#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

La #Bellezza salverà il #Retail?

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Almeno fino al diciottesimo secolo la Bellezza è stata considerata una qualità delle cose. La bellezza platonica prevedeva un equilibrio delle forme, pensiamo infatti all’arte greca e alla perfezione delle statue delle divinità arrivate fino ai giorni nostri (come l’Afrodite in foto). Anche il Cristianesimo riprese questa impostazione con Sant’Agostino e Tommaso d’Acquino, continuando a ritenere che la bellezza presupponesse armonia e proporzione della cosa in sé e della cosa in relazione all’altro.

E’ con la filosofia moderna- pensiamo a Hume, Kant…- che la Bellezza perde questo carattere di oggettività, divenendo invece soggettiva, della persona, lasciando così spazio alla nascita di nuove forme d’arte che l’Uomo è stato in grado di accettare e sentire proprie.

Ma, qual è il nesso tra Bellezza e Retail?

Lo spunto per questo contributo nasce dalla recente intervista rilasciata da Marco Brunelli a Cristina Lazzati per Mark-Up (http://www.mark-up.it/una-conversazione-con-il-signor-brunelli/) nel corso della quale il concetto di Bellezza ritorna più volte, ricordando alcuni particolari de IlCentro di Arese, ma anche realizzazioni meno recenti come l’intervento urbanistico e paesaggistico realizzato al Portello di Milano.

Nulla di cui stupirsi conoscendo la passione e il gusto per l’Arte e della Bellezza del patron di Finiper.

In questo contesto la ricerca del Bello, l’attenzione al dettaglio, al particolare che sfugge ai più, sono a mio avviso sintomo della consapevolezza che il Signor Brunelli ha dell’importanza della Bellezza, anche nel Retail.

A mio avviso cioé non si tratta affatto di una ricerca estetica. La sua attenzione è invece frutto di una ricerca etica.

Etica nel senso aristotelico del termine, ovvero come manifestazione di una scelta, di un costume (ethos) che, nella fattispecie, mette al centro il Cliente e la sua esperienza.

Infatti, a mio avviso, la Bellezza è una dimensione (soggettiva) valoriale dell’esperienza d’acquisto che troppi finora nel Retail hanno dimostrato di trascurare.

Le linee guida per il disegno di uno store spesso sono frutto solitamente di scelte estetiche o solo funzionali ma che hanno al centro il prodotto e l’organizzazione del personale, finalizzate all’esposizione dell’offerta, per garantire massimizzazione della rendita della superficie, efficienza nella gestione dello stock ecc.

E il Cliente, con la sua decantata centralità?

Gli store andrebbero disegnati in modo tale che vi sia spazio per il Cliente, lasciando a questi momenti di “respiro” nel corso della sua shopping experience, rappresentando la propria offerta in modo da agevolarne la lettura, senza sovra-sistemi comunicativi che hanno spesso l’effetto di creare confusione e disorientare il Cliente (in questo, mi sia concesso, gli ipermercati della “grande I” spesso rasentano la cacofonia…) ricordandosi sempre che la coerenza dei toni e nei messaggi della comunicazione  (tra negozio, volantino, media, web, social…) non vive a comparti stagni, ma deve essere un unicum per il Cliente.

La luce naturale, l’assenza di barriere architettoniche, il nuovo disegno degli spazi all’interno dell’ipermercato e l’integrazione di questo con il mall e la ristorazione sono solo alcune delle scelte che caratterizzano IlCentro di Arese e testimoniano non tanto (non solo) un gusto architettonico, quanto una reale attenzione al Cliente e al modo in cui questi può fruire degli spazi, in modo da migliorarne l’esperienza.

Quindi la piacevolezza, la bellezza del momento d’acquisto (non solo la bellezza dei luoghi) deve essere uno degli obiettivi dei retailers.

Perché attenzione alla Bellezza significa attenzione al Cliente e alla sua esperienza.

Questa attenzione potrà essere un’eccezionale leva nel confronto tra retail fisico e retail online., soprattutto se coniugata con un’altrettanto forte attenzione alla relazione.

Ricordando che non ha più senso distinguere tra online e offline- perché il Cliente non fa più certe distinzioni…- il Retail ha nelle sue mani la possibilità di dare un nuovo senso al negozio fisico, per evitare che si avveri la previsione (che preferisco considerare monito) di Marco Brunelli, ovvero che i centri commerciali divengano dei grandi cataloghi per Amazon.

Serve una nuova capacità di disegnare gli spazi, non lasciandola nelle mani di pur bravi designer e architetti, nella quale giochi un ruolo centrale il Marketing e la sua capacità (dovere, direi) di farsi portavoce forte delle esigenze del Cliente.

La Bellezza: ecco la nuova leva del marketing mix.

 

@danielecazzani

 

#IlCentro dello #shopping center è davvero il Cliente?

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Pochi giorni fa ha aperto ad Arese IlCentro: il più grande centro commerciale italiano e tra le più importanti strutture in Europa.

Riprendo quindi con piacere un mio post pubblicato nel settembre 2013 (https://wordpress.com/post/marketingretail.wordpress.com/350), per vedere se e come il settore dei centri commerciali abbia intrapreso o meno quel percorso di innovazione che, da ex addetto (ed appassionato) ai lavori mi ero permesso di proporre.

Il centro della mia tesi era (ed è) che ai centri commerciali servisse un’identità, che non è affatto data dalla summa delle identità (insegne) del mall, in primis da quella dell’ancora alimentare (se presente).

Quell’identità andava creata- così dicevo- attraverso un’attenta gestione di cinque leve di marketing:

1. la valorizzazione di sinergie tra ancora alimentare e negozi;

2. la fidelizzazione della clientela;

3. la collaborazione col territorio;

4. la gestione strategica della comunicazione;

5. un palinsesto di eventi unici.

