CONOSCERE IL CLIENTE. UN IMPERATIVO PER IL RETAIL

Estratto della mia intervista sul ruolo del CRM nel Retail, a margine dell’evento It’s All CRM organizzato da Brainz a Milano nello scorso autunno.

https://youtu.be/J2UDgAdy0pE

Buona visione

@danielecazzani

IL MIO 2018 CON MARKUP (thanks to @Clazzati) TRA RETAIL, MARKETING, CRM, LOYALTY E CUSTOMER EXPERIENCE

Non sono solito fare bilanci di fine anno, ma il 2018 è stato per caratterizzato per me dalla collaborazione con MarkUp, la rivista più importante per il retail, che leggo da quando ho iniziato ad occuparmi di marketing e retail (tanti, tanti anni fa…).

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Apprezzo e stimo enormemente l’attenta direzione di Cristina Lazzati.

Diamocelo infatti: uno dei più diffusi difetti di tanti retailer è avere lo sguardo concentrato sul proprio ombelico, mentre MarkUp ci aiuta (o costringe?) a guardare altrove, oltre i nostri confini per cogliere le sfide del futuro (che spesso è già il presente per i nostri Clienti).

Non potevo quindi che accettare con entusiasmo l’invito di Cristina ad unirmi al qualificato gruppo di opinionisti che già collaboravano con la rivista.

Altro elemento gratificante è stata la possibilità di spaziare tra tanti argomenti, sempre inerenti il Marketing e il Retail- ca va sans dire- ma con una libertà che all’interno delle organizzazioni è spesso negata, vigendo ancora visioni fordiste del management.

Ecco così una sintesi dei temi che ho toccato nel corso di quest’anno:

  • GENNAIO-FEBBRAIO. Le emozioni saranno il futuro dei CENTRI COMMERCIALI.
  • MARZO. Ripensare i programmi LOYALTY per i nuovi consumatori.
  • APRILE. L’ECOMMERCE e le colpe del RETAIL brick & mortar.
  • MAGGIO. Il NON FOOD e le PROMOZIONI.
  • GIUGNO. Il ruolo delle VETRINE nei nuovi stores.
  • LUGLIO-AGOSTO. Il GDPR come nuovo patto tra Retail e Clienti.
  • SETTEMBRE. INTELLIGENZA ARTIFICIALE e Retail.
  • OTTOBRE. Il NON FOOD alla prova dell’ecommerce.
  • NOVEMBRE. I BIGDATA  e la visione univoca del Cliente.
  • DICEMBRE. Le mie non-previsioni per il 2019 del Retail.

Certo, la scelta dei temi e l’approccio alla discussione, sono opinabili, ma confido di avere aiutato qualche riflessione su un settore sempre più dinamico e chiamato e reinventarsi giorno dopo giorno, a ritmi finora sconosciuti.

Un sentito ringraziamento a tutti coloro che mi hanno fin qui letto e a quelli che lo faranno in futuro, ma soprattutto un grazie di cuore a Cristina!

 

Daniele Cazzani

Head of Retail Customer Experience

Salmoiraghi & Viganò (Luxottica Group)

MENO GURU E CARTOMANTI PER IL RETAIL. LE MIE NON-PREVISIONI PER IL 2019

A fine anno si moltiplicano le previsioni sul futuro del retail, spuntano guru, opinionisti rimasti in letargo per mesi ma pronti a snocciolare i “10 fondamentali trend” nel nuovo anno e via dicendo… Insomma sembra di trovarsi al luna-park di fronte a quelle macchinette che con pochi cent promettono di svelarti il futuro.

Mi asterrò pertanto dal vestire i panni della cartomante per mantenere i più consoni (almeno così voglio immaginare) panni del marketer che da vent’anni vive e lavora nel e per il Retail.

Pur sapendo che i manager del Retail nutrono una forte e volubile passione per le mode, non posso però che augurarmi che il 2019 sia l’anno dei sostantivi e non- ancora una volta- quello degli aggettivi (spesso effimeri come un hashtag).

Per questo mi auguro che il nuovo anno sia innanzi tutto quello dei Clienti. Punto. Non multicanale o, come si suole dire ora, omnichannel; semplicemente… Clienti.

Negli anni abbiamo registrato un proliferare di aggettivi per spiegare il nuovo comportamento d’acquisto dei consumatori, le nuove modalità di relazione- sempre più peer to peer– verso i brand e retailer e la sempre maggiore complessità di una journey in cui il zero moment of truthrisulta spesso inafferrabile come una moderna Primula Rossa.

Mi auguro per lo stesso motivo che sia l’anno dei Clienti senza aggettivazioni generazionali. Basta parlare solo dei millennialscome se si trattasse della nuova terra dell’eden, senza invece considerare che un Paese come il nostro vedrà una sempre maggiore polarizzazione della popolazione verso le fasce d’età più mature cui sembra interessarsi solo l’Istat e qualche analisi sociologica…

Ancora, confido che l’e-commerce diventi semplicemente… commerce. L’ansiogena attenzione verso Amazon e il connesso provinciale stupore col quale se ne se seguono le scelte, dimostrano che il Retail tradizionale (altro aggettivo da eliminare!) non ha ancora capito che Bezos ha successo perché ha del commercio due elementi fondamentali: la visione e la capacità di innovare (cioè rischiare).

