L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA LOYALTY

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Iniziamo con una considerazione che dai più potrebbe essere considerata una banalità.

Per un operatore della GDO, la carta fedeltà– insieme ai prodotti a marchio- dovrebbe essere una delle principali leve per la costruzione della propria brand identity. Per quanto risulti banale ricordare come assortimenti e prezzi siano elementi facilmente imitabili dal parte dei nostri concorrenti, si deve ravvisare come nella realtà la consapevolezza dell’importanza del Loyalty Marketing fatichi a farsi strada. E ciò nonostante fosse legittimo attendersi che la crisi che la GDO sta attraversando avrebbe comportato un’analisi critica degli approcci e le strategie che hanno caratterizzato gli ultimi anni: assortimenti ridondanti– guidati dalle logiche di listing fee e dalla scelte dell’Industria e non certo da attente valutazione di category management- politiche di pricing confuse e spesso imperscrutabili per il cliente, un sempre più massivo ricorso alla leva promozionale mass market.

La scarsa lungimiranza delle scelte fin qui compiute nasce certamente dal fatto che per anni si sono ignorati i dati loyalty, paradossalmente disponibili (e in grande abbondanza) ritenendo, erroneamente, che le attività di Loyalty Marketing fossero più degli esercizi di stile che dei potenti strumenti nelle mani dei retailers.

Una provocazione che può valere come esempio sul mancato riconoscimento del ruolo della Loyalty: per sapere quale sia il “prodotto dell’anno” siamo davvero convinti sia meglio ascoltare il parere di un panel di consumatori, anziché le scelte sul nostro scaffale dei nostri clienti?

Certo, forse a sostenere questa situazione di marginalizzazione hanno pesato casi in cui il Loyalty Marketing è divenuto cosa a sé all’interno delle organizzazioni aziendali, una “riserva” con proprie logiche e obiettivi spesso distanti e se non del tutto incoerenti rispetto a quelle del core business aziendale.

Ma tali devianze credo non possano nascondere l’evidenza che, nonostante nel corso degli anni siano certamente aumentati gli investimenti nel Loyalty Marketing, spesso la relativa funzione aziendale risulta ancora essere marginale o perlomeno non al centro delle scelte strategiche aziendali.

Non credo che il problema  sia riassumibile nel solo termine dell’ammontare delle risorse investite, quanto nella capacità di “innestare” realmente il Loyalty Marketing nell’alveo delle strategie aziendali.

Tale processo non potrà mai decollare realmente, almeno finché la cultura della fidelizzazione non sarà diffusa in tutte le ramificazioni aziendali in modo tale che il cliente possa viverla nel corso della sua esperienza d’acquisto (dall’ingresso al punto vendita, al percorso lungo le corsie, alle casse, navigando sul sito web o mobile, ecc).

Con il pragmatismo che nasce dal fatto di lavorare all’interno di una piccola (artigianale) realtà nel mare magnum della GDO, voglio portare l’attenzione su due momenti che a mio parere esemplificano la mancanza di una cultura delle fidelizzazione: la sottoscrizione della carta fedeltà e il “packaging” delle tessere.

Partiamo dal secondo. Lo studio grafico delle carte fedeltà spesso e volentieri denuncia frettolosità e disinteresse: codici colore ed elementi grafici sono talvolta del tutto scollegati dall’immagine dell’insegna, fino a risultare anonimi; non esiste un packaging di presentazione al cliente (perché non pensare a un cofanetto che contenga la tessera, il regolamento e- perché no?- un buono sconto?). Tale approccio è davvero paradossale se pensiamo che la carta fedeltà è nei fatti un “pezzo di noi” che il cliente porta sempre con sé…

