Il #futuro del #retail partirà dall’Oman? yOuRs: un’ #eataly in salsa araba?

 

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Il futuro del retail potrebbe passare dall’Oman? Nel Sultanato che, anche in virtù di un forte retaggio storico, si sta con più prudenza ma progressivamente aprendo al Mondo, potrebbe aprire entro la metà del 2015 – nella periferia più moderna di Muscat- un nuovo concept che potremmo vedere come una versione evoluta della nostra Eataly, senza poterne però vantare il ricco assortimento enograstronomico.

Lo store, la cui insegna dovrebbe essere l’acronimo di your Omani unique Relation store, si rivolgerebbe alla sempre più numerosa classe benestante del Sultanato, riproponendo negli oltre 12.000 mq di superficie di vendita (su tre livelli) il meglio della produzione mondiale nel comparto grocery (fatta eccezione che per la categoria dei vini e degli alcolici) sapientemente mixato con la migliore produzione locale, al cui approvvigionamento provvederà un network di produttori locali.

Ma il punto di forza del nuovo concept, come dichiarato proprio dall’insegna, dovrebbe essere la RELAZIONE. L’accesso a yOuRs infatti sarà riservato ai soli clienti titolari di una particolare card- la Ycard- virtualizzata in versione app mobile, che garantirà ai clienti una serie di servizi evoluti oltre a più classiche opportunità commerciali, quali sconti e promozioni.

La card virtuale dovrebbe essere strutturata su tre livelli- Ycard, Ycard cube, Ycard Exxtra- a ciascuno delle quali è associato un fee mensile di adesione che dovrebbe partire dai 250 Rial dell’Oman (equivalenti a circa 500 Euro) fino ai 2.500 Rial dell’Oman per la card premium.

A bilanciare il costo/fee mensile di adesione al programma saranno una serie di opportunità riservate, di valore pari al fee e strutturate grazie a una serie di convenzioni con un network di partner esterni. Si potrebbe partire da servizio più canonici quali delivery a domicilio, per arrivare ad attività esperienziali davvero suggestive, quali la caccia col falco in riserve ospitate in oasi nel del deserto.

La struttura, che dovrebbe essere arricchita da un’area ristorazione di notevoli dimensioni e da una SPA esclusiva, potrebbe poi presentare una caratteristica davvero unica al Mondo: aree denominate Y-store, ovvero reparti disegnati direttamente dai clienti più fedeli (ma sarebbe più corretto dire: maggiormente spendenti) che potranno costruire attorno ai propri gusti, spazi, servizi e assortimenti assecondati dai manager dello store (cui spetterebbe il compito di garantire l’equilibrio economico di questi mini store). Un modo innovativo e interessante per fare ricerca e sviluppo in un’autentica (e coraggiosa) ottica dal basso verso l’alto e di co-generazione delle idee.

Possono certamente essere molte le perplessità attorno ad un simile progetto, ma solo il futuro potrà dirci se questa versione in salsa araba del moderno retail potrebbe davvero tracciare una strada su cui anche altri retailer europei o anglosassoni (normalmente più restii alle evoluzioni) sapranno incamminarsi.

@danielecazzani

 

 

Troppi #chef in #tv? Sono altri i motivi della #crisi dei #ristoranti, come i #prezzi (sempre crescenti) e la scarsa evoluzione dei format…

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Che vi sia un’abbondanza di offerta in tv (e sul web) sul tema “chef & cucina” (spesso di scarsa o nulla qualità) ritengo sia un’evidenza difficile da negare- addirittura i pubblicitari sono arrivati a pensare che uno chef possa vendere auto, patatine, pentole e via dicendo- ma vi è chi addirittura “incolpa” gli chef di essere causa della chiusura di tanti pubblici esercizi, poiché- questa è la sentenza- la diffusione della cultura della buona cucina avrebbe indotto tanti di noi a cucinare da sé anziché uscire per andare a cenare al ristorante.

In realtà i dati dimostrano che nel corso degli ultimi anni da un lato la curva dei costi dei pubblici esercizi (mi riferisco in particolar modo alla ristorazione) ha avuto ritmi più sostenuti rispetto a quelli dell’inflazione (e del livello delle retribuzioni) rendendo sempre più “elitaria” la cena fuori casa, ma senza che tale upgrade si accompagnasse a un reale miglioramento del prodotto; dall’altro lato dobbiamo avere l’onestà di ammettere che l’evoluzione dei format è spesso stata minima (di facciata) così da continuare ad offrire al consumatore un prodotto-servizio sempre più standardizzato…

Se poi pensassimo anche solo alla pausa pranzo e annotassimo come sempre più lavoratori abbiano deciso di destre in ufficio, capiremmo subito che un panino (o poco di più) consumato alla scrivania non è certamente una scelt dettata da una maggiore consapevolezza del valore della cucina, quanto- ahi  noi- solo l’ennesimo sintomo di una crisi che ha aggredito i nostri portafogli, portandoci a limare tutte le spese non necessarie…

Tornando all’argomento principale, negli ultimi anni, si sta riscoprendo il valore (culturale, storico e di socializzazione) del Cibo e con esso l’importanza delle materie prime (che costituiscono uno degli atout più forti della nostra tradizione gastronomica italiana); la sfida ora è non far sembrare questo percorso riservato ancora una volta a una “elite” ma essere in grado di diffondere (in logica retail) questi contenuti a più ampio pubblico possibile (qui potremmo aprire il capitolo della in-capacità di creare format italiani esportabili nel mondo). La sfida non è certamente facile, ma dopo tutto anche la Cucina nasce da un mix attento di più ingredienti, dal mestiere e da una decisa ma paziente strategia (tempi di cottura ecc). Sono certo che gli ingredienti ci siano, ma ora è compito dei manager del settore mettersi ai fornelli, evitando di incolpare chef, tv e crisi per le deboli perfomance dei propri locali…

@danielecazzani

Quando i #supermercati imitano (male) i #discount che imitano (meglio) i supermercati (e gli #ipermercati)

esse... non fosse buon marketing?

Stamattina ho trovato nella mia cassetta postale un piccolo volantino di una delle più note insegne della GDO italiana, che mi segnala come sia possibile fare la spesa quotidiana con meno di 15 euro. Wow! Wow? Alcune premesse sono necessarie: 1- non faccio la spesa quotidianamente; 2- non saprei cosa farmene, ogni santo giorno, di un detergente piatti o di un litro di sapone liquido (vabbè, l’igiene è importante); 3- non consumo 10 rotoli di carta igienica al giorno (almeno finora non mi è mai capitato!); 4- non bevo 12 litri d’acqua (per quanto i medici dicano che faccia bene…); 5- nè mangio 1 chilo di carote (anche se a ben vedere, potrebbe beneficiarne la mia vista e la mia abbronzatura); e potrei continuare all’infinito… oppure berci una bella birra (ah, no, sono astemio!).