Il Retail deve poi riscoprire l’intelligenza, ovvero, la capacità di attribuire significati ad avvenimenti a partire da quell’esperienza quotidiana che ha con migliaia di Clienti (in un negozio, su un sito web, su una pagina social, tramite un call center o un chatbot….).

Ho volutamente parlato di intelligenza tralasciando uno degli aggettivi più gettonati del momento: quell’artificialdi cui molto si parla ma che ben pochi hanno saputo oggi declinare in modo efficace a favore del Cliente. Perché l’AI possa divenire strumento efficace è infatti prima necessario capire chi sia il Cliente e quali siano gli elementi che possono dare valore alla nostra relazione con lui. Ma purtroppo questo fondamentale passaggio preliminare è troppo spesso colpevolmente tralasciato…

Infine mi auguro che il 2019 sia l’anno dei data, anche non necessariamente… big!

La grande mole di dati prodotti dai sempre più numerosi touchpoint tra Retail e Cliente ha costretto le aziende Retail a grandi investimenti in infrastrutture IT, ma non ha comportato un correlato incremento negli investimenti in competenze e, peggio ancora, non è stata risolta la frattura tra IT e Marketing che è il vero freno organizzativo alla creazione di una “cultura del dato” all’interno delle aziende, con la conseguenza che spesso i big data restano semplicementetoo big to… become information.

Voglio finire con un termine utilizzato soprattutto nella sua englsh version e abbinato agli aggettivi più vari (personale, memorabile, multicanale, ecc.): parlo ovviamente dell’esperienza che anziché essere vista come un mosaico di tanti anche minuscoli tasselli (alcuni tangibili, altri tangibili) è troppo spesso raccontata come entità filosofica, senza capire che per poterla rendere leva strategica per il business è necessario tradurla in organizzazione, competenze, metriche.

Per quanto ho detto nella prima riga non ho alcun elemento per dire se il 2019 sarà così come l’ho voluto augurare.

Ma ho una certezza.

Quello sarà il mio 2019.

Buon anno e buon Retail a tutti!

Daniele Cazzani

Head of Retail Customer Experience

Salmoiraghi & Viganò

THE FAB FOUR: #LOYALTY, #HAPPINESS, #AI AND #EXPERIENCE (note a margine dell’OF2018)

Nell’importante cornice dell’Auditorium Paganini di Parma, lo scorso venerdì, si è svolta la 18ma edizione dell’OSSERVATORIO FEDELTA‘, promosso dalla Prof.ssa Cristina Ziliani dell’Università di Parma, col contributo (davvero apprezzabile) di tanti giovani studenti oltre che di ricercatori, partner e qualificati relatori.

Come sempre è stata un’occasione importante per fare il punto sulla Loyalty e capire quali siano le sfide che attendono uno “strumento” nato a metà dell’ottocento (i famosi stamp di alcune catene americane) e che continua ad evolvere a ritmo sempre più rapido.

Da affezionato partecipante all’incontro (ricordo ancora quando si svolgeva all’interno di un’aula dell’Università…) voglio qui condividere 3 cose che mi è parso importante annotarmi.

1. LA LOYALTY E’ ESPERIENZA

La parola (spesso abusata a onor del vero) è riecheggiata più volte all’interno dell’auditorium forte e chiara. I programmi loyalty devono andare ben oltre il semplice rewarding, e non focalizzarsi solo sui servizi e il CRM.

La loyalty è oramai strettamente connessa con l’esperienza. Quest’ultima però per essere determinante deve essere:

  1. personale
  2. relazionale
  3. memorabile

Senza entrare nel dettaglio invito solo i retailer brick & mortar a focalizzarsi sul secondo aggettivo, investendo sulle proprie risorse umane: l’unica leva che può costituire un valore aggiunto tangibile e non replicabile dall’ecommerce (anche Amazon è stata più volte riecheggiata nella sala, non in quanto operatore online ma per il suo approccio al negozio fisico, come con Amazon 4-star )

L’esperienza deve poi essere coerentemente declinata in ottica omnichannel, perché così è oramai il consumatore volenti o nolenti (ne prenda atto anche BestWestern che invece pare “discriminare” il cliente nel proprio programma loyalty in base al canale di prenotazione delle camere…).

Solo così l’esperienza potrà trasformarsi in fiducia e questa, a sua volta, sostenere la fedeltà in un ambiente competitivo sempre più denso e con meni steccati, dove il consumatore riceve continuamente sollecitazioni e stimoli.

2. LA LOYALTY E’ FELICITA’

Qual è l’obiettivo della loyalty?

Dobbiamo premettere che ancora una volta è emerso come vi sia confusione sulle metriche della fedeltà (alcuni retailer guardano ancora al fatturato come indicatore, sic!) mentre dovrebbero essere acquisiti kpi’s quali retention, RFM, LTV (Life Time Value) e SOW (Share of Wallet).

