti per guidare quell’ultimo miglio da cui tanto dipendono i risultati di cifra e margine.

@danielecazzani

Il #volantino promozionale e il punto vendita: dicotomie e schizofrenie della #GDO

La pressione promozionale è prossima al 30% ma le più recenti analisi dimostrano che la sua efficacia si è andata via via riducendo… Cerchiamo di vedere le cose dal lato di un Cliente, tralasciando per un attimo le determinanti nel rapporto Industria e Distribuzione che hanno portato a questa situazione.

Nelle proprie cassette postali un consumatore riceve quasi quotidianamente almeno un volantino promozionale.

Apriamo quindi la cassetta postale. Vi sono manager della GDO che hanno paragonato la distribuzione door to door dei volantini a un delicata bussata alle porte dei consumatori. Immagine quasi bucolica, se non fosse che nella realtà la sequenza di bussate a lungo andare diviene tutt’altro che piacevole, generando un effetto di rigetto automatico. A quanti è capitato che un vicino di casa, un condomino, decidesse di default di svuotare una cassetta postale condominiale straboccante di carta?

Questo è anche determinato dal fatto che spesso riceviamo nella cassetta più volantini della stessa insegna e che le date di consegna variano così come variano le durate delle singole promozioni, che spesso si sovrappongono, senza un apparente ordine così che la possibilità di azzeccare la prossima data di consegna è pari a quella di fare “sei” al superenalotto. Può sembrare una banalità ma sarebbe così assurdo dare date certe alla ricezione del volantino, così da trasformarlo in un momento di incontro programmato se non addirittura atteso da parte del Cliente fedele (o perlomeno attento) alle promozioni di una particolare insegna?

Pesiamo ora il volantino. La numerica delle pagine è andata via via aumentando, così che spesso quello che ci si trova tra le mani assomiglia a una versione moderna di un vecchio catalogo postalmarket.

Osserviamo il volantino. Normalmente il titolo è gridato e promette “convenienza” e “risparmi” da non perdere: proprio come la nota catena di divani che ogni settimana ci invita ad approfittare dell’offerta imperdibile dell’anno, salvo poi, la settimana successiva, ripresentarsi con un nuovo spot tv che lancia una nuova offerta ancora più imperdibile, confidando evidentemente nella scarsa memoria a breve termine dei consumatori.

Sfogliamo il volantino. La sequenza dei reparti varia da volantino a volantino, e per evidenti motivi non è in grado di seguire il personalissimo percorso merceologico del Cliente all’interno di un qualsivoglia punto vendita. Così a volte la sequenza dei reparti prevede freschi-scatolame-nonfood mentre altre volte le prime pagine sono dedicati a offerte non alimentari e via variando (il calcolo combinatorio piace agli uffici marketing). A volte le offerte della medesima categoria merceologica sono polverizzate in più pagine: alcune nella normale pagina di categoria, altre nell’inserto di un determinato fornitore, altre ancora nella pagina riservata agli sconti per i titolari della carta fedeltà etc.

Già questa prima rapidissima descrizione del percorso che si chiede al Cliente di compiere per leggere il volantino, dovrebbe indicarci quanti e quali spazi di miglioramento vi siano. A guidare il racconto dell’offerta dovrebbe essere la consapevolezza delle esigenze del Cliente non il (talvolta astruso) risultato di un braccio di ferro tra uffici marketing, comunicazione e commerciale.

Ma poniamo caso che il Cliente decida, volantino alla mano (sappiamo bene quanto il volantino aiuti nella costruzione della lista della spesa), di recarsi nel nostro punto vendita.

Una volta arrivato il dilemma sarà dove trovare i prodotti in promozione. In un’area promozionale? Nella corsia e sullo scaffale dove sono normalmente esposti? Normalmente qui e là. Dopo tutto a tutti piace rivivere l’emozione di una caccia al tesoro, no?

Battute a parte- ma nessuno legge le ricerche di mercato che dicono quanto sia importante il fattore tempo nel fare la spesa?- capita spesso di non trovare un fil rouge tra volantino promozionale e punto vendita che spesso vivono di una comunicazione “fatta in casa” dove i codici colore della promozione saltano; dove quello che sul volantino si chiama “offerta” ed è scritto in rosso, sul locale di volta in volta si chiama “promozione” o “prezzo speciale” e cambia colore più di un camaleonte di corsia in corsia.

Sappiamo bene tutti come un punto vendita sia ricco di sollecitazioni per l’occhio e la mente del Cliente- a partire dal packaging dei prodotti- quindi potrebbe essere già un ottimo risultato lavorare con attenzione sulla comunicazione promozionale, identificando forme, colori e parole che permettano al Cliente tra gli scaffali un agile matching tra la promessa del volantino e la realtà dello scaffale.