Sono passati quasi tre anni da allora ed è evidente come quell’approccio non risponda più alle esigenze di un contesto che è ancora mutato, e si è reso più competitivo non tanto, non solo, per l’aumento della concorrenza tra centri commerciali, ma per la crescente concorrenza trasversale tra centri commerciali e altri ambienti, altri spazi (reali o virtuali) in cui il consumatore si reca per il soddisfacimento dei propri bisogni.

Siamo nell’era della multicanalità– anzi della omnicanalità- e già solo la definizione di “centro commerciale” risulta difficile. Come detto, la concorrenza non è più, non è solo, tra centri commerciali perché il consumatore oggi ha molteplici strade di fronte a sé…

Non sono più sufficienti un corretto mix merceologico nella galleria, una food court ampia e varia, un buon calendario di eventi, importanti investimenti in comunicazione…

E’ necessario molto di più.

E’ la dimensione esperienziale il vero elemento che può rendere forte un centro commerciale,. Attraverso l’attenzione alle esigenze della più ampia tipologia di bisogni e la presenza di servizi per diversi target si può arrivare a costruire l’esperienza per il Cliente DEL e NEL centro commerciale. Quest’ultima infatti non può essere solo la somma di diverse esperienze, ma deve rispondere a un disegno unitario, con una regia (nelle mani del gestore del centro commerciale) che non ha il compito di trovare il minimo comun denominatore tra gli operatori presenti, ma che deve essere in grado di valorizzare i singoli ma all’interno di una strategia di posizionamento unitaria.

Da questo punto di vista la strada da compiere a mio avviso è ancora molta. In primis nella fase di commercializzazione.

Non è sufficiente provare a riunire sotto un unico tetto le migliori insegne dei singoli settori (pensiamo proprio a IlCentro dove convivono i migliori esempi di fast fashion: Zara, H&M e Primark), ma sarà premiante un lavoro di ideazione di format innovativi, differenzianti, pensati per il target del centro commerciale (ma esiste in realtà oggi un centro commerciale che abbia definito il proprio target e che non si sia invece limitato a indicarlo nell’universo-mondo?).

Questo vale per a maggiore ragione per le food court dove non può essere solo la varietà a vincere, ma la ricerca di novità e il coraggio di proporre.

Sperimentare e innovare devono essere parte integrante non solo del retail moderno, ma anche di un moderno real estate.

Innovare anche nei servizi. Aree bimbi, aree di custodia per i propri amici a quattro zampe sono certamente degne di nota, ma esistono altri target? Gli anziani, ad esempio. IlCentro ne ha valutato le esigenze? Le dimensioni del mall certamente non li aiutano- ma non possiamo certamente mettere in discussione una scelta architettonica che ci offre uno dei centri commerciali più belli del Continente, per spazi e materiali!- ma la prima (opinabilissima) sensazione è che siano stati dimenticati nel progetto, più rivolto ad accarezzare le nuove generazioni, dimenticando una fetta consistente della nostra società (come, a onor del vero, fa buona parte del retail).

Ma non è mio obiettivo entrare nel dettaglio su questo tema.

Ai centri commerciali serve una nuova anima, più vicina al Cliente. Certamente questa evoluzione può essere più facile per le nuove strutture, e più difficile per i centri commerciali più datati, ma si tratta di una via obbligata per tutto il settore. Altrimenti, per i più deboli e lenti nel costruire la propria proposta attorno al Cliente, la concorrenza dei centri commerciali virtuali e dei nuovi mall, sarà sempre più forte e difficile da contrastare.

Si tratterebbe alla fin fine dell’applicazione in salsa retail della darwiniana selezione naturale. Se non fosse per gli impatti occupazionali di un simile scenario potremmo anche pensare che un settore arrivato oramai alla fase di maturità non dovrebbe stupirsi che sia arrivato oramai questo momento…

In sintesi: creare esperienze e innovare. Ecco i due verbi che il settore dei centri commerciali dovrebbe declinare giornalmente.

Concludo con una provocazione. La prima domenica di apertura de IlCentro è stata in concomitanza col cosidetto referendum sulle trivelle. Sui social si sono scatenati in molti lamentandosi di quante persone si fossero recate ad Arese per vedere il nuovo centro commerciale- magari attratti dai gadget distribuiti da tanti negozi- piuttosto che recarsi alle urne. Lasciando da parte per un attimo le ragioni del sì, del no e dell’astensione, pensavo quanto sarebbe rivoluzionario se i seggi elettorali venissero allestiti all’interno dei centri commerciali, che- lo si dice da anni- sono divenuti le nuove piazze di aggregazione domenicale per migliaia di nostri concittadini.

Può esserci un ruolo “civico” per i centri commerciali? Perché no?

Provocare potrebbe anche far rima con innovare…

@danielecazzani

#Promotion? #Devolution! Le persone devono essere il cuore dei progetti #loyalty

Nel corso dell’ultimo Convegno dell’Osservatorio Fedeltà di Parma è emerso chiaramente come negli ultimi anni si sia accelerata la convergenza tra promozione e loyalty, grazie all’arrivo di nuovi attori “ibridi” tra i due mondi e ai comportamenti di acquisto dei consumatori sempre più complessi e difficili da governare coi vecchi strumenti e strategie.

La ricchezza insita nella conoscenza dei Clienti, dei loro comportamenti e preferenze appare sempre più un valore inestimabile per Retail e Industria che si sono costretti in una spirale iper-promozionale che da un lato ha toccato quote assurde in talune categorie di prodotto (perdendo nel contempo efficacia), e dall’altro ha reso sempre più tesi i rapporti tra i due attori e incentivato un comportamento “predatorio” da parte di un consumatore sempre più avvezzo a cercare e approfittare della migliore promozione disponibile.