Ma, soprattutto, voglio concentrare l’attenzione sul momento di ingresso nel mondo loyalty di una qualsivoglia insegna della GDO, ovvero la sottoscrizione della carta fedeltà. Se siamo fortunati , una volta ottenuta l’attenzione del personale di turno al box informazioni ci viene rapidamente consegnato il modulo per l’inserimento dei propri dati. Personalmente per arricchire di contenuti e informazioni i secondi dedicati alla compilazione non ho mai avuto il piacere che il personale di cassa mi spiegasse quali fossero i vantaggi della propria carta fedeltà, illustrandomi ad esempio la raccolta punti, oppure le convenzioni con altri operatori esterni. Nulla. Di solito è il silenzio ad avvolgere il cliente, lasciato solo nella compilazione del modulo, e che, con difficoltà riesce talvolta ad avere informazioni esaustive sul trattamento dei dati in base alla normativa sulla Privacy. L’effetto è simile a un ufficio postale o bancario, dove si devono compilare dei moduli in modo asettico sotto lo sguardo (anch’esso asettico) di un addetto.

Spesso il risultato di tale trascuratezza è riscontrabile nel database clienti: poco leggibile perché con dati incompleti o manifestamente erronei; minando così tutte le operazioni a valle che dovrebbero basarsi sulla qualità dei primi dati raccolti.

Se davvero vogliamo parlare di costruzione di una brand identity attraverso il Loyalty Marketing, anziché pensare che il problema principale sia dato dalla limitatezza delle risorse a disposizione, dovremo ammettere che il vero punto focale, in grado di determinare o meno il successo delle nostre strategie, è nel fatto che il percorso deve partire dal basso, con un approccio bottom-up, ovvero dal punto vendita, vera arena dove si gioca il rapporto col cliente, dove tutto inizia (la prima visita, la sottoscrizione della tessera) e dove, ci si augura, nulla debba mai finire…

Daniele Cazzani @danielecazzani

Uno, nessuno, centomila. Alla ricerca di un’identità per i centri commerciali

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I centri commerciali  sono parte integrante dei nostri panorami architettonici e, cosa ancora più importante, del nostro vissuto di consumatori.

Ciononostante a mio avviso il settore è ancora per tanti versi acerbo, dato che gli shopping center, ad di là di alcune fulgide eccezioni (penso allo Shopville LeGru nell’hinterland torinese, piuttosto che a OrioCenter nella bergamasca)  non sono riusciti a delineare un propria identità, restando un rassemblement di singole attività commerciali, per quanto racchiuse sotto un solo tetto e un’unica insegna.

Il fatto stesso che spesso il consumatore identifichi il centro commerciale con l’ancora alimentare, è ad esempio un segno di quanta strada manchi a tanti centri commerciali sul fronte del brand building….

Certamente la debole differenziazione merceologica dei mall in termini di insegne presenti non gioca a favore della creazione di un’identità (per lo meno sul versante dell’offerta commerciale), tant’è che negli ultimi anni l’impegno in fase di definizione del merchandising plan si è spostato sulla costruzione delle food court, che sono spesso diventate elemento caratterizzante e distintivo, creando traffico a favore di tutto il centro commerciale. Ma è evidente che anche questa leva potrebbe perdere via via d’efficacia…

E’ necessario individuare nuove strade e definire nuove strategie.

I centri commerciali- come dicono da anni numerose ricerche di mercato- sono le nuove piazze di incontro per tante comunità, e non esclusivamente di target giovanile (come si è soliti pensare semplificando un po’ troppo la realtà).

Per questo motivo la possibilità di trasformare la piazza (fisica) del centro commerciale in piazza virtuale e sociale dovrebbe essere colta dagli operatori del settore, che dovrebbero porsi l’obiettivo di costruire una piattaforma sociale d’incontro e dialogo coi propri clienti; incontro e dialogo che, a questo punto, non sarebbero più limitati al momento della shopping expedition del consumatore, ma che potrebbe avvenire tutti i giorni e tutto il giorno (considerando l’amore degli Italiani per i social network e le chiacchiere online).

E’ vero che alcuni centri commerciali (e outlet) hanno una propria pagina su Facebook e utilizzano Twitter piuttosto che altre piattaforme social, ma se pensassimo che avere una strategia social significhi semplicemente avere una pagina sui più importanti social network, compiremmo il medesimo errore di chi anni fa pensava che avere una web-strategy significasse avere un sito internet… Anche su questo fronte vi sono casi davvero interessanti, ma la strada da compiere è molta per la gran parte del settore.