Questa situazione, che di primo acchito potrebbe sembrare una distrazione o un difetto di coordinamento, denuncia a mio avviso una mancata centralità del Cliente nelle visione del retailer. Si chiede infatti proprio al Cliente di adattarsi alle variazioni sul campo della comunicazione, della disposizione della merce, anziché cercare di migliorarne la shopping experience che non è fatta di parole e promesse, e non è titolo da convegno, ma si compone più banalmente (!?) di attenzioni e servizi sul punto vendita.

Un altro elemento che abbatte l’efficacia promozionale è poi dato dalla schizofrenia promozionale della GDO.

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Vediamo questa foto. Un sabato pomeriggio in un ipermercato. Alla ricerca di scatolette di tonno incontro a poca distanza l’una dall’altra 3 offerte per formati identici o comunque simili!? Eppoi vorremmo misurare l’efficacia della leva promozionale!? Perlomeno dovremmo evitare scelte di auto-cannibalizzazione tra identiche offerte che nulla aggiungono al Cliente (tre proposte per rispondere sempre al medesimo bisogno!) e inficiano gli sforzi di marginalità di Industria e Distributore.

Si tratta a tutta evidenza di un mero esempio, ma la mia conclusione è che per migliorare le vendite, e l’efficacia della promozione, la strada da seguire non è tanto quella di aumentarne ancora l’intensità, quanto quella di eliminarne le schizofrenie e progettarle sforzandosi di vederle con gli occhi del Cliente partendo dai fondamentali: la promozione deve essere rilevante (deve esserne comprensibile il beneficio), efficacemente comunicata a volantino e nel punto vendita, evitando che questi due parlino linguaggi diversi, visto che l’interlocutore (il Cliente) è sempre lo stesso.

@danielecazzani

E=mc2 la formula vincente per una nuova #prossimità (e una nuova #GDO)

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La Distribuzione è solita ragionare in base ai volumi e ai metri quadri. Partendo da qui si distinguono i vari format, dai grandi ipermercati, ai supermercati per arrivare alle superette, avendo però difficoltà ad inquadrare fenomeni “ibridi” come i discount o nuovi come i category store, perché nella realtà a volte poco o nulla dicono ai Clienti.

Ma torniamo ai metri quadri, in base ai quali si parla di prossimità per i locali al di sotto dei 450 metri quadri (format che insieme ai supermercati copre oltre la metà dei consumi nel nostro Paese). Tali locali, proprio per le loro dimensioni, risultano poi inseriti in quartieri cittadini o piccoli agglomerati, identificandosi col concetto del “negozio sotto casa”.

Recenti dati diffusi da Nielsen e commentati in diverse sedi (si veda qui ad esempio GDONews http://www.gdonews.it/2015/06/01/la-lenta-ripresa-della-prossimita/) documentano come proprio la prossimità stia registrando una crescita dei fatturati e abbia resistito meglio alla crisi (abbia cioé dimostrato una maggiore resilienza, come si è soliti dire), mentre ipermercati e (inaspettatamente, per qualche distratto) i discount registrano segni negativi.

E’ vero che proprio l’Italia dimostra come i grandi players stranieri (che si muovono mediamente su strutture di medie-grandi dimensioni) abbiano spesso incontrato difficoltà (per tanti versi questo è un eufemismo) nell’affrontare i mercati locali, mentre realtà italiane caratterizzate da una maggiore capillarità territoriale (e format mediamente più piccoli) siano state in grado di raccogliere risultati migliori; migliori, non regalati, e spesso frutto di importanti rinnovamenti intrapresi nelle strategie commerciali e di marketing.

Potrei citare gli esempi di Conad (affermatosi come uno dei più dinamici player nazionali) o Unes che col format U2 ha dimostrato come vi sia spazio per un’intelligente politica di every day low price, che non esaurisce certo la strategia d’insegna, fatta, tra le altre cose, di attenzione al made in italy e all’ambiente, o ancora Crai che ha fatto della prossimità (intesa anche come ridotte superfici) un punto di forza e non un minus.

Molti oggi raccontano questi dati della prossimità come un’ovvietà, sottacendo le enormi difficoltà organizzative e gestionali che i piccoli locali devono affrontare (pensiamo alla logistica ad esempio) in un settore dove i volumi contano e dove la controparte ha il “peso” dell’Industria.

Nello sviluppo della prossimità l’associazionismo ha costituito certamente un importante strumento, in grado di bilanciare il peso dell’Industria e di offrire servizi (logistici e commerciali) a supporto anche di piccoli operatori che avrebbero altrimenti rischiato di non reggere l’impatto con le grandi strutture di vendita.