Non voglio contestare in questa sede chi ritiene che i progetti loyalty non siano in grado di generare fedeltà, ma siano semplici “mirini” nelle mani di chi costruisce le promozioni, perché è evidente che la migliore conoscenza del Cliente permette (sulla carta) la costruzione di promozioni più personalizzate e rilevanti, e quindi più efficaci.

Ma il vero tema è per me chi sia il decision maker, o meglio ancora a che livello tali scelte si maturino.

Infatti mentre in molte realtà della GDO le strutture territoriali hanno acquisito spazi di manovra su assortimenti, posizionamento di prezzi e politiche commerciali, è abbastanza evidente come il loyalty marketing rimanga spesso una funzione di sede, spesso distante dalla rete commerciale.

Uno dei primi effetti di tale impostazione è spesso un vissuto del loyalty program come “altro” rispetto alle politiche commerciali vere e proprie. Questa impostazione porta con sé un secondo effetto, ovvero una scarsa diffusione della cultura della loyalty nella rete commerciale, visto che il tema è affrontato spesso in lontani comitati commerciali, guardando i numeri macro di insegna senza scendere nel dettaglio dei singoli negozi…

Faccio un esempio banale, certamente non accademico, ma spero efficace. Quanta poca attenzione è riposta nell’emissione di una carta fedeltà di un ipermercato? Quanto questo primo momento di contatto col mondo loyalty dell’insegna appare burocratico e spento di relazione agli occhi del Cliente? Con quale leggerezza si verifica la qualità delle informazioni che il Cliente rilascia? Salvo poi scoprire che il dato inesatto non consente di ricontattare quel Cliente proprio quando vi è il bisogno di richiamare la sua attenzione su una particolare offerta o promozione, magari per contrastare l’aggressione di un nuovo competitor…

Personalmente sono convinto che se si diffondesse una maggiore consapevolezza dell’importanza di quel momento, anche la semplice sottoscrizione di una card diverrebbe ben più importante e rilevante e il programma loyalty nascerebbe su basi per più forti.

Allo stesso modo la diffusione della cultura dell’analisi dei dati a livello locale, anche attraverso la costruzione di modelli di analisi di contesto e non generalisti che vedano come attore protagonista la rete vendita, aiuterebbe a rendere il loyalty il migliore alleato delle politiche commerciali e promozionali, ottimizzando risorse e migliorandone l’efficacia.

Avvicinare il loyalty alle persone, favorendo un processo che chiamerei di promotion devolution- confido che Cristina Ziliani accolga con un sorriso questo divertissement sul titolo del suo ultimo libro…- sarà uno dei temi futuri su cui tutti i retailer saranno chiamati a confrontarsi, quando scopriranno che nessuna infrastruttura tecnologica può garantire il successo di un progetto di loyalty che lasci al margine le persone.
@danielecazzani

Il paradigma #Netflix e una nuova #loyalty per la #GDO

L’arrivo di Netflix nel nostro Paese rischia, dicono gli esperti, di cambiare il panorama della televisione. Una sorte analoga potrebbe capitare alla GDO. Vediamo come e perché.

Per anni infatti la nostra vita domestica è stata scandita dal ritmo definito dalla televisione: a tavola alle otto per vedere il tg della sera; tutti sul divano alle nove per vedere insieme il film; domenica pomeriggio tutti incollati per seguire i risultati delle partite con la schedina in mano; e via dicendo.

Il palinsesto era fisso. Uguale per tutti. Immodificabile.

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Lo sviluppo del panorama televisivo ha portato poi alla moltiplicazione dei canali tv: pensiamo alla tv satellitare e digitale coi suoi innumerevoli canali tematici che si rivolgono non più alla massa di telespettatori ma, di volta in volta, agli appassionati di avventura, cucina, arte, sport…

Così facendo l’audience dei singoli canali si è certamente ridotta in termini assoluti, ma gli investitori pubblicitari hanno avuto la possibilità di mirare messaggi su target più definiti (e selezionabili).

Oggi però le nuove tecnologie permettono a ognuno di noi di costruirsi il proprio palinsesto personale. La diffusione del mobile poi ci permette di costruirlo e di fruirne ovunque.

Il prossimo arrivo di Netflix da questo punto di vista non è che l’ultimo passo di un percorso che si preannuncia ancor lungo e ricco di novità.

Fin qui però sembriamo fuori argomento, avendo parlato solo di televisione. Passiamo quindi alla GDO.

C’è un motivo per cui dovremmo pensare che la libertà che le persone hanno conquistato (o, meglio, scoperto) in questo ambito non sia estendibile ad altri comparti, ad altri momenti della giornata, come ad esempio la spesa?

Pensando alla prima televisione, quella col palinsesto unico, viene automatico un parallelo col palinsesto promozionale della GDO, composto da volantini rivolti a tutti i consumatori, con contenuti e date fisse. Tanto per fare alcuni esempi, a tanti sarà capitato di ricevere nella cassetta postale un volantino con offerte per il fai da te pur essendo però assolutamente incapaci di piantare anche un solo chiodo; oppure ricevere un volantino dedicato all’infanzia, peccato che i propri figli siano già all’università…

Negli anni la GDO ha sviluppato programmi di loyalty che attraverso la lettura e l’analisi dei dati relativi al comportamento d’acquisto dei Clienti, hanno permesso di raggruppare i Clienti in cluster in base a un numero via via crescente di parametri partendo dai basici dati di affluenza e importo scontrino (usati quali deboli indicatori della fedeltà all’insegna o al punto vendita).

Ora la numerica di questi dati e la capacità di leggerli è andata aumentando- parliamo di big data, no?- ma senza riuscire a incidere più di tanto sul vecchio approccio promozionale fatto da volantini con offerte pensate per la generalità dei Clienti (mass market è un termine freddo ma rende l’idea).