La dimensione della shopping experience, inoltre, non si sviluppa solo sugli assi dell’assortimento (numero insegne presenti) e convenienza, ma dovrebbe essere misurata da parametri di servizio che sono nella totale disponibilità del centro commerciale in termini di progettazione, implementazione e gestione. Servizi di assistenza per target sensibili quali bambini e anziani (nel primo caso non si pensi che sia sufficiente dotarsi di un’area bimbi), piuttosto che di ausilio agli acquisti o ancora servizi di navigazione a supporto dei clienti per permettere loro di individuare sempre la migliore soluzione per i propri obiettivi di acquisto.

Infine un ultimo elemento di criticità nel settore (non solo italiano in questo caso): l’integrazione tra l’ancora alimentare e il centro commerciale risulta spesso difficile se non impossibile. E’ assurdo pensare che vi siano barriere nella condivisione dei dati, sia perché è evidente che negozi della galleria e ipermercato condividano nei fatti la clientela, sia perché incrociare (arricchendoli) i dati dei singoli operatori oppure attivare una piattaforma comune di analisi, permetterebbe di definire un profilo del cliente/consumatore a 360 gradi: analizzandone i comportamenti non solo con l’ottica ristretta del singolo operatore, ma con un’ottica allargata e integrata, sarebbe possibile disegnare strategie di customer relationship management davvero efficaci.

Per superare tali limiti in alcuni casi i centri commerciali si sono dotati di una propria carta fedeltà, ma si tratta spesso di strumenti con debole infrastruttura IT e scarsi contenuti di opportunità e servizi per la clientela; ma, soprattutto, tali progetti si infrangono normalmente sugli scogli rappresentati dalla barriera casse dell’insegna della GDO di turno…

In conclusione i centri commerciali anche in futuro si troveranno a organizzare concerti, degustazioni, spettacoli di cabaret, mini concorsi a premi o altri eventi di maggiore (o minore) richiamo- gratificando i propri operatori commerciali con un maggior traffico di fronte alla vetrine e i propri clienti con alcuni momenti di svago o divertimento- ma è necessario che maturino un cambio di passo e un approccio più strategico, per far sì che il “Marketing”- quello con la M maiuscola- con tutte le complicazioni gestionali prima evidenziate, possa divenire realmente una leva strategica di successo.

Daniele Cazzani

Dalle special promotion alle SOCIAL promotion

Sono oramai numerosi i contributi accademici e le analisi che indagano la dimensione emozionale ed esperienziale dello shopping, tanto che oggi è possibile parlare di marketing experienziale anche nel settore della grande distribuzione senza suscitare perplessità di sorta.  Si è soliti parlare di shopping experience– sia inteso come scelta del punto vendita che come  momento di acquisto- intendendola come il risultato di una serie di fattori ambientali e tangibili (il layout del punto vendita, l’assortimento, ecc)  ma anche  intangibili, più afferenti alla sfera psicologica ed emozionale.

Tralasciando i fattori fisici e tangibili, ritengo invece che si possa sviluppare una riflessione che partendo dalle componenti psicologiche ci porti a valutare il ruolo attuale e futuro delle attività che, con un termine a mio avviso troppo vago, si è soliti etichettare come special promotion.

Parlando di componenti psicologiche, ma senza entrare nell’ambito della psicologia ambientale, dobbiamo partire dalla considerazione, che auspico sia largamente condivisa, che nello shopping vi sia una dimensione sociale, sia dal punto di vista della relazione cliente-cliente che nella relazione cliente-retailer (mediato dal personale del punto vendita).

Fino ad alcuni anni fa i retailers ritenevano però fosse sufficiente fungere da mero spazio fisico, ovvero da piattaforma passiva di relazione, intesa come ambiente fisico composto da attrezzature, schematizzate in corsie e reparti, ove invitare il cliente. L’obiettivo era rendere da un lato agevole e razionale il momento dell’acquisto, ma dall’altro anche di presentare tutta l’offerta merceologica del punto vendita, per massimizzare i contatti del cliente con l’assortimento e incentivare gli acquisti d’impulso.