Per quanto vi siano importanti esempi anche in altri Paesi, penso infatti che l’associazionismo costituisca una delle formule più propriamente italiane nella distribuzione moderna e sono personalmente convinto che non potrà essere la prolungata crisi dei consumi e le tensioni del mercato a metterla in crisi.

Penso però che il punto cruciale per il futuro sia dare un nuovo significato alla parola “prossimità”: questa non dovrà più identificare una collocazione geografica o un parametro dimensionale del negozio, ma descriverne la strategia.

Essere un negozio di prossimità nel 2015 deve significare non essere piccoli, ma essere prossimi alle esigenze dei propri Clienti: conoscerne i bisogni, le caratteristiche e attorno a queste costruire i negozi, gli assortimenti e le politiche commerciali.

Questa attenzione dovrebbe essere nel DNA proprio di un struttura associativa, perché formata da imprenditori che hanno costruito relazioni nei territori coi propri Clienti giorno dopo giorno, condividendone i mutamenti degli stili di consumo e di vita e costruendo attorno a questi la propria offerta (ci si chiede mai quanto sia critico costruire un assortimento efficace quando si hanno pochi metri lineari a disposizione e pochi addetti per far funzionare un negozio?).

Se invece il centro, ovvero il minimo comun denominatore delle strutture di servizio (commerciali e logistiche) diventa più importante della prossimità (come sopra l’ho intesa) ecco che il risultato rischia di essere molto simile a quello che spesso vediamo nei grandi operatori stranieri: ci si focalizza sull’interno, e al contempo aumenta la distanza coi Clienti e, subito dopo, quella dai propri obiettivi di business.

Ecco il senso della formula che propongo per il successo della prossimità (e dell’associazionismo):

E=mc2

L’energia prodotta (ovvero il risultato economico) è pari al quadrato della moltiplicazione della massa (ovvero la struttura centrale o associativa) per la velocità di attenzione strategica al Cliente.

Servono infatti servizi efficienti ed efficaci (m) e una dinamica (e rapida) attenzione al Cliente e ai suoi bisogni (c) da attuarsi anche con un utilizzo evoluto di strumenti come le carte fedeltà e le nuove piattaforme sociali, il tutto basato però su un forte e chiaro posizionamento d’insegna.

Ancora una volta cito Conad e Unes come esempi di strutture (solo una delle quali associativa) che ad esempio nella campagna #prodottodove per l’indicazione dello stabilimento di produzione sulle etichette dei prodotti, dimostrano una particolare attenzione alla richiesta dei propri Clienti di una maggiore trasparenza sul lato dell’offerta; e questa cos’è se non prossimità modernamente intesa?

Dopo averne stravolto la formula più importante e nota, mi permetto in conclusione di citare una frase di Albert Einstein, sostituendo la parola “vita” con l’espressione “fare commercio”:

Fare commercio è come andare in bicicletta: se vuoi restare in equilibrio devi muoverti.”

Oggi più che mai equilibrio non significa immobilismo, ma capacità di muoversi in modo rapido e coordinato. Proprio come accade ai ciclisti, la surplace– ovvero il rimanere immobili nella propria posizione (ovvero idea)- è gesto affascinante per qualche secondo, ma nel commercio rischia ben presto di essere noioso (per i Clienti) e controproducente (per i propri conti economici), soprattutto quando i tuoi avversari scattano.

@danielecazzani

Un nuovo #NONFOOD per un nuovo #RETAIL: riflessioni a margine del 13mo Osservatorio NonFood @GS1Italy

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Lunedì 29 giugno a Milano GS1 (indicod-ecr.it) ha presentato i risultati della tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food che ha evidenziato come questo comparto abbia beneficiato della lieve ripresa nel 2014 dei consumi della famiglie italiane, con un incoraggiante +0,6% (che pone fine ad anni di pesanti flessioni pur lasciando la quota dei consumi non alimentari al di sotto del 15%).

Questo dato è evidentemente la media di situazione molto diverse tra i tanti comparti dell’universo non alimentare ma ciò nondimeno è un segnale positivo in un anno che ha visto una contrazione importante (-7%) nei punti vendita e la crisi aziendale di importanti player, uno dei quali solo due anni fa, proprio in occasione dell’Osservatorio Non Food dichiarava invece di avere individuato una nuova strategia, poi risoltasi in un leggero make-up dei propri punti vendita (evidentemente non apprezzato dai consumatori).