Chiarito il tema delle metriche, è stato detto come l’ambizioso obiettivo della loyalty debba essere la FELICITA’ del proprio cliente.

Felicità: un’emozione potente che dilata il flusso del tempo, togliendo così tanti alibi a retailer che lamentano che i clienti hanno poco tempo per lo shopping; in realtà i consumatori dedicano poco tempo allo shopping non piacevole, che non li renda cioè felici.

Perché il nuovo paradigma del consumo è il consumo del tempo.

Felicità: un’emozione potente che le persone sempre più vogliono condividere, innescando potenti strumenti di emulazione e diffusione.

3. LA LOYALTY E’ AI

Forse non oggi; certamente domani. L’intelligenza artificiale (AI) sarà sempre più parte integrante delle strategie loyalty ma solo nell’ottica di migliorare l’esperienza dei propri clienti.

L’AI avrà un impatto su tanti temi legati all’experience del cliente, a partire dal search online, la previsione dei comportamenti, la reccomendation, la personalizzazione dell’esperienza, il social listening, il customer support e via dicendo.

La voce inoltre diverrà sempre più la nuova interfaccia di relazione coi propri clienti, grazie allo sviluppo degli smart device che diverranno loro i veri attori della journey dei consumatori (che ad essi si affideranno per consigli, liste della spesa ecc.).

Ma non avrebbe senso avere chiari i 3 punti sopra indicati, se la loyalty non divenisse  CULTURA MANAGERIALE, permeando l’organizzazione delle aziende, per essere poi declinata sotto 3 distinti aspetti:

  • strategia,
  • management (gestione continuativa, misurazione, continous emprovement),
  • comunicazione (execution nei diversi touchpoints della value proposition della loyalty).

In conclusione i marketer devono prendere atto che si sta aprendo una nuova era, quella della LOYALTY DELL’ESPERIENZA.

Sul mio account twitter @danielecazzani potrete trovare altri spunti di riflessione e commenti a margine dell’OF 2018 che come detto è stato ricco di stimoli anche su altri temi, quale l’integrazione tra loyalty e strumenti di pagamento.

Vi ringrazio per l’attenzione!

 

Daniele Cazzani

Head of Retail Customer Experience S&V

(Luxottica Group)

INTELLIGENZA ARTIFICIALE (AI) E RETAIL

Pubblico di seguito il mio intervento riportato sul numero di settembre 2018 di MarkUp.

 

Intelligenza Artificiale.

Argomento sempre più trattato in incontri, seminari e convegni. Di fatto fattore che sempre più nei prossimi anni sarà disruptive per strategie e organizzazioni nel retail.

Anziché sull’aggettivo vorrei però porre l’attenzione sul sostantivo. Intelligenza: con questa parola intendo didascalicamente riferirmi alla capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e dall’esperienza.

E dunque, oggi quanto è intelligente il retail? Si parla di Big data e non c’è dubbio che la quantità di informazioni oggi disponibili sui nostri clienti sia davvero impressionante. Eppure da consumatori si ha spesso la sensazione che il retail non ci conosca e continui a farci proposte che non tengono conto delle nostre preferenze. Certo si dirà che questo challenge è più facile per gli eTailer. Tuttavia che un retailer “tradizionale” non sappia riconoscere un cliente in modo univoco nonostante i sempre più numerosi touchpoint dimostra, più che una lacuna tecnica, una lacuna culturale, forse solo in parte dipendente da una storica contrapposizione tra It e marketing.

Se il cliente deve essere al centro delle strategie del retail (da quanti anni sentiamo ripeterlo?) il retail deve conoscerlo, anche abbattendo barriere di incomunicabilità e gelosie tra funzioni.

All’interno di questo nuovo paradigma le carte fedeltà possono, devono, assurgere a un ruolo centrale attraverso i diversi touchpoint. Ancora una volta è Amazon a dimostrare come questa sia la strada vincente con la trasformazione di Amazon

#GDPR: c’é Grande Disordine e Panico nel Retail?

Riprendo ed estendo con una nota organizzativa e “culturale” il mio contributo pubblicato sul numero di luglio/agosto di MarkUp.

La recente entrata in vigore del GDPR ha certamente posto il Retail di fronte a tante sfide, a partire dalla necessità di ottemperare a una serie di disposizioni di grande impatto sui sistemi informativi e sull’organizzazione interna per la gestione dei dati dei propri Clienti.

Quanto occorso col caso Cambridge Analytica (per non parlare dei recenti scossoni in borsa al titolo di Facebook) ha reso evidente come il tema della protezione dei dati sarà sempre più importante: se negli USA è in corso un dibattito sulle lacune di un normativa alquanto lasca sul tema, in Europa i cittadini hanno avvertito quanto i propri dati possano essere potenzialmente in pericolo.

Proprio partendo da queste evidenze sarebbe opportuno che il Retail cogliesse l’opportunità data dal nuovo GDPR per ripensare al ruolo dei dati.