Successivamente si è capito come anche l’architettura del punto vendita potesse svolgere il ruolo di leva di differenziazione del negozio rispetto alla concorrenza, come l’assortimento, il pricing, le promozioni, ecc. Da qui l’obiettivo, attraverso una corretta architettura degli spazi e una maggiore ricerca nelle attrezzature, di agevolare e incentivare in alcuni ambiti, settori e reparti le interazioni cliente-cliente e cliente-personale: pensiamo ad esempio ai banchi freschi serviti di un supermercato dove ritrovare l’intimità e l’atmosfera del negozio di vicinato è sempre stato un obiettivo, spesso non raggiunto, di tante insegne, sia dal punto di vista architettonico che relazionale col cliente.

Ma il mutato contesto sociale- ovvero la crisi e la revisione degli stili e modalità di consumo con la crescita della multicanalità- e la sempre più forte concorrenza tra insegne unita a una riduzione delle leve di differenziazione- come gli assortimenti sempre troppo determinati dall’industria seppure insidiati dalla crescente importanza delle private label, e il pricing, stretto dall’assurda e oramai quasi ingestibile contrazione dei margini- stanno determinando dei cambiamenti di cui le insegne della GDO non potranno non tenere conto, e che ne stanno ridefinendo anche il ruolo.

In questo ambito le special promotion, nate come mero strumento di sostegno alle vendite e aumento del traffic store, si stanno dimostrando un’importante leva non tanto o non solo promozionale, ma di sostegno o, talvolta, di costruzione della brand image, grazie anche alla loro valenza sociale.

Tali risultati sono raggiunti perché tali attività hanno dimostrato di poter scatenare e rivitalizzare la dimensione sociale dell’acquisto, ovviamente laddove il progetto sia stato coerente con l’insegna e i desiderata dei consumatori e clienti, e non a prescindere da tali elementi di progetto, (anche se sarebbero molti ad essere felici se vi fosse una così facile lampada di Aladino per risollevare le sorti della GDO).

Da questo punto di vista promotion di successo come quelle recentemente realizzate da Esselunga (carte giocabili Pixar) o Billa (figurine Avventure Animali ) sono state indiscutibilmente caratterizzate anche da una importante e tangibile “dimensione sociale”, verosimilmente non prevista in questa misura all’origine e in parte forse “subita” dai punti vendita, che si è tradotta in momenti di incontro sul punto vendita o a scuola, blog su internet, ecc.

Senza entrare nello specifico delle singole operazioni tali iniziative si sono dimostrate di fatto come un incredibile momento di contatto, se non proprio di dialogo, tra retailer e cliente: condizione e ambito sempre più difficile da creare e gestire in anni in cui lo stress promozionale è via via aumentato, cancellando spesso dalla mente dei consumatori altri metri di giudizio sulla qualità di un insegna se non il mero prezzo.

L’operazione di special promotion è inoltre uno strumento eccezionale per unire nel momento dello shopping tutta la famiglia, contemperando la componente più emozionale e impulsiva dei bambini (ma sarebbe sbagliato non ricordare come anche molti adulti amino rivivere le meccaniche dei collezionamenti) a quella più razionale e programmatica degli adulti, divenendo così un, involontario, aggregatore familiare-sociale.

Infine la meccanica stessa di una special promotion, che prevede un forte coinvolgimento del cliente nella fase di acquisto- si pensi, ad esempio, alla ricerca dei prodotti sponsor dell’operazione in grado di accelerare la raccolta delle figurine- determina un incremento della componente emozionale dello shopping, a vantaggio della shopping experience che viene così più fortemente connotata da elementi di unicità e memorabilità.

La consapevolezza del valore sociale di tali iniziative dovrebbe divenire così un elemento cardine già nella fase di progettazione, per permettere alle insegne di gestire non più una special promotion ma quella che potremmo definire, con una forzatura lessicale che auspico possa essere perdonata, come social promotion.