Il paradosso è che le promozioni, più ancora che i servizi (tasto dolente di tanta Distribuzione), sono uno dei momenti in cui la GDO potrebbe dimostrare maggiore prossimità ai propri Clienti; prossimità intesa come capacità di conoscerne le esigenze e attorno a questa costruire offerte e proposte mirate.

La verità è che questa potenzialità non è stata colta dai più. Vi sono come sempre eccezioni, con insegne che hanno costruito dei cluster di Clienti cui destinare particolari offerte, ma la realtà è che si tratta spesso di attività di scarso impatto e la cui ratio spesso sfugge (vi sono retailers che utilizzano parametri che portano a considerare “premium” quasi il 40% dei propri Clienti, ingannando così se stessi e i Clienti stessi).

Il nuovo paradigma e le nuove tecnologie propongono quindi alla GDO una nuova sfida, ancora più importante: ovvero la possibilità di disegnare un nuovo rapporto coi propri Clienti, in cui questi ultimi siano in grado di costruirsi un proprio palinsesto promozionale, ritagliato in base ai propri desiderata (ovviamente all’interno di regole definite).

I Clienti potrebbero accedere a uno “store promozionale” dal quale attingere a particolari promozioni, già attive o attivabili da particolari comportamenti degli stessi Clienti (determinati acquisti ad esempio).

Questa possibilità- che potrebbe essere riservata ai particolari target di clientela- permetterebbe a tanti operatori di cercare (trovare) una via d’uscita alla sempre minore efficacia promozionale delle attività mass market ora messe in campo.

Affinché ciò avvenga è però necessario che buona parte della GDO si accorga che i propri Clienti la sera non se ne stanno più sul divano in attesa del programma tv, ma sono oramai liberi di scaricarsi un film (scelto da un ampio portfolio) quando e dove vogliono, fruendone in qualsiasi momento delle giornata

Certo si tratta di concedere maggiore libertà ai Clienti e questo spaventa. Ma siamo certi che vi sia un’altra strada?

@danielecazzani

E=mc2 la formula vincente per una nuova #prossimità (e una nuova #GDO)

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La Distribuzione è solita ragionare in base ai volumi e ai metri quadri. Partendo da qui si distinguono i vari format, dai grandi ipermercati, ai supermercati per arrivare alle superette, avendo però difficoltà ad inquadrare fenomeni “ibridi” come i discount o nuovi come i category store, perché nella realtà a volte poco o nulla dicono ai Clienti.

Ma torniamo ai metri quadri, in base ai quali si parla di prossimità per i locali al di sotto dei 450 metri quadri (format che insieme ai supermercati copre oltre la metà dei consumi nel nostro Paese). Tali locali, proprio per le loro dimensioni, risultano poi inseriti in quartieri cittadini o piccoli agglomerati, identificandosi col concetto del “negozio sotto casa”.

Recenti dati diffusi da Nielsen e commentati in diverse sedi (si veda qui ad esempio GDONews http://www.gdonews.it/2015/06/01/la-lenta-ripresa-della-prossimita/) documentano come proprio la prossimità stia registrando una crescita dei fatturati e abbia resistito meglio alla crisi (abbia cioé dimostrato una maggiore resilienza, come si è soliti dire), mentre ipermercati e (inaspettatamente, per qualche distratto) i discount registrano segni negativi.

E’ vero che proprio l’Italia dimostra come i grandi players stranieri (che si muovono mediamente su strutture di medie-grandi dimensioni) abbiano spesso incontrato difficoltà (per tanti versi questo è un eufemismo) nell’affrontare i mercati locali, mentre realtà italiane caratterizzate da una maggiore capillarità territoriale (e format mediamente più piccoli) siano state in grado di raccogliere risultati migliori; migliori, non regalati, e spesso frutto di importanti rinnovamenti intrapresi nelle strategie commerciali e di marketing.

Potrei citare gli esempi di Conad (affermatosi come uno dei più dinamici player nazionali) o Unes che col format U2 ha dimostrato come vi sia spazio per un’intelligente politica di every day low price, che non esaurisce certo la strategia d’insegna, fatta, tra le altre cose, di attenzione al made in italy e all’ambiente, o ancora Crai che ha fatto della prossimità (intesa anche come ridotte superfici) un punto di forza e non un minus.

Molti oggi raccontano questi dati della prossimità come un’ovvietà, sottacendo le enormi difficoltà organizzative e gestionali che i piccoli locali devono affrontare (pensiamo alla logistica ad esempio) in un settore dove i volumi contano e dove la controparte ha il “peso” dell’Industria.

Nello sviluppo della prossimità l’associazionismo ha costituito certamente un importante strumento, in grado di bilanciare il peso dell’Industria e di offrire servizi (logistici e commerciali) a supporto anche di piccoli operatori che avrebbero altrimenti rischiato di non reggere l’impatto con le grandi strutture di vendita.

Per quanto vi siano importanti esempi anche in altri Paesi, penso infatti che l’associazionismo costituisca una delle formule più propriamente italiane nella distribuzione moderna e sono personalmente convinto che non potrà essere la prolungata crisi dei consumi e le tensioni del mercato a metterla in crisi.

Penso però che il punto cruciale per il futuro sia dare un nuovo significato alla parola “prossimità”: questa non dovrà più identificare una collocazione geografica o un parametro dimensionale del negozio, ma descriverne la strategia.

Essere un negozio di prossimità nel 2015 deve significare non essere piccoli, ma essere prossimi alle esigenze dei propri Clienti: conoscerne i bisogni, le caratteristiche e attorno a queste costruire i negozi, gli assortimenti e le politiche commerciali.

Questa attenzione dovrebbe essere nel DNA proprio di un struttura associativa, perché formata da imprenditori che hanno costruito relazioni nei territori coi propri Clienti giorno dopo giorno, condividendone i mutamenti degli stili di consumo e di vita e costruendo attorno a questi la propria offerta (ci si chiede mai quanto sia critico costruire un assortimento efficace quando si hanno pochi metri lineari a disposizione e pochi addetti per far funzionare un negozio?).