Infatti, se è vero che da anni il tema dei big data è sul tavolo (da ping pong) di CMO e CIO, è anche evidente quanto ancora manchi nel Retail una “cultura” del dato come cardine della relazione coi propri Clienti.

Il fatto che i Clienti permettano al Retail di registrare, analizzare e utilizzare i propri dati (dalle informazioni socio demografiche, al record delle transazioni e via dicendo) dovrebbe poggiare su un accordo chiaro- undo ut dessi direbbe in latino- che dichiari come si intenda valorizzare i dati per trasferire valore ai propri Clienti. E’ sufficiente leggere invece una informativa privacy per capire come questo patto non venga mai dichiarato, trincerandosi dietro parole vuote e arzigogolati riferimenti normativi.

Eppure i dati costituiscono, a ben pensarci, la memoria della relazione tra Cliente e Retail e hanno per questo un incredibile valore (per entrambi): valorizzarli è obiettivo strategico.

L’auspicio quindi è che il Retail non abbia visto il GDPR non come uno scoglio da superare, ma piuttosto come un nuovo punto di partenza nella relazione con la propria clientela.

Ed eccomi all’addendum con nota culturale.

L’entrata in vigore del GDPR ha dimostrato per l’ennesima volta- se mai ve ne fosse bisogno- come uno dei grandi problemi del Retail moderno sia nell’organizzazione.

Infatti, come una rapida chiacchierata con manager di diversi settori e funzioni evidenzierebbe, la gestione di questo importante passaggio ha visto infatti lavorare spesso a compartimenti stagni le diverse funzioni aziendali coinvolte.

In primis il Legal e l’IT che palesano spesso grandi difficoltà nell’entrare sui temi propri del Marketing (quale la gestione di un customer database).

Ma la sensazione peggiore (suffragata da esperienze nei panni del cliente) è che proprio il personale dei negozi sia stato poco o per nulla coinvolto in un passaggio che invece- come detto sopra- vede al centro proprio quella relazione col Cliente di cui proprio loro sono snodo strategico.

Insomma, l’adeguamento al GDPR rischia di essere stata un’occasione persa per fare quel salto culturale e organizzativo che metta il Cliente al centro non solo delle strategie (obiettivo già difficile) ma anche dell’organizzazione aziendale di un Retail che voglia pensare al futuro.

Il futuro del #Retail, la rivoluzione culturale della #Loyalty e il #CXM

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La loyalty ha un grande passato alle spalle e, soprattutto, un grande futuro di fronte.

Infatti, come emerso nel corso del recente LoyaltyLab organizzato a Milano da Comarch, se i programmi fedeltà sono nati spesso come risposta alla necessità di conoscere “qualcosa” dei propri clienti, oggi appare evidente come la sfida per la loyalty sia quella di essere elemento centrale nella strategia di posizionamento del Retail e non più uno dei volani di trasmissione delle politiche commerciali o, peggio ancora, mero strumento di retention.

Come ben rappresentato nell’intervento di Cristina Ziliani (Osservatorio Fedeltà Università di Parma) la Loyalty ha percorso una lunga strada, partendo dalle raccolte bollini per essere oggi declinata come app, brand currency (Starbucks), media platform (Amazon Prime) ecc.

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Così, oggi, parlare di programma fedeltà e di catalogo premi risulta fuorviante e limitativo (si facciano un esame di coscienza le tante insegne della GDO che a questo si limitano…), perché sempre più la Loyalty deve essere elemento centrale della customer shopping experience. Non perché lo dica qualche studioso o manager, ma perché è il Cliente a chiederlo.

Già il caso Amazon Prime dimostra come vi sia oggi spazio per Loyalty scheme del tipo “pay to play”, ma la precondizione è che lo scheme sia un experience-scheme…

Dopo tutto oramai si parla non più di CRM ma di CXM (Customer Experience Management): affinché non si tratti di un’ennesima moda terminologica è però necessario che si produca una reale presa di coscienza dei cambiamenti in atto e delle incredibili opportunità connesse allo sviluppo di un nuovo paradigma della Loyalty,

Un nuovo paradigma che deve far convivere ragione e sentimento, pragmatismo ed emozione. Infatti agli elementi tangibili del programma (meccanismi di rewarding in primis) devono aggiungersi elementi intangibili, più afferenti le componenti di servizio ed emozionali per il singolo Cliente.

I prodotti sono in gran parte imitabili dai propri competitors, ma la relazione che si instaura col proprio Cliente non può esserlo. La Loyalty con la capacità di conoscere, misurare e capire il Cliente per offrire a questi quanto desiderato (o anche più di quanto desiderato) può così fare la differenza.

La Loyalty in sintesi non è affatto solo un algoritmo tecnico, né una card plastica, ma nemmeno un’app. E’ molto di più. La Loyalty è oggi chiamata a cucire tutti i touchpoints tra insegna e Cliente per disegnare un’autentica architettura relazionale.

Ma cosa serve alla Loyalty per fare questo salto di qualità? Una rivoluzione culturale che deve coinvolgere tutta la struttura interna del Retail.