Per i motivi brevemente esposti e le esperienze delle operazioni fin qui realizzate, ritengo in conclusione che a fronte di questi cambiamenti i retailers anche, ma non solo, attraverso leve come quelle delle special promotion possono ambire al ruolo di aggregatori sociali, riscoprendo così quel ruolo sociale del commercio, seppure rivisto rispetto ai paradigmi del passato, che l’avvento delle grandi superfici di vendita aveva rischiato di cancellare per sempre.

 

Daniele Cazzani

BACK TO BASIC! IL CLIENTE CHIEDE SEMPLICITA’ (editoriale MarkUp Maggio 2011)

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Da numerose relazioni e ricerche emerge chiaramente sempre più spesso  come sia prioritario prestare attenzione all’offerta commerciale (drogata da anni di fee che hanno avuto come unico effetto certo quello di appesantire gli scaffali), dato che i consumatori chiedono semplificazione- vedi il successo dell’every day low price di U2- probabilmente “stressati” dalla sempre maggiore pressione promozionale che anziché guidarli rischia di disorientarli nel rapporto con la distribuzione, di cui non riescono più a comprendere la reale mission.

Paradossalmente osservando alcuni numeri di Nielsen si nota come il 2010 e la prima metà del 2011 abbiano registrato un utilizzo più incisivo (ma che vorrà dire incisivo?) della “leva volantini”: aumento numero di promozioni/volantini, aumento della foliazione, aumento del numero di articoli, ecc. A onor del vero, niente di nuovo per chi, come me, è quotidianamente sommerso dalle bozze dei volantini…

A questo punto la domanda sorge spontanea: ma se non siamo in grado di ascoltare il consumatore (che dialoga con noi in molti modi, tra cui anche le tante ricerche che ogni anno svariati istituti rilasciano al mercato; a meno che qualcuno non pensi si tratti di meri momenti “accademici” utili per passare una giornata insieme ai colleghi) come pensiamo di poter affrontare le sempre più difficili sfide del nostro settore, come la gestione degli aumenti di listino e le tendenze inflattive che saranno certamente imputate in prima istanza alla “cattiva” grande distribuzione (che certo non gode di buona stampa, ma su questo punto un po’ di autocritica da parte delle associazioni di categoria non guasterebbe)?

Mi chiedo se il fatto di rispondere alla richiesta di semplificazione dei  nostri clienti con l’aumento della pressione promozionale- trasformando tutti in cherry picker professionali- intervenendo in modo poco chiaro sugli assortimenti, tentando nuovi layout- spesso frutto della fantasia di architetti della complicazione più che rispondenti all’esigenza di leggibilità e chiarezza dell’offerta- sia indice di un eccesso di arroganza, davvero poco giustificabile in anni di crisi, o sia semplicemente il riflesso condizionato di un settore (o di gran parte di esso) che si è negli anni convinto che la leva prezzo sia più facile da gestire, senza interrogarsi troppo sul fatto se sia anche la più efficace.

Mi rendo conto che questo discorso possa essere tacciato di essere eccessivamente generico dato che vi sono esempi di insegne che hanno saputo, almeno in parte, ripensarsi con un approccio bottom-up (partendo dal cliente), ma talvolta penso che andare troppo nel particulare possa essere il modo più rapido per perdersi…

L’obiettivo dovrebbe quindi essere quello di partire dall’ascolto del consumatore per semplificare le formule commerciali e riportare nella realtà un settore che da troppi anni guarda più all’industria che al proprio cliente.  Un obiettivo a parole semplice ma nella realtà difficile, dato che si tratta di distruggere alcune certezze dell’attuale GDO…

Daniele Cazzani @danielecazzani

NOTA FINALE – Un estratto del presente intervento è stato pubblicato nell’editoriale del numero di maggio 2011 di MarkUp. Ringrazio ancora il Dott.Luigi Rubinelli per lo spazio concessomi.

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