Se invece il centro, ovvero il minimo comun denominatore delle strutture di servizio (commerciali e logistiche) diventa più importante della prossimità (come sopra l’ho intesa) ecco che il risultato rischia di essere molto simile a quello che spesso vediamo nei grandi operatori stranieri: ci si focalizza sull’interno, e al contempo aumenta la distanza coi Clienti e, subito dopo, quella dai propri obiettivi di business.

Ecco il senso della formula che propongo per il successo della prossimità (e dell’associazionismo):

E=mc2

L’energia prodotta (ovvero il risultato economico) è pari al quadrato della moltiplicazione della massa (ovvero la struttura centrale o associativa) per la velocità di attenzione strategica al Cliente.

Servono infatti servizi efficienti ed efficaci (m) e una dinamica (e rapida) attenzione al Cliente e ai suoi bisogni (c) da attuarsi anche con un utilizzo evoluto di strumenti come le carte fedeltà e le nuove piattaforme sociali, il tutto basato però su un forte e chiaro posizionamento d’insegna.

Ancora una volta cito Conad e Unes come esempi di strutture (solo una delle quali associativa) che ad esempio nella campagna #prodottodove per l’indicazione dello stabilimento di produzione sulle etichette dei prodotti, dimostrano una particolare attenzione alla richiesta dei propri Clienti di una maggiore trasparenza sul lato dell’offerta; e questa cos’è se non prossimità modernamente intesa?

Dopo averne stravolto la formula più importante e nota, mi permetto in conclusione di citare una frase di Albert Einstein, sostituendo la parola “vita” con l’espressione “fare commercio”:

Fare commercio è come andare in bicicletta: se vuoi restare in equilibrio devi muoverti.”

Oggi più che mai equilibrio non significa immobilismo, ma capacità di muoversi in modo rapido e coordinato. Proprio come accade ai ciclisti, la surplace– ovvero il rimanere immobili nella propria posizione (ovvero idea)- è gesto affascinante per qualche secondo, ma nel commercio rischia ben presto di essere noioso (per i Clienti) e controproducente (per i propri conti economici), soprattutto quando i tuoi avversari scattano.

@danielecazzani

La #ristorazione commerciale e il #retail: il Cliente al centro (e nel piatto meno parole)

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Gli ultimi anni sono stati caratterizzati tanto da una forte contrazione dei consumi quanto da un profondo cambiamento negli stili di vita (e di consumo) degli Italiani: il combinato congiunto di questi due elementi ha fortemente impattato su un settore, quello della ristorazione commerciale, che era in realtà rimasto fermo e ancorato a format che avevano “sulle spalle” numerosi anni, con offerte fortemente standardizzate e con focus sull’industrializzazione dei processi più che sulla distintività dell’offerta.

Questi format si sono dimostrati via via sempre più in difficoltà nel rispondere alla nuova domanda di ristorazione che cerca qualità ed esperienza (vedremo a breve come questi due termini siano molto più ostici rispetto a quanto si sia portati a credere) in un settore che ha visto la nascita di nuovi segmenti che ibridano market e ristorazione (pensiamo al successo di Eataly) piuttosto che alla riscoperta dei consumi di strada, o ancora al ritorno della pausa pranzo in ufficio.

Inoltre in questi anni si è andato anche affievolendo il senso della distinzione tra slow food e fast food– nonostante le spigolosità mediatiche tra i principali contendenti- perché l’attenzione si è posta su formule di smart food, ovvero sulla necessità di un equilibrio tra contenuto d’offerta (cibo e servizio) e prezzo richiesto, a prescindere che le modalità di consumo fossero fast o slow.

Sempre più ricerche ci dicono infatti che gli Italiani stanno riscoprendo il valore del cibo, inteso non solo come prodotto in sé, ma come momento di condivisione e socializzazione.

La sfida che si pone quindi al settore della ristorazione, e della ristorazione commerciale in particolare, è ora non tanto quello di effettuare un leggero make-up dei propri locali, con qualche spruzzata di modernità negli arredi e negli stili di comunicazione, ma un profondo ripensamento del proprio modo di essere, sforzandosi di andare oltre una visione prodotto-centrica oggi spesso intrisa di così tanta retorica che parole quali “fresco”, “qualità” e “artigianale” sono state banalizzate e svuotate di valore (soprattutto agli occhi del consumatore).

Al centro deve essere il Cliente. Gestendo le variabili dello spazio (gli ambienti) e del tempo (le modalità di servizio) devono essere sviluppate offerte coerenti con le esigenze dei Clienti, non a quelle di designer, né tantomeno alle esigenze tecniche di produzione. Assortimento, ambiente e comunicazione devono costituire la trama di una narrazione univoca e complessa, ma che deve essere lasciato al Cliente cogliere e approfondire: terminata l’epoca parolaia delle grandi promesse (che come detto sopra ha di fatto svuotato di significato parole un tempo ricche di importanza, come mestiere e artigianalità) il Cliente che deve essere lasciato libero di muoversi all’interno della nostra offerta.

La ristorazione lasci che i percorsi obbligati siano monopolio ancora di qualche store di arredamento- convinto che abbia senso far passare il Cliente di fronte a 15 tipi di cucina anziché chiedergli semplicemente cosa stia cercando, indirizzandolo quindi sulle soluzioni più adatte- e punti su un rapporto più maturo e meno captive coi propri Clienti: avremo così forse meno acquisti d’impulso, ma daremo più impulso agli acquisti…

Possono sembrare indicazioni banali, ma la realtà è che ancora oggi assistiamo alla realizzazione di nuovi locali dove è posta enfasi ai materiali e al design, ed è data grande spazio alle parole del ristoratore, ma dove da molti particolari si desume scarsa attenzione alle esigenze dei Clienti (vogliamo parlare dell’attenzione data nei layout e nelle attrezzature ai Clienti diversamente abili, spesso del tutto trascurati anche nei format più moderni?).