I Loyalty Manager però non devono attendere che (miracolosamente) il proprio CEO bussi alla porta dell’fficio per chiedere aiuto e supporto.

Devono anzi uscire dalle proprie stanze (e dai propri powerpoint…) per dimostrare come la Loyalty possa aiutare l’insegna nelle proprie strategie e nel confronto con arene competitive sempre più affollate e difficili. La Loyalty deve parlare coi numeri.

Una volta “portati a bordo” i CEO servirà trasmettere il valore della Loyalty a tutto il field e alla persone che sono a contatto coi Clienti affinché siano tutti Loyalty ambassador. Nessun loyalty program può funzionare se non risulta in grado di ingaggiare per primi i propri dipendenti.

Basta guardare- e ancora una volta grazie a Cristina Ziliani per la capacità che ha di evidenziare i veri cambiamenti del mercato- il caso di Amazon Prime che diventando nei fatti non solo il loyalty program di WholeFoods ma soprattutto il vero collante di una fusione tra digital e brick&mortar- che tanti dubbi aveva suscitato- sta dimostrando l’incredibile potenzialità della Loyalty.

La Loyalty in sintesi può essere IL NUOVO CONTRATTO TRA RETAIL E CLIENTE, e come tale svolgere il ruolo di autentico baricentro nelle strategie aziendali, togliendo dal tavolo la domanda (stucchevole) se l’obiettivo sia il drivetostore o il drivetoweb, per sostituirla con un ben più concreta alternativa: il drivetous ;).

Il consumatore è pronto a sottoscrivere questo contratto. Il Retail?

@danielecazzani

 

RINGRAZIAMENTI

Un sentito ringraziamento a Comarch Italia che mi ha invitato a partecipare alla tavola rotonda che ha chiuso i lavori del LoyaltyLab2018.

#LOYALTY GENERATION GAP

DI SEGUITO L’EXTENDED VERSION DEL MIO ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI MARZO 2018 DI MARKUP.

Baby boomers, generazione x, millennials, generazione z… Non v’è dubbio alcuno che sempre più il concetto di generazione risulti essere importante nelle strategie del moderno retail.

L’attenzione ai millennials e alla- ancora più giovane- generazione z è testimoniata da ricerche, convegni e studi che però spesso sembrano sottacere il fatto che proprio queste giovani generazioni, da tanti retailer viste come nuova terra di conquista, in realtà sono caratterizzate da un basso indice di fedeltà ai brand e, soprattutto, da un basso potere di spesa.

Non che vi sia nulla di cui stupirsi: pensando al panorama italiano, basta considerare come queste generazioni siano in realtà composte da giovani spesso disoccupati, o con contratti a tempo determinato o stage- cui sono correlati bassi livelli salariali- e che vivono in molti casi coi propri genitori fin oltre i trent’anni.

Potere di spesa a parte, certamente l’entrata nel mercato di queste generazioni- avvezze fin da subito ai nuovi digital device- ha avuto un impatto anche sui media utilizzati dai retailer, visto che la tv (almeno quella tradizionale) diventa sempre meno importante nella dieta mediatica quotidiana dei giovani, a favore del web e del social, arene nelle quali infatti tanti retailer si sono forzosamente e spesso affannosamente gettati.

E’ inoltre importante non cadere in facili stereotipi, come quello che abbina nuove generazioni ed e-commerce.

Come dimostra infatti una recente ricerca svolta da Accenture nel mercato USA i giovani consumatori nati dopo il 2000 (la generazione z di cui sopra) preferiscono effettuare acquisti negli store brick & mortar, non via e-commerce, pur pretendendo di trovare i retailer presenti anche sul web o nei social, con un coerente approccio multicanale.

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Se cerchiamo però di valutare l’impatto del nuovo composit generazionale sui programmi loyalty, dobbiamo prendere atto di come si siano registrate minime innovazioni su questo fronte negli ultimi anni.

Come se i retailer, su altri fronti pronti a rivedere assortimenti, politiche promozionali e piani media, sul lato della loyalty avessero immaginato che tutto potesse rimanere com’era.

Purtroppo non è così.

Millennials e generazione z sono, come clienti, ben diversi dalla precedente generazione x o ancor più dai baby boomers. Non parlo ovviamente di gusti o preferenze per questo o quel prodotto, ma di approccio al consumo e di orizzonti temporali.

Le precedenti generazioni- mi si permetta di semplificare qui alcuni insight tratti da diverse ricerche sociologiche (lettura sempre da consigliare al retail)- vedevano nel prodotto un fine (l’attestazione del raggiungimento di un traguardo) e l’orizzonte temporale delle proprie scelte era quello medio-lungo, quello per intenderci del piano di risparmio per l’acquisto della casa e l’accensione del mutuo o della lunga carriera (fata di tanti, solidi, gradini) all’interno di un’organizzazione aziendale e sociale.

Millennials e generazione z vivono l’oggi, e per essi il prodotto è elemento di un’esperienza non un obiettivo in quanto tale.