Siamo nel 2013- nell’epoca dei bidgdata, della multicanalità, del loyalty e del mobile marketing- e mi chiedo a cosa servano certe iniziative (proposte non solo dall’insegna citata, sia chiaro), o solo quali obiettivi si pongano. Detto che il paniere proposto è perlomeno risibile e opinabile, se il messaggio voleva essere “rinunciando alle marche più famose (che trovi sui nostri scaffali) e comprando prodotti del tutto anomini, puoi risparmiare un sacco di soldi” credo allora che sia efficace; ma dato che temo che il messaggio volesse essere più semplice, del tipo “anche da noi puoi fare la spesa, spendendo come da un discount”, credo che la via scelta sia quanto meno non felice.

Gli operatori della GDO tradizionale potrebbero raccontare il proprio assortimento nelle corsie dei propri negozi, quando il cliente si trova alla guida del proprio carrello, ponendo l’enfasi sui propri prodotti a marchio oppure sui primi prezzi, per far capire ai clienti quale maggiore libertà di scelta possano offrire rispetto ai classici discount in termini di opportunità di scelta tra marche, private labels, e primi prezzi. Ovviamente anche altri media potrebbero essere utilizzati a tale scopo, ma non voglio perdere il filo del discorso.

Con la soluzione che ho commentato all’inizio, invece, l’effetto è, a mio avviso, quello di un downgrading del messaggio e del posizionamento dell’insegna, ovvero un errore marchiano per chi fa marketing.

Il problema è enfatizzato dal fatto che i discount, dal loro lato, si stanno sforzando per riposizionarsi verso l’alto, migliorando l’appeal dei propri negozi, l’offerta commerciale- con la valorizzazione dei reparti freschi e freschissimi- oltre che la qualità del proprio assortimento, elevando a brand i propri marchi di fantasia (protagonisti anche di spot tv). Insomma, un percorso che, senza poter negare la limitatezza dell’offerta tipica di un discounter [a mio avviso suonano forzati i tentativi di togliersi l’etichetta di discount da parte di alcuni leaders del formato], investe per comunicare ai propri clienti come il proprio assortimento risponda alla domanda di convenienza, ma anche a quella di un corretto value for money.

GDO tradizionale e discount sembrano così percorrere due strade con direzioni diverse. Ovviamente sarà il cliente a scegliere quale strada percorrere (anche di volta in volta, si sa che la fedeltà oggigiorno non è scontata), anche se i dati di vendita periodicamente diffusi da Nielsen o IRI segnalano come solo i discount (tranne qualche rara eccezione nella GDO classica) stanno finora riuscendo, seppure con difficoltà, a reggere l’impatto di questa prolungata crisi.

 

@danielecazzani

 

Un antidoto alla #crisi? Il #loyalty #marketing! (considerazioni a margine dell’Osservatorio #Fedeltà 2013)

Come ogni anno anche l’edizione 2013 dell’Osservatorio Fedeltà promosso dall’Università di Parma- www.osservatoriofedelta.it – è stato un momento importante per fare il punto sullo stato di salute del loyalty marketing in Italia e nel Mondo, soprattutto per capirne il ruolo nell’ambito delle politiche dei retailers in risposta alla perdurante crisi dei consumi (nel nostro Paese soprattutto).

Il Prof.Daveri della Bocconi ha provato a rassicurare i partecipanti illustrando alcune deboli cifre (ripresa ordinativi e miglioramento fiducia imprese e consumatori) che parrebbero sostenere la tesi della fine del periodo recessivo. Onestamente però, al di là delle ottimistiche ipotesi sulla crescita del PIL italiano nei prossimi anni (sovrastimate rispetto a quelle dell’IMF), credo che i retailers farebbero meglio a non affidare le proprie sorti a una prossima ripresa, ma a concentrarsi sui propri business mettendo al centro delle proprie strategie i clienti.

Enzo Grassi, direttore generale di Catalina Marketing Italia, dall’alto del proprio punto di osservazione privilegiato ha infatti illustrato alcuni numeri che non avrebbero dovuto stupire i retailers presenti. Nonostante la crisi abbia colpito indistintamente e duramente tutti i consumatori (i consumi italiani sono a livello di 10 anni fa anche perché il reddito reale si è ridotto del 10%) riducendo la spesa media del 6% (per il combinato disposto di una riduzione della frequenza- che ha inciso per il 2%- e una riduzione della spesa in terminid i quantità e prezzi medi dei prodotti in carrello) i dati esposti hanno dimostrato come la fedeltà sia stata in grado di ridurre l’impatto della crisi, dato che i clienti fedeli hanno ridotto meno la frequenza d’acquisto.

E’ pertanto evidente che quei retailers che in passato hanno investito nella costruzione di una relazione di fedeltà coi propri clienti stiano ora subendo meno i colpi della crisi e, cosa ancora più importante, abbiano la possibilità di innescare, proprio grazie a tale relazione privilegiata, efficaci politiche di rilancio incentrate soprattutto sull’analisi dei comportamenti dei propri clienti fedeli.

Big data, multicanalità, experience, saranno di fatto le parole d’ordine per le politiche di loyalty dei prossimi anni (dopo tutto sono almeno due anni che l’Osservatorio Fedeltà ci dice che è giunto oramai il tempo del loyalty “di servizio”).

Concentrarsi sui propri clienti fidelizzati, quindi su attività di retention, anziché di acquisition, è una scelta che sempre più aziende stanno compiendo, avendo capito che un cliente fedele è un patrimonio da valorizzare, anche perché in grado di richiamare altri clienti meglio di altri media più o meno tradizionali (Nielsen ha recentemente ricordato a tutti che il passaparola è sempre lo strumento più potente, che ora si può avvalere dell’ambiente dei social per vedere elevato all’ennesima potenza la propria efficacia).

E però necessario che i retailers siano sempre più generosi nei confronti dei clienti fedeli, arricchendo di contenuti (anche esperienziali) e non solo di promozioni la carta fedeltà, anche per contrastare in modo efficace i nuovi players che si affacciano sul mercato, grazie proprio alle possibilità offerte dalle tecnologie digitali e l’integrazione tra queste e i negozi fisici e alla diffusione di nuovi strumenti di pagamento (pensiamo a Google Wallet) che diverranno sempre più il perno delle attività di loyalty.

Ma il principale pericolo per i retailers è dato dalla disintermediazione che alcune industrie stanno compiendo, dotandosi di strumenti e piattaforme per dialogare direttamente coi propri clienti, potendo fare leva sulla forza dei propri brand (come il caso illustrato da Procter & Gamble ben dimostra).

In conclusione, solo i retailers che sapranno dare centralità al loyalty marketing, dialogando coi propri migliori clienti e valorizzandone l’experience, potranno  reagire in modo efficace alle mutate condizioni ambientali, dato che pare oramai assodato come il consumatore uscirà comunque cambiato da questa lunga crisi, ovvero sarà sempre più attento al valore e al prezzo, più social e interessato a essere coinvolto in modo attivo (dai retailers o dall’industria).