Anche sul piano della gestione dei social network la strada da compiere è molta: un’attività social(e) come il mangiare insieme dovrebbe automaticamente trovare facilità di dialogo e relazione coi propri Clienti sulle nuove piattaforme sociali, ma spesso non è così, dimostrando ancora una forte arretratezza e una mancanza di apertura che è a suo tempo motivo della scarsa capacità di buona parte della ristorazione commerciale nel cogliere i cambiamenti degli stili di consumo alimentare (non è forse questo uno dei motivi per i quali spesso si cerca all’esterno della propria organizzazione il know-how per progettare nuovi format?).

E’ però evidente che questa evoluzione potrà essere realizzato solo se anche un altro importante attore della partita- i landlord (ovvero le proprietà immobiliari)- capirà quanto sia cruciale per il proprio business sostenere, o meglio ancora incentivare, questo percorso.

Non v’è dubbio infatti che la standardizzazione dell’offerta merceologica dei mall (sia questi tradizionali shopping center, piuttosto che stazioni ferroviarie o aeroportuali) è un grande limite alla definizione di un loro efficace posizionamento strategico nel mercato, ma è altrettanto evidente che propria la leva del food service (quindi l’offerta di ristorazione commerciale) insieme allo sviluppo di servizi in ottica di customer service, possano essere due importanti leve per rendere unica la propria offerta in un mercato per tanti versi ancora molto arretrato (vedasi mio post del settembre 2013; da allora poco è cambiato).

Tale passaggio rende quindi necessario un nuovo paradigma di relazione tra landlord e tenant, finora spesso impostato principalmente sul parametro delle royalties, lasciando “fuori dalla porta” l’attore principale cui entrambe le parti dovrebbero guardare, ovvero il Cliente (partendo magari da una domanda: di chi è il Cliente?).

Devono così essere individuate nuove vie che compenetrino da un lato la sostenibilità dei conti economici di landlord e tenant, e dall’altro la costruzione di format (anche creati ad hoc) in grado di incontrare il favore non di un generico consumatore ma dei Clienti che quello specifico centro commerciale vuole raggiungere (il che presuppone la condivisione di dati e strategie, altro ambito quanto mai ostico…).

Si tratta di una relazione contrattale tailor made e per questo più complessa da costruire e gestire, ma deve essere chiaro che questo è solo il primo passo per dare avvio a una coerente strategia di sviluppo, finora “imposto” dal contesto esterno, ma che una ristorazione commerciale che voglia dirsi moderna non può non essere in grado di governare.

@danielecazzani

Un nuovo #NONFOOD per un nuovo #RETAIL: riflessioni a margine del 13mo Osservatorio NonFood @GS1Italy

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Lunedì 29 giugno a Milano GS1 (indicod-ecr.it) ha presentato i risultati della tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food che ha evidenziato come questo comparto abbia beneficiato della lieve ripresa nel 2014 dei consumi della famiglie italiane, con un incoraggiante +0,6% (che pone fine ad anni di pesanti flessioni pur lasciando la quota dei consumi non alimentari al di sotto del 15%).

Questo dato è evidentemente la media di situazione molto diverse tra i tanti comparti dell’universo non alimentare ma ciò nondimeno è un segnale positivo in un anno che ha visto una contrazione importante (-7%) nei punti vendita e la crisi aziendale di importanti player, uno dei quali solo due anni fa, proprio in occasione dell’Osservatorio Non Food dichiarava invece di avere individuato una nuova strategia, poi risoltasi in un leggero make-up dei propri punti vendita (evidentemente non apprezzato dai consumatori).

Preso atto dei numeri la domanda fondamentale da porsi a questo punto è però: il non alimentare ha raggiunto questo risultato grazie a nuove strategie e nuovi approcci oppure ha beneficiato della generale (mini)ripresa dei consumi?

Mia opinione è che il risultato sia ascrivibile in buona parte al secondo fattore, perché a fianco di alcune interessanti novità (cito lo svilippo di Ikea e, anche se relativa al 2015, l’arrivo in Italia di Zodio) gli ipermercati e tanti storici retailers specializzati paiono essere ancora in una situazione di stallo decisionale.

Pensiamo agli ipermercati che fino a poco tempo fa vedevano nel non food non dico la gallina dalle uova d’oro ma certamente un comparto da sviluppare (pensiamo ad alcuni “gigantismi” testati, con scarso successo, da insegne non italiane) e che ora invece stanno riducendo gli spazi, prendendo così atto che il non food non è affatto un’arena competitiva più facile del food: anche qui servono competenze, risorse umane (bello che se ne sia parlato ampiamente a Milano!) e strategie di medio lungo periodo.

Un altro piccolo esempio su un comparto- quello della GDO- che mi sta sempre a cuore. Avete presenti i settori libri e videogiochi di alcuni ipermercati: spazi dimenticati, dove l’assortimento pare essere stato disegnato dal caso (o dal caos?), con una noncuranza che stride rispetto all’attenzione al display merchandising che giustamente regna negli altri reparti. Mi chiedo: che senso ha destinare metri quadri (e lineari) di vendita a tali merceologie, per poi nella realtà abbandonarle (o come nel caso dei libri, darli in gestione esterna) come fossero corpi estranei. Ecco, la GDO dovrebbe fare questo: smettere di vedere il non food come un corpo estraneo rispetto alla propria anima food. Anche solo dal punto di vista della cultura manageriale sarebbe un gran passo in avanti.

Tornando ai numeri sono molti gli ambiti nei quali il non food è chiamato a fare di più e qui ne citerò solo due.