La loro infedeltà (al brand, ma anche al posto di lavoro, come lamentano tanti forum di hr manager) nasce da questo nuovo approccio culturale al consumo, non da altro.

Inoltre millennials e generazione z sono caratterizzati da un maggiore individualismo (che si apre agli altri nel momento della condivisione ex post di una propria esperienza), rispetto alla precedenti generazioni che condividevano un più ampio paniere di ideali (spesso contrapponendosi gli uni agli altri proprio in funzione di questi) e di obiettivi sociali e di vita (il matrimonio, la casa e il lavoro erano il trittico di questo “altare culturale”).

Per citare Bauman, sono la generazione della connettività, non della collettività.

Certo, l’età non dice tutto dei propri clienti, né è pensabile che si possa costruire una strategia di loyalty basata solo su questo parametro, ma un moderno retail deve prendere atto che, oggi più che ieri, è necessario tenerne conto anche in ambito loyalty e, in tal senso, ripensarsi e reinventarsi.

Non solo nei contenuti (come premi meno “cose” e più “esperienze” o “cose che abilitano esperienze”), nelle meccaniche (la formula “1 euro uguale 1 punto” è equazione della banalità, quando invece si potrebbero considerare numerosi altri comportamenti del cliente) e nei tempi (chiedere a un giovane di programmare acquisti per molti mesi per arrivare all’obiettivo è chiedere quasi un comportamento contro-natura).

Ad esempio, in relazione a quest’ultimo parametro il programma Vodafone Happy, che ogni venerdì premia i propri iscritti con un “regalo”, dimostra di avere ben compreso questa nuovo approccio.

Soprattutto per non perdere appeal verso le nuove generazioni- senza dimenticare con questo le precedenti- i programmi loyalty potrebbero essere strutturati non più come rigidi palinsesti, ma in modo flessibile, permettendo ai singoli clienti (quindi anche alle nuove generazioni) di costruire un proprio programma, sulla falsariga di quanto è successo con l’arrivo di Netflix nel mondo televisivo.

Non si tratta certamente di un cambiamento facile, ma siamo certi che vi sia un’altra strada e che i programmi loyalty possano continuare a ignorare la realtà?

@danielecazzani

DAL #CRM AL #SOCIAL CRM: L’ECOSISTEMA RELAZIONALE DEL CLIENTE AL CENTRO DELLE STRATEGIE DEL #RETAIL

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Paradossalmente esistono così tante definizioni di CRM che verrebbe da dubitare che sia a tutti chiaro di cosa si parli…

A seconda dell’angolazione infatti il CRM è visto da qualcuno come una strategia, da taluni come un processo, e da altri ancora come uno strumento tecnologico per gestire dati…

Partiamo da una breve frase di Kotler:

CRM is concerned with managing detailed information about individual customers and all customer “touch points” to maximize customer loyalty and improve the customer shopping experience.

In queste poche righe (illuminanti, come spesso accade con Kotler) troviamo tutti gli elementi fondanti del CRM:

  • detailed information (ricordando che … information is more than data)

  • individual customers

  • customer touchpoints (attenzione alla “s” plurale!)

  • customer loyalty

  • customer shopping experience

Quindi, trasformare le informazioni che possiamo raccogliere dai diversi touchpoint- attraverso i quali i singoli clienti entrano in contatto con noi- nella base per elaborare strategie volte alla massimizzazione della loyalty e al miglioramento della customer shopping experience.

Quando parliamo di touchpoints al plurale già dovremmo capire che pensiamo a molto più dei soli dati di acquisto che pure hanno costituito una ricca miniera di informazioni alla quale in tanti, troppi, finora non hanno saputo attingere con la necessaria convinzione e dedizione.

Partiamo infatti dai dati transazionali di negozio: importo di spesa, frequenza d’acquisto, composizione paniere d’acquisto, cross selling, adesione e partecipazione ai programmi loyalty… Inseriamo la variabile temporale per valutare andamento nel tempo di questi basici parametri per ogni singolo cliente e già ci troveremmo nelle condizioni di dover gestire un’immensa mole di dati con la conseguente possibilità di effettuare attività di targeting piuttosto sofisticate.

Aggiungiamo ancora informazioni derivanti dalla risposta del cliente alle nostre e-mail, sms o mailing cartacei.

O ancora la registrazione dei contatti dei clienti col customer service (web, call center, negozio ecc) o dati derivanti dalla navigazione sul nostro sito web o pagine social

Ecco così aumentare ancora la complessità dell’ecosistema di informazioni nel quale possiamo muoverci. E tutto senza guardare all’esterno della nostra realtà…

Eppure spesso queste informazioni rimangono in silos non comunicanti tra loro, impedendo il disegno di un reale e veritiero profilo/cliente e quindi la costruzione di efficaci strategie customer-centriche che abbiano cioè al centro il Cliente con le proprie esigenze.

Senza allargare lo sguardo al mondo esterno, fermiamoci ancora a pensare al CRM e al suo potenziale.

In primis qual è l’orizzonte del CRM?