Un nuovo marketing per i centri commerciali: un menù à la carte (non la solita minestra…)

La sempre maggiore concorrenza tra centri commerciali, la liberalizzazione (o meglio standardizzazione) delle aperture straordinarie, e la debole differenziazione merceologica dei mall- in termini di insegne presenti e di merchandising mix- costituiscono ostacoli che debbono essere affrontati da chi si ponga l’obiettivo della creazione di traffico a favore dei retailers presenti nelle gallerie, e soprattutto di valorizzazione del proprio asset immobiliare.
Diviene pertanto prioritaria la creazione di un’identità per i centri commerciali, al fine di differenziarli dalla concorrenza, creare valore aggiunto per la propria clientela e conseguire gli obiettivi di business dei tenants e della proprietà immobiliare.
Negli ultimi anni si è focalizzata molto l’attenzione sulla progettazione delle food court, pensando che queste fossero sufficienti a caratterizzare il centro commerciale, divenendone il vero elemento distintivo, ricoprendo oltre ad una funzione di servizio anche il ruolo di magnete in grado di creare traffico a favore di tutto il centro commerciale. Ma è piuttosto evidente come non possa certo essere assegnato alla sola food court il compito di definire l’identità di un centro commerciale. E’ invece possibile individuare nuove strade e definire nuove strategie.
Partendo da queste considerazioni, l’elaborazione di un piano di marketing per un centro commerciale deve muovere i primi passi, oltre che dagli obiettivi di marketing, dalla disamina del contesto competitivo, da un’analisi della clientela e dalle risorse a disposizione. Invece nella realtà è facile notare come spesso la formulazione dei piani di marketing elaborati dalle società di gestione a supporto delle gallerie commerciali siano estremamente standardizzati, col risultato che alla sostanziale omogeneità nell’offerta merceologica dei mall si unisce spesso una altrettanto paradossale omogeneità nell’elaborazione delle strategie di marketing.
A onor del vero un corretto piano di marketing per i centri commerciali non può certamente ritenersi risolto nella definizione di un calendario di eventi e di un correlato piano media: il vecchio “piano promo-pubblicitario” è un arnese del passato, forse efficace quando la concorrenza tra centri commerciali era bassa (in alcuni casi nulla) e bastava organizzare un concorso o qualche evento per vedere la propria galleria riempirsi di clientela e registrare record nei corrispettivi dei negozi…
La migliore ricetta per il successo di un centro commerciale non è certamente data dalla ripresentazione di piatti già “cucinati” in altre strutture, quanto dalla preparazione di un menù à la carte progettato per le specifiche esigenze del “palato” dei propri clienti e dello specifico bacino.
Ciò detto, un efficace piano di marketing per un centro commerciale dovrebbe quindi fondarsi su 5 punti principali:
1. la valorizzazione di sinergie tra ancora alimentare e negozi;
2. la fidelizzazione della clientela;
3. la collaborazione col territorio;
4. la gestione strategica della comunicazione;
5. un palinsesto di eventi unici.

1. Attivare sinergie tra galleria e ancora alimentare.
Il forte peso delle ancore alimentari all’interno dei centri commerciali rende prioritario l’attivazione di sinergie, per attivare lo scambio di clientela tra l’ipermercato e le altre attività della galleria. Una ricerca presentata presso IlSole24Ore [“Lo stato dell’arte dei centri commerciali” by Sincron Inova] evidenziava infatti come, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nei centri commerciali non vi è affatto un automatico scambio di clientela tra ancora alimentare e negozi della galleria.

Indagini di mercato commissionate da diversi centri commerciali, evidenziano però come “il principale motivo di frequentazione è la spesa alimentare”. Quindi è necessario tenere conto nell’elaborazione del piano di marketing da questo imprescindibile assunto: il principale driver di visita è costituito dall’ipermercato.
Partendo da questa considerazione e dal fatto che il gestore della galleria non ha modo di manovrare la leva commerciale e promozionale dell’ancora alimentare, è evidente che l’attività della galleria dovrà perlomeno essere coordinata al “momento promozionale” dell’ipermercato (ed eventualmente delle altre ancore presenti nel mall) per creare le più efficaci sinergie, evitando di “parlare a troppe voci” creando un effetto cacofonico.
Per quanto anche questo assunto paia di assoluto buon senso non è difficile notare come, in tanti casi, mall e ancora alimentare lavorino su due “spartiti” diversi, con l’unico effetto certo di disperdere risorse e non ottimizzare la capacità di richiamo del centro commerciale, con evidente danno per i tenants.

2. La fidelizzazione della clientela del centro commerciale
Il numero di carte fedeltà nei nostri portafogli è andato negli anni crescendo, depotenziandone spesso il valore percepito da parte dei consumatori, visto che spesso i retailers emittenti e, cosa ancora più grave, i clienti paiono non sapere quale sia il reale valore (e contenuto) di quel pezzo di plastica…
Da questo punto di vista il contenuto più importante che i consumatori richiedono alle carte fedeltà è la possibilità di accedere a sconti e promozioni, come evidenziato anche dal rapporto “Convenienza subito!” dell’Osservatorio Carte Fedeltà dell’Università di Parma (www.osservatoriofedelta.it).
Scartando a priori l’ipotesi di una semplicistica convenzione dei negozi con la carta fedeltà del nuovo ipermercato (così facendo non si avrebbe alcun controllo sulla gestione dei clienti e i relativi dati) la scelta se dotarsi o meno di una propria carta fedeltà diviene strategica (senza che ciò significhi che la risposta sia obbligata).
Qualora si decidesse di percorrere tale strada, e dotarsi così di una strategia di customer relationship management, diverrebbe prioritario costruire attorno alla nuova carta fedeltà un programma di convenzioni coi negozi della galleria, che offra ai clienti benefici tangibili e immediati; ma sarebbe altrettanto importante uscire dai confini del centro commerciale per costruire un network di opportunità- strutturato come un progetto di coalition marketing– che arricchisca l’offerta della galleria, con sconti su servizi non presenti nel mall.
Qualora tali obiettivi non fossero (o non si ritenessero) raggiungibili per vincoli interni o di natura tecnico ed organizzativa, sarebbe meglio per il centro commerciale non avviare alcun progetto di loyalty…

3. Il centro commerciale come “hub territoriale”
Un moderno centro commerciale, costituendo una potenziale vetrina per tutto ciò che avviene nel territorio oltre che un incredibile punto d’incontro, deve ambire a divenire un vero e proprio hub territoriale.
Questo significa andare oltre il ruolo di semplice sponsor di eventi o manifestazioni territoriali, per divenire partner organizzativo e catalizzatore delle migliori energie locali, mettendo a disposizione i propri spazi, il proprio know-how, i propri media e capacità di comunicare.