Ad esempio, in un anno che ha visto l’e-commerce crescere del 17% il risultato del non food, per quanto interessante in alcune categorie (arredamento in primis che ha raddoppiato le vendite) pare essere molto distante dalle sue potenzialità; questa situazione è frutto di una ancora non chiarito rapporto tra store fisico e store digitale. Anzi, proprio questa visione duale è sintomo di un’arretratezza di approccio che pare non considerare come oramai i touch point tra brand e consumatori si siano moltiplicati e approfonditi.

Allo stesso modo- ed eccomi al secondo punto- è proprio l’assenza di una brand strategy che penalizza il comparto non food, i cui punti vendita sono spesso gestiti come come rassemblement di merci: quasi una provocazione in anni in cui un consumatore sempre più attento e informato non chiede solo un prodotto, ma un senso da dare alla propria relazione col retailer. E non si tratta di aggiungere servizi ai prodotti (soprattutto se il servizio- banalmente penso a un’estensione di garanzia di un prodotto hi-tech- è vista come un altro prodotto da vendere…) quanto di analizzare le domande dei Clienti e strutturare i propri store (siano questi fisici o virtuali) affinché siano in grado di dare le risposte migliori, grazie anche al fondamentale contributo delle persone che vi lavorano. Ogni contatto in uno store deve essere vissuto come un incontro, come il primo passo per una relazione, mentre spesso la formazione delle risorse umane è finalizzata a migliorarne le perfomances di vendita, con effetti in realtà controproducenti.

Nuove strategie, nuovi approcci, un nuovo coraggio insomma: ecco ciò che serve al non food per uscire dalle proprie contraddizioni e ritrovare il proprio ruolo in un Retail moderno.

@danielecazzani

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Il #mobile e la nuova socialità immobile: paure e opportunità per #GDO e #Retail

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I retailers nostrani (e in particolare la #GDO) hanno coscienza di quale mutamento del Consumatore sia in atto grazie (anche) alla diffusione del mobile e alle nuove possibilità tecnologiche di connessione e interazione che i nuovi device abilitano?

Ma prima di dare una mia risposta (ovviamente opinabile) faccio un passo indietro. Non avrei che l’imbarazzo delle scelta nel proporre i più recenti dati sullo sviluppo del mobile nel nostro Paese, attingendo ai dati dell’Osservatorio Mobile & Marketing (www.osservatori,net) del Politecnico di Milano (www.polimi.it) piuttosto che ai dati Audiweb o di altri Istituti di Ricerca.

I mobile device infatti sono oramai parte integrante della nostra vita (a breve l’accesso al web dal mobile supererà quello dal PC…) e ci permettono una connessione continua (anche nei momenti interstiziali, un tempo vuoti di contatti, come, ad esempio, una poco piacevole coda in autostrada) e quindi un potenzialità di relazione prima inimmaginabile.

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Fatte salve alcune rare eccezioni, finora la reazione a questo mutamento di paradigma è stata la PAURA: paura di vedere svuotati i proprio negozi fisici a favore dei negozi virtuali (magari della concorrenza) tanto che showrooming è diventata una parola in grado di far rabbrividire tanti manager (senza che ne capiscano bene il motivo a onor del vero…). Tale timore dimostra, a mio avviso, un drammatico ritardo da parte di tanti retailers, innanzi tutto perché in realtà web e mobile non significano solo ecommerce, i cui tassi di crescita sono sì promettenti, ma la cui quota sui consumi reali, perlomeno di beni fisici- pensiamo al grocery- sono ancora fermi allo zerovirgola. Inoltre la moltiplicazione delle possibilità di relazione coi propri Clienti (o più genericamente Consumatori) dovrebbe essere visto con favore da parte di tanti operatori che per anni si sono riempiti la bocca dicendo che al centro delle proprie strategie v’erano appunto i Clienti, mentre in realtà l’ombelico strategico era cosa riservata alla funzioni Acquisti e Vendite e non certo al Marketing. Pensiamo solo alla GDO e al suo rapporto con l’IDM: v’è forse traccia del Cliente/Consumatore (e delle sue esigenze) nel paradigma organizzativo e commerciale con cui approcciano il mercato? O non è forse la sola pressione sui volumi di vendita a guidare le loro scelte (ecchissenefrega – mi si perdoni l’inglesismo- se il Cliente non chiede volumi ma solo un chiaro contenuto di qualità ai giusti prezzi)?

Lo sviluppo del mobile non è quindi una minaccia, anzi è un’incredibile opportunità. Ma NON un’opportunità per veicolare al consumatore altra pubblicità: anche in questo caso i dati di sviluppo del mobile advertising sono interessanti, ma infinitesimali rispetto al valore della pubblicità nel suo complesso. Lo smartphone e il tablet non sono altri schermi per spot di dubbia efficaci, ma piattaforme relazionali.

Relazioni che assumono una valenza ancora più forte se inquadrati nel più generico fenomeno dello sviluppo dei social network, che vede nel mobile il device preferito proprio perché SEMPRE al proprio fianco e- altro elemento assolutamente fondamentale- del tutto PERSONALE.

La nuova socialità aiutata e incentivata dal mobile è però una socialità immobile: è possibile restare in contatto con la propria cerchia di amici, partecipare ad eventi, commentare trasmissioni TV o Radio senza muoversi dal proprio divano. Questo aspetto, spesso sottovalutato a mio avviso, è fondamentale per i retailers che continuavano a vedere i propri store come naturali centri di aggregazione. Tale funzione non sarà certo cancellata dal social mobile ma gli store fisici potranno aggregare solo se saranno in grado di offrire ai propri Clienti ESPERIENZE e VALORI; in caso contrario la virtualità sarà sempre più premiata dai Consumatori, proprio perché li lascerà più liberi di definire i tempi delle Relazione. Ci vorranno certamente degli anni per erodere le quote del commercio tradizionale fisico, ma l’erosione sarà tanto più veloce quanto più i retailers saranno lenti nel capire come sia cambiato l’ambiente sociale in cui si muovono e come i Consumatori siano nuovi, non tanto per il naturale (fisiologico) cambiamento di gusti e tendenze, quanto per le nuove possibilità di approccio e confronto che i web prima e il mobile oggi mettono loro a disposizione.