Fino a poco tempo fa avremmo detto il medio-lungo periodo- e questo, onestamente, è stato un alibi per rifiutare tanti investimenti su questo fronte (meglio una promozione mass market tattica e subito misurabile si pensava…)- proprio perché il customer relationship management ha l’obiettivo di gestire una relazione continua col Cliente– senza concentrarsi sulla semplice singola transazione- e così porre le basi per un aumento della profittabilità dei Clienti.

E’ infatti dimostrato che più perdura la relazione col Cliente (fedeltà, ovvero esistenza di un rapporto) tanto più questa risulterà profittevole (fidelizzazione, ovvero intensità e qualità della fedeltà).

Ma oggi quella risposta, valida forse nella prima fase del CRM, non può essere che parziale.

La possibilità di processare efficacemente bigdata e gli strumenti informatici a disposizione permettono di trasformare rapidamente i dati in insight e questi in decisioni.

Decisioni rapide.

Da attuarsi con strumenti rapidi (non v’è che l’imbarazzo della scelta).

Inoltre siamo soliti sentire dire che il principale obiettivo del CRM è la retention, ovvero la capacità di mantenere il cliente all’interno dell’orbita relazionale (e transazionale) dell’azienda.

Personalmente credo sia un obiettivo importante, ma minimo

E’ infatti limitativo pensare che obiettivo del CRM sia solo quello di migliorare le opportunità per comunicare costantemente con i clienti, per fornire l’offerta corretta (meglio dire il contenuto oggigiorno), attraverso i canali di comunicazione più efficaci e adatti, nel momento e al tempo giusto.

Il singolo Cliente può, deve, essere visto come elemento di un ecosistema di relazioni.

E’ solo in quest’ottica che il Social CRM assume un ruolo centrale e può appieno contribuire alle strategie di un retailer.

Intendiamo con questo termine andare oltre il social media monitoring, inteso come processo col quale i Retailer monitorano i principali social network- come Facebook, Twitter…- per rilevare informazioni inerenti i prodotti/servizi commercializzati, citazioni del brand ecc.

Infatti monitorare i propri Clienti presuppone prima di tutto la conoscenza della loro customer journey.

Solo in questo modo è possibile individuare quali siano gli spazi social da monitorare.

Bisogna infatti stare attenti a non cadere nell’errore di concentrare l’attenzione solo sui social media “facili” da monitorare (Facebook in primis) solo perché siamo confidenti di ritrovare in essi una buona quota dei nostri Clienti.

La verità è che si dovrebbero monitorare i social nei quali i contenuti creati, gestiti e condivisi dai nostri Clienti siano rilevanti per il nostro business e la cui conoscenza ci permetterà di arricchire il nostro patrimonio informativo e conoscitivo sul singolo Cliente.

Questa azione va poi resa continuativa, perché per poter innescare un circolo virtuoso il Retailer deve essere in grado di apprendere in modo continuo dai propri Clienti.

La targetizzazione deve essere flessibile, come lo sono i consumatori.

Per quanto ci piacciono le etichette (e i cluster), innamorarsene può essere un errore.

Solo se il CRM riuscirà a costituirsi come unico serbatoio informativo sul singolo Cliente- un serbatoio non statico ma alimentato da insight in real time– allargando la visione all’ecosistema relazionale del Cliente potremo allora annotare un lungo (ma sempre parziale) elenco di nuovi obiettivi:

  • migliorare la shopping experience del Cliente nel negozio (o sulla piattaforma di ecommerce of course), migliorando l’efficienza e la professionalità della forza vendita, grazie alla condivisione della conoscenza del Cliente, che è patrimonio di tutti non solo del Marketing;

  • acquisire nuovi Clienti sia attraverso la leva dei Clienti già acquisti e fidelizzati, sia grazie alla definizione di lookalike audience con obiettivi di lead generation;

  • elaborare efficaci modelli di redditività del singolo Cliente, calcolandone ad esempio il Life Time Value;

  • perfezionare gli investimenti nei media di contatto, calibrandoli in base al contenuto e al target selezionato (ad esempio con azioni di retargeting);

  • valorizzare l’esperienza del Cliente per la proposta o il test di nuovi prodotti e servizi (anche con l’organizzazione di survey, focus group ecc)

Questo è in sintesi il vero obiettivo del CRM: creare maggiore valore per il singolo Cliente e per il Retailer.

@danielecazzani

NOTA FINALE

L’immagine riportata a inizio post è il risultato della ricerca della parola “CRM” su Google. Simpatici disegni, icone, chart, ma nessuna persona reale

Ecco perché invece come immagine di copertina ho voluto inserire il volto intenso di un uomo qualunque* che quasi si chiede “quando parli di CRM parli di me?” Perché i nostri Clienti sono Persone e non tutti sono Millenials 😉

* uno scatto del giovane fotografo francese Philippe Echaroux che nelle vie di Parigi (ma non solo) ha fotografato persone comuni ma con la medesima attenzione e cura degli scatti più cool per vip e personaggi famosi…)

https://petapixel.com/2012/11/25/shooting-studio-portraits-of-strangers-on-the-street-as-if-they-were-famous/

Il futuro dei discount tra prossimità, relazione e omnicanalità

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Nel 1992 la società francese Sodiaal insieme a Kraft si affacciò sul mercato italiano con una poderosa campagna pubblicitaria (oltre 20 miliardi di lire per la sola tv!) per il lancio del nuovo yogurt Yoplait.