4. Il palinsesto degli eventi: creare una shopping experience unica e memorabile
La costruzione di un qualsiasi palinsesto degli eventi deve basarsi sulla scelta di dare spazio ad attività uniche, distintive, con forte carattere sociale, aggregativo e promozionale.
Nella realtà dei fatti, vuoi per la standardizzazione cui accennavo nelle prime righe, vuoi per una gestione non corretta dei budget in termine di allocazione delle risorse, la costruzione del palinsesto di eventi è spesso frutto di mere operazioni “copia e incolla” e non di una reale programmazione basata su una corretta strategia di marketing.
Solo un calendario di iniziative che abbia nella continuità e nella coerenza i propri punti di forza può mirare a costruire una brand identity forte e distintiva.
In tale contesto l’altro fattore fondamentale deve essere la valorizzazione della shopping experience del cliente: creare eventi che possano essere ricordati dai clienti per la capacità che hanno avuto di coinvolgerli.
Un altro tema spesso sottovalutato è dato dai servizi per la clientela: anche in questo ambito è necessario andare oltre l’ABC (spazio bimbi, nursery, ecc.) per dotare il centro commerciale di innovativi servizi a supporto della spesa o della visita nella galleria in grado di migliorare la shopping experience.

5. La comunicazione: la voce del centro commerciale nel territorio
E’ facile riscontrare come spesso i budget delle gallerie commerciali siano sbilanciati o verso i costi organizzativi dell’evento o verso i costi di comunicazione, con gli effetti opposti di organizzare eventi molto complessi senza avere poi risorse per pubblicizzarli correttamente o attuare importanti campagne media a supporto di eventi di bassa qualità.
Un bilanciamento tra le due voci è quindi assolutamente necessaria, così com’è cruciale la definizione di un corretto media mix a sostegno delle singole iniziative.
Il mercato dei media sta subendo una profonda ristrutturazione, con forte perdite di quota da parte della carta stampata e delle affissioni, ma nonostante questa evidenza, quotidiani (locali) e affissioni continuano a essere meccanicamente utilizzati dalla maggior parte dei centri commerciali, spesso semplicemente in ottica tattica e di risposta al concorrente di turno.
E’ invece necessario innovare il media mix evitando la dispersione delle risorse su troppi mezzi e individuando anche mezzi territoriali e non convenzionali (ovvero non gestiti dalle usuali concessionarie pubblicitarie); ma anche uno strumento come il volantino da molti ritenuto prematuramente obsoleto a causa dei suoi numerosi limiti (pensiamo alla distribuzione), se opportunamente reinterpretato quale magazine del centro commerciale, potrebbe divenire un media assolutamente efficace, proprio per la sua capacità di dare profondità al racconto del centro commerciale.
Il classico sito Internet deve essere affiancato da una piattaforma mobile integrata con attività sui social network, con l’obiettivo di creare una community che non può che essere una conseguenza della dimensione sociale del centro commerciale fisico. Bisogna anche in questo caso andare al di là di un mero approccio “estetico” (avere una pagina Facebook con qualche fan e like, o un profilo Twitter): l’obiettivo deve essere creare uno spazio dove possano essere rivissute, enfatizzate e viralizzate le emozioni vissute all’interno del centro commerciale.
E’ importante infatti ricordare che l’obiettivo è portare i clienti nel Centro Commerciale per ottimizzare le revenues dei retailers presenti nel mall e garantire la migliore valorizzazione dell’immobile.

Se per certi versi il percorso delineato pare rispondere al semplice buon senso, nella realtà si tratta di una rivoluzione per un settore per tanti versi ancora non maturo, dove la standardizzazione del servizio fino a ieri poteva (forse) essere accettata, ma dove oggi l’aumentata pressione concorrenziale, le difficoltà del mercato immobiliare e la riduzione delle risorse, rendono assolutamente necessario un nuovo approccio di marketing per la valorizzazione dei propri asset.

Biancaneve e i sette nani, ovvero la #GDO e le sue sette sfide

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Ogni giorno abbiamo modo di leggere dati sempre peggiori pubblicati da Istituti di Ricerca, Osservatori, Organizzazioni, Associazioni, Ministeri, sul crollo dei consumi nel nostro Paese, la progressiva distruzione del PIL e l’aumento della disoccupazione (con punte drammatiche al Sud e più in generale per i giovani). Contemporaneamente la GDO pare interrogarsi sul calo dei volumi (e dei fatturati) che caratterizzano questa prima metà del 2013 (e che hanno interessato almeno i due anni precedenti) chiedendosene quasi il motivo, quasi non capisse che tale situazione non è altro che il combinato disposto dei componenti della crisi italiana sopra accennati.

E’ però vero che, pur in questo contesto, all’interno della GDO vi sono realtà che stanno registrando comunque delle crescite o, perlomeno, dimostrano una migliore resilienza (per usare un termine proprio della Psicologia tanto in voga oggi).

La domanda da cui parto è quindi molto semplice: la GDO ha la possibilità di affrontare tale contesto in maniera meno passiva, sapendo trovare la forza per ripensare le proprie strategie, evitando di attendere soluzioni miracolistiche e magari facendo “sistema” per rappresentare in modo più forte le istanze di un settore importante dell’economia del nostro Paese? La mia risposta è ovviamente SI’ e per argomentarla ho deciso di elaborare un parallelo con la fiaba di Biancaneve e i sette nani, dove la dolce Biancaneve (la GDO) fugge dalla perfida Regina (la crisi) e si nasconde in una casa, abitata da sette nani (le sfide della GDO) trovando insieme a loro la via per la felicità (il Principe quale metafora della ripresa), nonostante cadute e momenti di difficoltà (la mela avvelenata).

Facciamo quindi conoscenza dei sette nani (lo so, c’è chi dice che la sfide della GDO siano ben più numerose…).

 

1-COMPRALO. I dati inerenti l’incremento del numero di referenze trattate negli ipermercati- IRI certifica una media di oltre 16 mila referenze solo nel comparto LCC- dimostrano come l’esplosione di prodotti sugli scaffali solo parzialmente sia andata di pari passo con l’aumento della quota di questo canale di vendita.

Più in generale, nel tentativo di incrementare la propria share of wallet a danno dei canali tradizionali, la GDO ha via via aumentato il numero di prodotti in assortimento, lavorando spesso più sull’asse della profondità che su quello dell’ampiezza, ma senza sembrare avere un’idea chiara sulla direzione da seguire, soprattutto nel canale ipermercati.

E’ altrettanto vero che certi gigantismi– che hanno portato a costruire ipermercati di tali dimensioni da apparire come “pianeti” senza ossigeno- hanno dimostrato la difficoltà di estendere oltre certi limiti la capacità di gestione degli assortimenti, come se le insegne della GDO che su tali strade si sono avventurate non fossero state in grado di riempire quegli spazi di contenuti rilevanti per la propria clientela. Abbiamo così visto nascere reparti non food “dopati” come vaghi tentativi di imitazione del category killers di turno, senza però averne il know how, né tantomeno essere in grado di raccontare al cliente questa loro nuova dimensione (per essere credibile come specialista dell’elettronica, ad esempio, non è sufficiente imitare l’assortimento del leader di mercato e realizzare un negozio nel negozio, dotato di propri spazi e strutture ad hoc).