Da questo punto di vista la #GDO si trova in una posizione ancora più critica, proprio perché spesso priva di contenuti sul fronte dell’Esperienza e dei Valori fruibili dai proprio Clienti nel punto vendita fisico: un’ennesima sfida per un settore che da tanti, troppi, anni sta rimandando il confronto coi propri errori e limiti, sperando inutilmente che una ripresa dei consumi (solamente attesa finora) permetta di rimandare a un lontano futuro un salto evolutivo nella propria organizzazione.

Nota finale: ho scritto questo post seduto sul divano, twittando di tanto in tanto in risposta ad amici che come me stanno seguendo una trasmissione TV, e interagendo con la mia pagina Facebook; ad un certo punto ho interrotto la stesura del testo per aprire la porta all’addetto che mi ha portato a casa la spesa ordinata online.

Non sono multiscreen, non sono multichannel: smettiamola di etichettare i Clienti/Consumatori con neologismi degni del miglior Asimov: continuiamo a chiamarli Carlo, Roberta, Marco… Persone insomma. Loro sono cambiate raccogliendo la sfida e le opportunità dei nuovi device e dei nuovi media. Retailers  e GDO possono dire altrettanto?

@danielecazzani

Le #banche, le false lacrime, lo #spot divertente e un #customerservice inesistente!

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Gli spot tv e radio della mia Banca sono davvero divertenti e simpatici: dopo tutto il testimonial è un noto comico e attore italiano e la trama è simpatica (vuoi che i protagonisti siano giovani bancari o, altrettanto giovani e ancor più sorridenti clienti…). Meno divertente e simpatico il modo in cui la mia Banca (ma sono in procinto di dire ex Banca) tratta i propri clienti. Il fatto che brevemente racconterò è molto, molto illuminante su quanto la crisi del sistema bancario tradizionale sia frutto di una totale mancanza di attenzione verso i propri clienti che, non c’è da stupirsi, sempre più facilmente optano per soluzione di internet e mobile banking…

Cos’è successo quindi. Una semplice comunicazione nella casella di posta del servizio di internet banking (lo confesso: causa lavoro, mi reco in filiale al massimo due o tre volte all’anno; ma la frequenza potrebbe essere maggiore se la filiale non rispettasse orari da anni settanta e fosse aperta anche il sabato (mamma mia, che dico!?). L’oggetto della comunicazione era “cambio iban”. Appena ho letto l’oggetto ho pensato “che seccatura, dovrò comunicarlo al mio datore di lavoro e a chi altro???”.

Apro la comunicazione e scopro che il tema non è il cambio dell’IBAN ma addirittura la CHIUSURA DELLA MIA FILIALE! Come, chiude la mia filiale e la Banca che mi tampina con lettere di vario tono durante l’anno per approfittare di questo o quel finanziamento non si degna di inviarmi alcuna comunicazione scritta o email- magari con un avviso sul bancomat in occasione di uno dei miei prelievi, ma mi rendo conto di chiedere troppa intelligenza!- confidando che fortunosamente pochi giorni prima della chiusura io apra la posta tramite l’internet banking per apprendere la lieta novella. Gentilmente la Banca mi avvisa che il conto è stato trasferito presso altra filiale in una vicina città. Non hanno nemmeno pensato di propormi la scelta tra più filiali: caso vuole ce ne sarebbe una a pochi metri dall’ufficio di mia moglie, ma, no, sarebbe troppo facile così; molto meglio farmi percorrere chilometri per recarmi in un quartiere sempre al di fuori dei miei tragitti…

La sensazione è quella di essere un pacco (e un numero) nelle mani del peggior fattorino, senza alcuna voce in capitolo… Devo ammetterlo: non è una bella sensazione soprattutto considerando che a trattarmi così è l’Istituto cui ho affidato i miei risparmi…

Non ho intenzione di approfondire il caso specifico, ma la riflessione è naturale: chiudere una filiale senza avere l’accortezza di avvisare in modo tempestivo ed efficace i propri Clienti è un’assurdità che non può essere coperta nemmeno dallo spot tv più divertente e simpatico. La fiducia dei Clienti si costruisce nel tempo, non in trenta secondi sui principali network. La domanda è se quella Banca abbia un Marketing, un Customer Service o qualche funzione che tra i propri obiettivi abbia il Cliente (e non intendo con questo la “spremitura” del Cliente!). La risposta che mi sono dato è evidente, ma è per me altrettanto evidente come le lacrime sulla crisi di tanti istituti bancari (talvolta, sia ben inteso, lacrime da coccodrillo) siano in prima battuta causati dalla totale assenza di cultura del Cliente non tanto dei vari CEO o Board, ma, più prosaicamente, di un Management chiuso in torri di cristallo e uffici di marmo e legno pregiato che non hanno mai incrociato lo sguardo di un Cliente in cerca solo di sicurezza, chiarezza, rispetto e una relazione che vada al di là dell’estratto conto mensile.

Vi sono praterie di opportunità ancora non colte nel settore bancario… ma bisogna avere il coraggio di uscire dalla proprie tenute per conquistare nuove terre. Purtroppo il sistema bancario italiano sembra davvero troppo pigro e immobile come i mattoni d’epoca delle proprie prestigiose sedi per avere il coraggio di mettere davvero al centro delle strategie i propri Clienti (anche nella realtà, oltre che nei titoli dei tanti convegni).

@danielecazzani