Il claim della campagna era: “Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?” (se non la ricordate guardate qui: https://www.youtube.com/watch?v=N7bwGIrA2PI )

La risposta dei consumatori italiani fu chiara e niente affatto positiva per Yoplait. Già nel 1993 gli investimenti pubblicitari furono bloccati e pochi anni dopo il prodotto venne ritirato dal mercato italiano (pur rimanendo un prodotto di successo su tanti altri mercati).

Potremmo porci la stessa domanda per i discount: ma con tutti i discount che ci sono c’è ancora spazio per altri discount?

E’ indubbio che la formula discount abbia incontrato negli ultimi anni il favore del consumatore, sia come riflesso della crisi dei consumi sia per merito di strategie volte a migliorarne ambiente, assortimenti e servizi, oltre che a un rafforzamento delle reti dei 3 principali attori (Eurospin, Lidl e MD-LD) tant’è che alcuni di questi stanno cercando di togliersi l’etichetta di discount provando ad accreditarsi come supermercati.

Al di là di questioni terminologiche- che non mi appassionano…- torniamo alla domanda.

La quota dei discount in Italia è cresciuta negli ultimi anni e si prospetta possa crescere ancora di alcuni punti percentuali in primis perché la presenza territoriale non è omogenea nel nostro Paese, con quote più basse nei territori ove è più forte la domanda (e la concorrenza of course).

Quale potrà essere quindi il ruolo del discount all’interno di una GDO sempre più in fibrillazione con conto economici critici e alle prese con test di nuovi format- come testimoniano ad esempio i percorsi intrapresi di Carrefour, Auchan- ristrutturazioni assortimentali e della rete commerciale, e che vede all’orizzonte l’arrivo di Aldi e di Leader Price?

Riprendendo quanto avevo già anticipato nel lontano aprile 2013 (https://newmarketingretail.com/2013/04/15/discount-3-0-il-futuro-del-discount-in-una-societa-in-evoluzione/ ) a mio avviso le leve che potranno assicurare il successo di questo format sono tre:

  1. la prossimità,

  2. la relazione e

  3. l’omnicanalità.

La prima si declina nella scelta di location non solo periferiche, in layout chiari e punti vendita belli oltre che funzionali; ma anche in assortimenti mirati, attenti ai territori, con focus sui freschi, e un chiaro posizionamento di prezzo senza cedere alla tentazione della promozione da cui gli altri format (iper e super) stanno con difficoltà cercando di disintossicarsi.

La seconda leva costituisce una sfida che nessuno degli attuali leader di mercato ha saputo o voluto cogliere. Pur avendo copiato molti dei “tic” dei supermercati (l’eccessiva pressione promozionale in primis) infatti per ora i discount si sono ben guardati da investire nella conoscenza del cliente, che costituisce il punto di partenza partenza per la costruzione di una relazione.

E’ certamente vero che lo scontrino medio del cliente discount è decisamente inferiore rispetto a quello del cliente di un ipermercato, ma a bene vedere non è poi molto distante da quello del cliente di un super.

Perché quindi non investire su questo tema e dotarsi di strumenti per monitorare il comportamento del cliente e in base a questi dati perfezionare azioni promozionali, proposta di servizi ecc? Non dico che iniziare questo percorso sia facile, ma la strada per il miglioramento raramente lo è..

Infine l’omnicanalità. Lasciando da parte la paura per Amazon & co. che tanto spaventa (e spesso paralizza) la GDO nostrana, non esistono motivi per ritenere che il cliente di un discount non si attenda da questo una coerente presenza multicanale, a partire ad esempio da un servizio click & collect (lo vogliamo chiamare drive?) tanto quanto la attende/pretende dagli altri format (taluni in grosso ritardo sul tema).

Certo l’assortimento di un discount è ben più ristretto rispetto a quello di un iper, ma non è l’ampiezza dell’assortimento a rendere necessaria questa scelta: è la sola osservazione della realtà e delle mutate esigenze e attese dei consumatori.

Alla domanda che ho posto all’inizio io quindi rispondo con un sì. C’è spazio per nuovi discount, ma che siano di prossimità e sempre più vicini al cliente e alle sue mutate esigenze.

I discount in conclusione hanno la possibilità di crescere ancora, disegnando un proprio percorso evolutivo che senza ripetere gli errori passato degli altri format possa definitamente consolidarlo come attore principale del mercato, non più come una cenerentola guardata di sottecchi dai big della distribuzione (se ve ne fosse bisogno il caso inglese da questo punto di vista dovrebbe costituire un efficace alert http://www.gdonews.it/2017/06/12/il-discount-fa-paura-a-tutti-ecco-cosa-sta-succedendo-in-inghilterra/ ).

@danielecazzani