Ora il problema non è, tout court, ridurre la numerica dei prodotti sugli scaffali quanto attuare una gestione attiva e strategica dell’assortimento, anziché attuare periodiche revisioni assortimentali che spesso si limitano a de-listing funzionali all’accaparramento di ulteriori listing fee… Detta così parrebbe un’ovvietà, ma la verità è che basta dare un’occhiata agli scaffali per rendersi conto di come concetti semplici come la costruzione di una scala prezzi leggibile per il cliente sia spesso un’illusione e quanto i negozi siano ancora pieni di vecchie “glorie del passato” che si trovano a fianco delle new entry annualmente proposte dall’Industria.

Ma quanto vi sia ancora da fare nell’ambito di una corretta strategia di manutenzione dei propri scaffali è dimostrato dal fatto che vi siano iniziative quali “Prodotto dell’Anno” che dichiarano l’obiettivo di proporre annualmente le innovazioni di prodotto migliori cui dare spazio sui propri scaffali. Pur essendo vero che la prima vittima di tale illusione è la stessa IDM, è altrettanto evidente che la maggior parte delle innovazioni nella realtà non sono tali (almeno agli occhi del vero giudice: il cliente) e che la maggior parte dei lanci non si traducono in successi. Provocatoriamente inoltre potrei dire che per conoscere il vero “prodotto dell’anno” sarebbe sufficiente leggere i dati di venduto alla casse dei propri punti vendita.

Infine un breve accenno alle private labels, da taluni viste come “fate turchine” in grado di miracolare margini e fatturati. Al di là di avere sbagliato fiaba- mi si conceda la battuta…- il rischio concreto è quello di attribuire a tali prodotti un ruolo non proprio e troppo ambizioso. A mio avviso la crescita che le PL stanno registrando negli ultimi anni- per quanto la quota italiana, prossima al 20%, sia ancora lontana dalla media europea del 35%- deve essere vista soprattutto come efficace risposta alla domanda del cliente di prodotti di buona qualità ma che non debbano scontare nel prezzo la brand value dei prodotti dell’IDM e, soprattutto dal lato della GDO, come tassello cruciale per rafforzare il rapporto che lega il retailer al proprio singolo cliente.

Ciò che spesso manca su questo fronte è però un’attività di scouting finalizzata alla ricerca di fornitori e prodotti, che si ponga l’obiettivo dell’innovazione di prodotto/servizio a favore del cliente, facendo sì che la GDO esca dalla logica da follower dell’IDM nella selezione dei prodotti e dai più banali “mee too” anche sul fronte dei packaging.

Il lavoro di Compralo è certamente tra i più pesanti e critici, e proprio per questo, senza sminuirne la centralità, sarà certamente uno degli aspetti sui quali Biancaneve dovrà lavorare maggiormente.

2-ESPONILO. Nonostante siano numerose le ricerche e i contributi che parlano del punto vendita quale “media”, nelle realtà i supermercati e gli ipermercati di oggi sono non molto dissimili da come si presentavano anni fa. Certo, vi sono state evoluzioni nelle attrezzature (penso ai passi in avanti, soprattutto nell’ambito del risparmio energetico, sulle attrezzature dei freschi e sull’ambientazione di alcuni reparti), ma al di là di alcune chimere- come il digital signage– penso si possa dire che negli ultimi anni le novità principali si siano concentrate soprattutto nell’area del barriera casse (prima con l’introduzione di soluzioni di self scanning e più recentemente self checkout), anche se mi chiedo con quale reale valore per il cliente che si vede sempre più gravato di attività… Pur essendo evidente come l’organizzazione spaziale di un punto vendita parta sempre e comunque dal prodotto e servizi contenuti e non essendovi layout ottimali in assoluto, sono convinto che tanti operatori della GDO farebbero meglio a girare i propri punti vendita dotati di carrello per capirne le tante “forzature” e “anomalie”: scoprirebbero così corridoi troppo stretti, categorie merceologiche distribuite in ogni qual dove nel punto vendita, assenza di spazi di “respiro”- dove poter attendere qualcuno col carrello senza sentirsi come una macchina in panne in mezzo ai via dei Fori Imperiali- o zone antistanti le casse sempre troppo anguste…

Esponilo quindi- oltre a utilizzare i più moderni software per la gestione dello space allocation e il visual merchandising– dovrebbe di tanto in tanto mettersi nei panni del cliente e chiedersi se sia davvero così marginale studiare in modo più attento quanto la GDO sia in grado di aiutare il cliente all’interno del punto vendita, realizzando ad esempio una chiara segnaletica che gli permetta di decifrare gli scaffali, o trovare il prodotto che gli serve nel minor tempo possibile. In caso contrario, ad esempio, i sempre più dispersivi ipermercati avranno ben poco da lamentarsi del fatto che tanti clienti si spostino sempre più verso canali, quali il discount o supermercati di piccole dimensioni, dove la lettura dell’assortimento e la “viabilità” risultano più intuitivi e rapidi.

3-PROMOZIONALO. Si tratta certamente del nano più ostico e scorbutico. Negli anni è diventato il vero protagonista della scena, anche per rimediare agli eccessi di Compralo e ai limiti di Esponilo che in effetti hanno riempito (in modo disordinato) gli scaffali di prodotti difficilmente vendibili se non con un sostanzioso taglio prezzo. Come recentemente documentato da Nielsen la pressione promozionale è passata dal 20% nel 2000 al 30% nel 2012 e nel contempo la sua efficacia si è ridotta. Nei libri di marketing- approssimativamente alle pagine due o tre c’è scritto che la leva del prezzo (ci ricordiamo le care, desuete, famose quattro “P”? Product, Price, Promotion, Place?) è la più facile da imitare da parte dei competitors, soprattutto quando questi vendono il nostro medesimo prodotto. E dato che le analisi Nielsen dimostrano come le promozioni riguardino, 365 giorni all’anno, sia i leader che i followers di categoria- oramai anche le private labels!- ecco che abbiamo un elemento che da solo spiega la riduzione dell’efficacia promozionale. Oggigiorno poi vi sono strumenti che permettono ai clienti di comparare i prezzi tra i diversi retailers semplicemente utilizzando uno smartphone e geolocalizzando la ricerca; e poiché i clienti sono oramai divenuti molto bravi a utilizzare questi strumenti (molto più di quanto lo siano certi buyers…) non v’è da stupirsi che la GDO sia riuscita in pochi anni  a formare una classe di cherry pickers seriali.