Preso atto dei numeri la domanda fondamentale da porsi a questo punto è però: il non alimentare ha raggiunto questo risultato grazie a nuove strategie e nuovi approcci oppure ha beneficiato della generale (mini)ripresa dei consumi?

Mia opinione è che il risultato sia ascrivibile in buona parte al secondo fattore, perché a fianco di alcune interessanti novità (cito lo svilippo di Ikea e, anche se relativa al 2015, l’arrivo in Italia di Zodio) gli ipermercati e tanti storici retailers specializzati paiono essere ancora in una situazione di stallo decisionale.

Pensiamo agli ipermercati che fino a poco tempo fa vedevano nel non food non dico la gallina dalle uova d’oro ma certamente un comparto da sviluppare (pensiamo ad alcuni “gigantismi” testati, con scarso successo, da insegne non italiane) e che ora invece stanno riducendo gli spazi, prendendo così atto che il non food non è affatto un’arena competitiva più facile del food: anche qui servono competenze, risorse umane (bello che se ne sia parlato ampiamente a Milano!) e strategie di medio lungo periodo.

Un altro piccolo esempio su un comparto- quello della GDO- che mi sta sempre a cuore. Avete presenti i settori libri e videogiochi di alcuni ipermercati: spazi dimenticati, dove l’assortimento pare essere stato disegnato dal caso (o dal caos?), con una noncuranza che stride rispetto all’attenzione al display merchandising che giustamente regna negli altri reparti. Mi chiedo: che senso ha destinare metri quadri (e lineari) di vendita a tali merceologie, per poi nella realtà abbandonarle (o come nel caso dei libri, darli in gestione esterna) come fossero corpi estranei. Ecco, la GDO dovrebbe fare questo: smettere di vedere il non food come un corpo estraneo rispetto alla propria anima food. Anche solo dal punto di vista della cultura manageriale sarebbe un gran passo in avanti.

Tornando ai numeri sono molti gli ambiti nei quali il non food è chiamato a fare di più e qui ne citerò solo due.

Ad esempio, in un anno che ha visto l’e-commerce crescere del 17% il risultato del non food, per quanto interessante in alcune categorie (arredamento in primis che ha raddoppiato le vendite) pare essere molto distante dalle sue potenzialità; questa situazione è frutto di una ancora non chiarito rapporto tra store fisico e store digitale. Anzi, proprio questa visione duale è sintomo di un’arretratezza di approccio che pare non considerare come oramai i touch point tra brand e consumatori si siano moltiplicati e approfonditi.

Allo stesso modo- ed eccomi al secondo punto- è proprio l’assenza di una brand strategy che penalizza il comparto non food, i cui punti vendita sono spesso gestiti come come rassemblement di merci: quasi una provocazione in anni in cui un consumatore sempre più attento e informato non chiede solo un prodotto, ma un senso da dare alla propria relazione col retailer. E non si tratta di aggiungere servizi ai prodotti (soprattutto se il servizio- banalmente penso a un’estensione di garanzia di un prodotto hi-tech- è vista come un altro prodotto da vendere…) quanto di analizzare le domande dei Clienti e strutturare i propri store (siano questi fisici o virtuali) affinché siano in grado di dare le risposte migliori, grazie anche al fondamentale contributo delle persone che vi lavorano. Ogni contatto in uno store deve essere vissuto come un incontro, come il primo passo per una relazione, mentre spesso la formazione delle risorse umane è finalizzata a migliorarne le perfomances di vendita, con effetti in realtà controproducenti.

Nuove strategie, nuovi approcci, un nuovo coraggio insomma: ecco ciò che serve al non food per uscire dalle proprie contraddizioni e ritrovare il proprio ruolo in un Retail moderno.

@danielecazzani

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La matematica di Fido e Fuffi: strategie per il #petcare e il #petfood nella #GDO

canegatto

Quel segno “più” nel fatturato 2014 dei comparti petfood e petcare della GDO risaltano come due rigogliose oasi in un deserto costellato di “meno” e dove l’arsura della crisi inizia a far vedere pericolosi miraggi a tanti operatori, che sembrano avere smarrito la via (e la speranza) di rivedere la ripresa dei volumi.