L’uscita da questo cul de sac non è ovviamente nel semplificatorio passaggio all’every day low price– che è una strategia commerciale ed organizzativa e non una tattica- perché dobbiamo sempre ricordarci che le promozioni hanno risposto alla richiesta di risparmio delle famiglie italiane sempre più forte in questo contesto di prolungata crisi, e sarebbe pertanto sbagliato considerarle un errore. Ma la crescita della pressione promozionale è anche frutto della sempre minore rappresentatività dei prezzi normali di vendita a scaffale dei prodotti: vi sono categorie- l’olio d’oliva, il tonno in scatola solo per citare due esempi- dove la pressione è arrivata a livelli tali da farci chiedere se abbia senso o meno avere il prodotto se non in promozione. Questa situazione è a mio avviso frutto a sua volta delle regole contrattuali in vigore nella gran parte della catene della GDO italiana, dove il gran numero di livelli di sconti e condizioni ha reso via via sempre più complicato la gestione dei prezzi di vendita, con l’effetto ultimo di rendere difficile il controllo dei margini per la GDO e complicare agli occhi del cliente la percezione del reale valore dei prodotti, sminuendo così anche l’efficacia di richiamo della promozione stessa.

Quindi solo lavorando a stretto contatto con Compralo il nostro Promozionalo potrà migliorare la qualità del proprio lavoro, anche nella misura in cui sarà motivato a collaborare con Comunicalo e Conoscilo, i successivi due nani di cui parleremo subito.

4-COMUNICALO. I volantini, la televisione, la radio, la carta stampata, l’outdoor, i nuovi media: non manca nulla al coltellino da lavoro di Comunicalo. Peccato che difficilmente sappia calcolare l’efficacia reale di ciascuno dei media utilizzati e gestirli in modo sinergico. Le funzioni Marketing, oltre a essere talvolta come delle “riserve indiane” all’interno degli organigrammi della GDO, spesso anche al loro interno lavorano prive di una visione d’insieme, come se l’obiettivo fosse quello di fare rumore, anziché quello di parlare (armoniosamente) coi propri potenziali clienti. Non v’è da stupirsi che guardando tale panorama, ad esempio, George Plassat di Carrefour si interroghi sul senso del Marketing (di questo marketing, ribadisco)…

Anche il linguaggio pubblicitario è rimasto ancorato a vecchi slogan e stereotipi: si leggono titoli di volantini forse in grado di suggestionare la mitica casalinga di Voghera, ma ben distanti dalla esigenze dei consumatori moderni che chiedono più chiarezza e meno chiasso.

Una approfondimento merita l’argomento “volantino e volantinaggio”: premesso che il primo è lo specchio del lavoro caotico di Compralo e Promozionalo, possiamo però aggiungere che anche la fase di distribuzione- interamente nelle mani di Comunicalo- nemmeno utilizzando i tanto decantati strumenti di certificazione (abbiamo presente, tutti noi, quanti volantini riceviamo giornalmente nelle cassette postali?) può dirsi pienamente controllata, col rischio che tale inefficacia vanifichi gli impressionanti investimenti fatti dalla GDO proprio nei volantini (che assorbono mediamente il 70% dei budget pubblicitari).

Nonostante ogni anno si stampino in Italia più di 12 miliardi di volantini, e non vi sia un segno di rallentamento, ritengo che sia assolutamente opportuno un ripensamento di questa traiettoria che la GDO pare oggi non essere in grado di interrompere, nonostante risulti sempre più evidente trattarsi di una strada malridotta.

Per compiere reali passi in avanti sarà assolutamente necessario che Comunicalo chiami in suo (e nostro) aiuto il tanto bistrattato Conoscilo.

5-CONOSCILO. “Mettere il cliente al centro” è da anni uno dei must dichiarati dalla GDO ed oggetto di  numerosi workshop e convegni. “Mettere al centro il cliente” dovrebbe significare in primis costruire attorno alle sue esigenze i nostri negozi- in termini di assortimenti, prezzi e servizi- ma nella realtà la tentazione cui tanti retailers non sanno resistere è quella di mettere il cliente al centro… di un fantomatico bersaglio, cercando di colpirlo con promozioni di tutti i tipi, spesso molto distanti dai suoi reali desiderata. L’ambito promozionale è infatti il regno delle attività mass market: pur disponendo di una ricca serie di dati loyalty, la maggior parte degli operatori del settore pare finora non essere stata in grado di valorizzare tale patrimonio di conoscenza dei comportamenti d’acquisto dei clienti.

Sia ben chiaro che non si intende qui sostenere che i soli dati loyalty siano in grado di disegnare un profilo perfetto della clientela, ma è certo che sia molto meglio lavorare perlomeno su aggregati di clienti (profili/cluster), piuttosto che trattare i clienti come fossero una sola cosa. Un cliente alto frequentante, ad esempio, sarà certamente in grado di apprezzare maggiormente attività promozionali nei reparti freschissimi rispetto a un cliente a bassa frequenza e che magari si reca nel punto vendita solo in occasione delle promozioni più aggressive… I dati loyalty permettono anche di verificare il reale appeal delle singole meccaniche promozionali, ma anche in questo caso spesso si preferisce ignorare tali dati per non mettere in discussione quei calendari e quelle dinamiche promozionali che nascono dall’incontro tra GDO e IDM e che ben poco si preoccupano del cliente finale e che raramente effettuano obiettive valutazioni ex post dei risultati (analizzando l’impatto delle promo non solo sul prodotto, ma sull’intera categoria o sul carrello).

Se una reale presa di consapevolezza del valore dei dati loyalty pare paradossalmente ancora lungi dal venire, ecco già che si affermano nuove “illusioni”.

L’ultima è legata la fenomeno “social”: così quasi tutte le insegne delle GDO aprono pagine su Facebook, twittano come il più compulsivo degli adolescenti, ma senza avere ben chiaro, a mio avviso, che la prima dimensione “social” è data dal punto vendita, dalla possibilità di innescare in quel contesto una reale e positiva relazione col cliente, guardandolo negli occhi e rispondendo alle sue domande e gestendone le eventuali lamentele e criticità.

Non sarò certamente io a disconoscere l’importanza delle attività di social marketing, ma questo non significa illudersi che una corretta gestione di tali ambiti sia in grado di colmare lacune o mancanze della propria politica commerciale o del punto vendita.

E’ pertanto necessario dare centralità alle funzioni Marketing rendendole parte attiva delle dinamiche aziendali: solo in questo modo la GDO potrà tornare a parlare alla propria clientela, recuperando anche quella capacità di ascolto che pare essersi persa nel rumore da lei stessa provocato.

6-TRASPORTALO. La logistica è da molti considerata come una “monade” leibniziana, ovvero come un territorio a sé stante, con proprie regole, e per questo motivo i progetti di ottimizzazione nascono e vengono spesso gestiti all’interno delle strette (e alte) mura della medesima funzione. Nella realtà sono convinto che anche l’efficienza ed efficacia della logistica passi, anzi scaturisca, da una corretta gestione degli assortimenti, ovvero da una loro calibratura sulla realtà ( quantitativa e qualitativa) della rete vendita. Fino ad oggi si è provato a ottimizzare tale ambito- addirittura pensando di trasformarlo in una fonte di redditività per chi gestisce affiliazioni…- esternalizzando, o incentivando un proliferare di Cedi e sotto-Cedi della cui singola efficacia mi permetto di dubitare, almeno a giudicare dall’impatto sui conti economici dei costi logistici e dalla numerose criticità che vivono i punti vendita (anche se, a onor del vero, dovremmo aggiungere che l’attività promozionale, fatta di picchi di consegna e successive rimanenze, certamente non aiuta…).