I dati sulla presenza di animali domestici in Italia sono piuttosto noti, con oltre 60 milioni di animali- praticamente in rapporto 1:1 con la popolazione- tra i quali oltre 14 milioni tra gatti (in leggera maggioranza) e cani. Il 50% delle famiglie possiede infatti un cane o un gatto, il che significa che un Cliente su due di un qualsivoglia punto vendita della GDO è un proprietario di pet: un dato di cui tenere conto. Tra i principali aspetti del rapporto uomo-animale di compagnia- oltre al fatto di considerarlo “di famiglia” ed avere un effetto benefico sulla tenuta della famiglia, la riduzione dei litigi e dello stress, l’aiuto alla socializzazione ecc- è importante registrare (in base a recenti ricerche Eurisko e IRI) come oltre il 96% delle persone proprietarie di cani e gatti si dichiari molto attento alla salute del proprio animale domestico. Questo aspetto impatta fortemente sulle scelte di acquisto e quindi sui dati della categoria. Torniamo infatti ai numeri. Pur a fronte di una contrazione dei volumi (che molti imputano anche alla sempre maggiore presenza di animali di piccola taglia nelle famiglie italiane) l’incremento dei fatturati degli ultimi anni è stato determinato da due distinte tendenze:

  1. una sempre maggiore attenzione al benessere degli animali, che si concretizza nella ricerca di prodotti di fascia premium superpremium, e
  2. una sempre maggiore attenzione alla riduzione degli sprechi, che premia packacing più piccoli, monoporzione, e per questo di prezzo maggiore rispetto a confezioni di maggiore grammatura.

Qualità/benessere e servizio sono quindi stati i driver della crescita e dell’evoluzione degli assortimenti sia nei canali tradizionali che nella citata GDO, dove l’evoluzione è stata caratterizzata, tra le altre cose, da una forte presenza dei prodotti a marchio- dapprima a coprire le funzioni base, poi sviluppatosi anche nei servizi, accessori e nelle fasce premium– tant’è che oggi le private labels in questa categoria coprono circa il 50% dei volumi e più del 30% del valore (ben superiore quindi al 18% medio delle PL nel totale del largo consumo confezionato). In questo mercato la GDO assorbe buona parte del volume/valore delle vendite (con una quota pari a circa il 60%) ma è ancora forte il peso dei petshop tradizionali (33%) e delle catene che stanno registrando incoraggianti tassi di crescita a due cifre nelle vendite. La GDO dovrebbe chiedersi se la decrescita del canale tradizionale debba ineluttabilmente avvenire a favore delle catene, col rischio di trovarsi nella condizione di subire nel breve-medio periodo una riduzione dei fatturati anche in un comparto/mercato in crescita, così come è avvenuto in passato nelle categorie della detergenza, igiene e pulizia casa che ha visto l’affermarsi degli specialisti drugstore che negli ultimi anni segnano tassi di crescita straordinari soprattutto se paragonati all’agonico stallo di ipermercati (e, in minor misura, supermercati),  avendo acquisito un ruolo di vero e proprio category killer di diverse categorie. A caratterizzare i petshop tradizionali e le catene è una maggiore ampiezza e profondità degli assortimenti rispetto alla GDO che presenta mediamente 450 referenze a fronte delle oltre 1200 dei primi e le quasi 1800 delle catene.

In tale contesto la GDO potrebbe pertanto pensare che la strada più agevole per intromettersi nella guerra sempre più cruenta tra negozi tradizionali e nuove catene passi, più che da un incremento nell’utilizzo della leva promozionale, attraverso un arricchimento dell’assortimento. In questa direzione si è mosso recentemente un importante operatore della GDO attraverso lo spin-off del reparto petfood e la creazione di uno store dedicato in cui è in grado di offrire un assortimento assolutamente in linea con quelle delle più note catene. A parte ovvie considerazioni sulle reali disponibilità di spazio (metri quadri e metri lineari) nei propri locali, ritengo che la GDO così facendo perderebbe l’opportunità di sfruttare il proprio status di punto di vendita “olistico” per il consumatore che non è solo un proprietario di animale domestico e il cui rapporto col proprio cane o gatto non si limita all’acquisto del sacco di crocchette o della scatoletta di carne. Insomma, solamente ampliando lo sguardo sui propri Clienti, sarebbe possibile individuare importanti spazi per offrire servizi ed esperienze in grado di contrastare in modo efficace i negozi tradizionali e le catene, che, pur con diverse accezioni, risultano ancora fortemente concentrati sull’offerta di prodotto, caratterizzandosi spesso, né più né meno che come supermercati del petfood.

In conclusione quella del petfood e del petcare è un’opportunità che ad oggi la GDO ha saputo sfruttare solo in parte, mentre nei prossimi anni la crescente maturità del settore e una sempre maggiore tensione concorrenziale comporterà scelte importanti che potranno trasformarsi in segni “più” ancora più rassicuranti o in nuovi e conosciuti segni “meno”.

@danielecazzani

NOTA METODOLOGICA– I principali dati citati nel presente articolo sono tratti da una ricerca IRI commissionato da Assalco nel 2014.