L’argomento meriterebbe certamente più spazio, ad esempio per affrontare il tema dei prodotti freschissimi (pensiamo all’ortofrutta) e alle insidie del “chilometro zero” (difficilmente gestibile in base all’attuale struttura della supply chain nella GDO), ma mi riprometto di tornarne a parlarne in modo più approfondito in futuro.

Ciò che è certo è che Trasportalo non dovrebbe mai lavorare da solo, anzi dovrebbe essere coinvolto in modo più attivo dalle altre funzioni, che farebbero meglio a non vedere la Logistica come un corpo esterno (o addirittura estraneo) al proprio business.

7-MOTIVALO. Il personale dovrebbe essere un protagonista del punto vendita (anche se parliamo di vendita non assistita): per questa ragione Motivalo dovrebbero sempre lavorare a stretto gomito con tutti gli altri compagni. Anche su questo fronte però,  alla grande attenzione per le divise e altri aspetti “estetici” del negozio spesso non corrisponde una reale valorizzazione del personale inteso come terminale di contatto col cliente. Per intenderci: giustamente la maggior parte degli operatori della GDO investe notevoli risorse nella continua formazione professionale del personale, ma la vera lacuna, a mio avviso, è spesso data, dal mancato coinvolgimento delle risorse umane nelle politiche di insegna, spesso subite più che conosciute realmente. Così capita di frequente che il cliente non trovi nel personale di vendita quel supporto che si attende, venendo spesso rimandato ad altri luoghi (come il box informazioni, vero e proprio “ombelico” del negozio), vivendo la medesima sensazione che si prova- a chi non sarà capitato almeno una volta?- di avere fatto la fila di fronte a uno sportello INPS o delle Poste per poi scoprire di doversi rivolgere ad altro sportello o ufficio…

I retailers dovrebbero in questo senso incentivare un approccio bottom-up, ovvero una generazione dal basso di idee e progetti, coinvolgendo maggiormente coloro che vivono in prima persona la realtà del negozio insieme al cliente. Alcune personali esperienze mi danno la certezza che si tratta di un patrimonio ai più sconosciuto, ma che potrebbe rivelarsi quanto mai strategico per la gran parte degli operatori del settore: potrebbero così scoprire che i progetti migliori non nascono da impeccabili presentazioni in PowerPoint ma  da una chiacchierata con un repartista o un addetto al banco taglio o una cassiera.

 

In conclusione: non cerchiamo perfide Regine da incolpare per la situazione attuale e non restiamo in attesa di Principi che ci risveglino. Rimbocchiamoci invece le maniche e iniziamo a vincere le ingannevoli convinzioni di un passato oramai irrecuperabile o di un futuro che non è mai arrivato, riscoprendo l’ABC del commercio, senza andare troppo lontano, scavando magari nella storia delle nostre aziende e guardando negli occhi i nostri clienti: come i sette nani della fiaba saremo così in grado di estrarre ancora pietre preziose dalla pur dura roccia.

 

Ammissione finale:

C’è una forzatura nel parallelo con la fiaba: è evidente a tutti che la GDO non sia bella come Biancaneve 🙂

 

Daniele Cazzani

Responsabile Marketing e Comunicazione – Ipermercati Pellicano – Lombardini Holding S.p.A.

@danielecazzani

Uno store manager per le #farmacie

farmaci

Dati recentemente diffusi da Nielsen fotografano una situazione di difficoltà per il canale farmacie, che hanno chiuso il 2012 con una flessione del fatturato, dovuto a un generalizzato calo dei consumi- farmaci etici, OTC, cosmetici, parafarmaci- e a una crescita dei farmaci generici/equivalenti (la cui quota è, a onor del vero, ancora largamente inferiore agli altri Paesi europei).
Le farmacie italiane stanno “cambiando volto”, sia per l’ingresso nell’arena competitiva delle parafarmacie- siano queste gestite o meno dalla GDO- sia per una sempre maggiore attenzione dei consumatori alle componenti di servizio e di prezzo nell’ambito delle proprie esperienze di acquisto in ambito salutistico o, più in generale, per prodotti afferenti l’area del benessere.
Per questi motivi è necessario andare oltre la visione delle farmacie come meri punti di presidio farmaceutico nel territorio- tratto che resterà, sia ben inteso, predominante- approcciando il canale con logiche più “commerciali” e di “servizio” , riconoscendo cioè che anche le farmacie sono oggi né più né meno che negozi, ove dovranno essere sempre più importanti le attività di category management (per la gestione degli assortimenti), di visual merchandising (per la gestione degli spazi e dell’esposizione), e di gestione del pricing (non solo in ottica promozionale).
Tale cambiamento dovrà comportare anche una maggiore focalizzazione sui segmenti di offerta non propriamente farmaceutici, quali la cosmesi che ha ancora importanti margini di crescita. Infatti la quota della distribuzione dei prodotti cosmetici nel canale farmacie è ancora bassa (di poco superiore al 20%) rispetto ad esempio al canale della distribuzione organizzata, ma da alcuni anni sta registrando importanti tassi di crescita, ben superiori alle medie di mercato. Un altro dato che evidenzia le notevoli potenzialità del canale è dato dal fatto che solo il 6% della popolazione acquista prodotti cosmetici in farmacia (contro un dato di oltre il 50% relativo alla GDO) e che vi sono ampie fasce di popolazione (giovani e anziani) che non effettuano tali acquisti all’interno del canale; inoltre il settore cosmetico è ancora per la gran parte femminile, presentando quindi ulteriori opportunità di crescita verso il settore maschile.
In tale contesto, nel confronto con tutti gli altri canali di vendita che le farmacie non potranno più trascurare- GDO, erboristerie/profumerie- il canale farmacie continua ad avere degli atout qualificanti e che opportunamente sfruttati dovranno divenire il punto di forza per l’elaborazione delle nuove strategie di sviluppo. Nell’immagine sotto riportata sono riassunti alcune keywords collegate ai diversi canali,

keywords

Partendo dalle caratteristiche del canale farmacie sopra evidenziati, sarà necessario che i farmacisti abbandonino mentalmente il camice bianco per indossare i panni di store manager, enfatizzando gli elementi di professionalità e servizio/assistenza a favore delle clientela, lavorando sulla qualità dell’assortimento (selezione ex ante dei prodotti, da non delegare all’industria) e adottando tecniche moderne di visual merchandising (e di comunicazione in store), per evitare che le farmacie, come oggi spesso capita, appaiano sempre più simili ai souk (senza averne, ahinoi, il relativo fascino!) nel goffo tentativo di imitare logiche commerciali non ancora metabolizzate e comprese.

Sono    quindi molte le sfide che attendono questo canale, che dovrà avere la forza non solo di rispondere ai mutamenti in atto nel contesto sociale, economico e normativo, ma di disegnare anche attraverso opportune strategie di marketing una propria nuova identità in grado di rispondere alle sempre più complesse esigenze di un consumatore evoluto, informato e responsabile.

Il terzo incomodo (il cliente!?)

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Nel corso degli ultimi anni si è registrata una forte crescita del cambi di organizzazione (cambi insegna) nell’ambito della GDO, con una dinamica accelerata rispetto ai periodi precedenti.

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Il cambio insegna di un negozio- inteso come passaggio da un’organizzazione a un’altra- è certamente un momento delicato che coinvolge personale, assortimenti, layout fisici, clienti e via dicendo.

Ma concentriamoci sui clienti. Quando un negozio viene ceduto da un retailer all’altro, i clienti normalmente vengono gestiti come dei terzi incomodi:  difficilmente qualcuno si fa carico di spiegare quanto avverrà a quello che spesso è il proprio negozio di riferimento, al di là di banali cartelli di lavori in corso che ricordano i famigerati “stiamo lavorando per voi” che si osservano (stando in coda) lungo le autostrade del nostro Paese. Poi un giorno, come per incanto, il cliente varcando la soglia del punto vendita noterà che gli addetti alla vendita hanno cambiato divisa, non troverà più quella pasta (private label) che tanto gli piaceva e scoprirà che quella tessera di plastica che custodisce nel portafoglio non vale più nulla, né i punti in essa accumulati…

Uno scenario troppo fosco? Non direi… E’ quanto accade normalmente.

E’ assurdo questo modo di procedere, non solo per il mancato rispetto del cliente- che dovrebbe essere lo stakeholder di riferimento (il “capo” per dirla con Mercadona)- ma anche perché interrompere in modo così drastico la “storia” di un negozio (sia questa una superette, un supermercato o un ipermercato) è un metodo efficacissimo per distruggere valore (ovvero parte di quell’avviamento che viene correttamente valutato nell’ambito degli accordi di cessione e vendita di negozi).

E’ certamente vero che il rapporto tra retailer uscente e subentrante è spesso difficile e “scabroso”, ma sono altrettanto certo che si possa fare di meglio, mettendo al centro il CLIENTE  non solo nelle presentazioni in powerpoint dei Convegni ma anche nella più difficile realtà quotidiana… Ne vogliamo parlare?

Daniele Cazzani @danielecazzani

Grana Padano e Parmigiano Reggiano: il valore del brand, la filiera, l’export e i consumi interni

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I dati relativi alle esportazioni di GRANA PADANO DOP e PARMIGIANO REGGIANO DOP registrano una costante crescita (data un incremento dei volumi sia sul mercato europeo, che statunitense e nei paesi emergenti soprattutto dell’area asitica).

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GRANA PADANO DOP e PARMIGIANO REGGIANO DOP si confermano pertanto due incredibili ambasciatori del Made in Italy agro-alimentare nel Mondo.

A fronte di questi dati incoraggianti sul fronte interno i consumi- principalmente concentrati nei canali moderni (superette, super e iper)- stanno conoscendo da alcuni anni una flessione.

consumi formaggio duri

Mi chiedo provocatoriamente se tali dati negativi siano in qualche modo imputabili anche alle scelte di advertising dei rispettivi Consorzi. Gli spot televisivi di queste due eccellenze italiane, si sono infatti contraddistinti negli ultimi anni per scelte spesso discutibili: dallo spot “Pa-pa-pa Parmigiano” (basato su una canzone dei Ricchi e Poveri  http://www.youtube.com/watch?v=nfitHk29H4Q) al famoso “Grana Padao” (spot con ragazza brasiliana) o ancora al più recente “non invitare a tavola uno sconosciuto” (http://www.youtube.com/watch?v=UDMJwO-IIwY). Per non parlare degli spot a sostegno del consumo di Grana Padano a supporto delle zone terremotate dell’Emilia: vista l’importanza del messaggio e la gravità della situazione, era certamente possibile realizzare un messaggio più coinvolgente ed empatico (magari con meno protagonismi…).

Non metto certamente in dubbio l’originalità e “simpatia” di alcune di queste idee pubblicitarie, ma mi chiedo come (e se) questi spot siano in grado di portare al consumatore (italiano o straniero che sia) la QUALITA’ e la STORIA che questi due prestigiosi marchi racchiudono e, per converso, quanto gli incoraggianti risultati dell’export siano invece imputabili a una forte riscoperta del made in Italy nel Mondo e a una migliore (più accorta e selezionata) gestione dei canali di vendita.

A tal proposito una nota finale. Nei comunicati dei Consorzi si enfatizzano spesso i risultati conseguiti in termini di aumento di volumi di produzione (ed export, vedi sopra), ma mi sembra vi sia un minore attenzione per la componente “qualitativa” dell’offerta: non è forse vero che la tremenda pressione promozionale che questi due prodotti soffrono all’interno dei canali della distribuzione moderna ne ha nel tempo deteriorato il valore agli occhi del consumatore (almeno in parte)? Sono convinto che le nostre eccellenze debbano essere tutelate preservandole da certi agoni competitivi utili a gonfiare i volumi (ma non sempre i conti economici dei piccoli produttori e allevatori alla base della catena del valore che andrebbero invece tutelati).

Daniele Cazzani

INSEGNE E PACK CARREFOUR: DUE STORIE DIVERSE?

 

Da alcuni mesi Carrefour ha intrapreso una profonda modifica del packaging dei propri prodotti a marchio, optando per una grafica più sobria, meglio leggibile e nel contempo meno basica (povera) rispetto alla versione precedente. Uno degli elementi di novità è dato dall’abbandono dell’alabarda del logo Carrefour, lasciando sul pack, con la consueta font, solo la scritta “Carrefour”.

Tale operazione è stata supportata da un’importante campagna media basata sul claim “prodotti Carrefour, ispirati da voi” per spiegare il ruolo del panel test di consumatori europei cui vengono sottoposti tutti i prodotti a marchio del colosso francese. Sui prodotti inoltre è stato apposto un bollino blu per “certificare” questo gradimento.

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Come anticipato da www.retailwatch.it sui punti vendita Carrefour avrebbe invece deciso di eliminare la scritta “Carrefour”, lasciando solo l’alabarda nell’insegna opportunamente affiancata dalla dicitura “iper”, “market” o “express” a seconda del formato del negozio.

Possiamo dire che le due scelte appaiono distoniche, come prese da due Società diverse? C’è un po’ di confusione sotto i cieli di Francia? Forse inizio a comprendere i dubbi di Monsieur Plassat sul marketing (di Carrefour)…