Un memento al #retail italiano: l’ #ecommerce è innanzi tutto… commerce!

Ecommerce, mobile e multicanalità sono tre temi sempre più presenti, connessi e discussi nei (tanti, troppi?) convegni dedicati al retail.

In Italia l’ecommerce B2C vale 11,3 mld di euro, registrando nel 2013 una crescita del 18% rispetto al 2012 (dati forniti dall’Osservatorio eCommerce B2C del Politecnico di Milano www.osservatori.net) e una quota importante di fatturato transato da device mobile quali smartphone e tablet, pari al 12% (in linea coi valori della maggior parte dei Paesi europei).

Ma se osserviamo il valore assoluto dell’ecommerce in Italia raffrontandolo coi dati delle principali economie mondiali (fonte dati www.emarketer.com) notiamo come in realtà le dimensioni di questo mercato siano ancora minime e come, soprattutto, anche le previsioni di crescita- per quanto “impetuose”- ci lasceranno sempre fortemente distanziati da molti Paesi europei simili a noi (sarebbe ovviamente inutile guardare in termini assoluti ai mercati statunitense o cinese, per intenderci).

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Se poi dovessimo analizzare il tasso di penetrazione dell’ ecommerce sul totale delle vendite retail, noteremmo come in Italia questo dato si fermi a un modestissimo 3%, rispetto all’8% di Germania, al 6% della Francia e al 14% nel Regno Unito.

Tale dato è la media di situazioni ben diverse; infatti se nel turismo la penetrazione è pari al 20%, nella maggior parte dei settori tale valore non arriva al 10% (ad esempio è solo il 7,5% nell’informatica, e già questo di potrebbe dire quanta strada resta ancora da fare) con valori davvero bassi come nell’abbigliamento (2,5%) che pure ha registrato nell’ultimo anno una crescita del 30% e che nella percezione diffusa passa per essere uno dei settori di punta del commercio elettronico (almeno nostrano), ma che in Francia, ad esempio, registra una penetrazione decisamente più superiore (25%) e che autorizza a parlare di una raggiunta maturità del settore.

La riflessione da compiersi è quindi sulle motivazioni del ritardo italiano (l’ennesimo a ben vedere) e su quali siano le leve da attivare e gli ostacoli da eliminare per far crescere realmente l’ecommerce nel nostro Paese.

Iniziamo tornando ai dati italiani e analizzando il peso delle componenti “servizi” e “prodotti”.

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La bassa incidenza della componente “prodotti”con valori da “anno zero” per quanto concerne il grocery- rispetto ai mercati europei più evoluti (dove il peso di questa componente arriva anche all’80%) dimostra come finora l’ecommerce sia stato sfruttato soprattutto quale canale di disintermediazione, pensiamo ad esempio al canale turismo o banca-assicurazioni, e come via per ridurre i costi rispetto alle reti fisiche.

Vi sono invece numerosi settori dove l’ecommerce è ancora una chimera, perlomeno nel nostro Paese, come nel caso della distribuzione food dove solo l’8% delle insegna ha attivo un progetto di ecommerce, contro il 50% per le imprese della distribuzione non food. La media complessiva dice che solo il 4% delle aziende italiane vende online (e questo senza entrare nel merito della qualità e delle perfomances delle singole attività di ecommerce già avviate…).

Pertanto, una prima motivazione del lento avviarsi di questo settore nel nostro Paese può a essere individuato nel ritardo culturale e manageriale di tante imprese che solitamente attribuiscono la propria diffidenza a una supposta ritrosia da parte del consumatore italiano verso il commercio elettronico, magari connesso alla diffidenza nei confronti di modalità di pagamento come le carte di credito e affini (PayPal) che nel web coprono oltre il 90% dei pagamenti mentre la loro incidenza sul totale dei pagamenti nell’economia reale resta drammaticamente bassa.

Tra l’altro proprio sul fronte dei pagamenti, si stanno diffondendo nuove modalità integrate con gli strumenti di home banking (già ampiamente diffusi tra i consumatori), che migliorando usability e fiducia permetteranno di vincere le ultime barriere psicologiche, minando così alla base questa scusa addotta da tanti retailer.

L’analisi della composizione dei principali operatori del settore ci permette di approfondire la riflessione su quello che ho chiamato ritardo manageriale. Nei mercati in cui l’ecommerce è più evoluto almeno il 50% dei primi dieci operatori sono retailer tradizionali, in Italia invece vi sono solo 3 operatori del retail tradizionale (contro i 7 del Regno Unito che, per citare solo alcuni esempi, vede presenti Asda, Tesco e Sainsbury’s).

Inoltre, nella realtà, per quanto certamente nel nostro Paese esista un sempre più preoccupante digital divide rispetto alle principali economie nostre concorrenti, è dimostrato come ben il 50% degli internet users abbia effettuato almeno un acquisto sul web e che quindi non vi sono particolari elementi che portino a individuare una specificità in tale ambito del consumatore italiano.

Un accenno anche al rapporto tra ecommerce e “made in Italy”. L’incidenza dell’export sul valore complessivo del commercio elettronico in Italia vale circa 2 miliardi di euro, con una crescita nell’ultimo anno del 28%, superiore al tasso di crescita del mercato domestico. Ma ciò detto sarebbe illusorio pensare che l’ecommerce possa essere una scorciatoia per quelle imprese che vogliano arrivare in nuovi mercati, sia perché il valore del commercio elettronico cross country si dovrebbe attestare attorno al 25% del mercato complessivo (i consumatori finora hanno dimostrato di preferire acquisti online nel proprio Paese) sia perché resta imprescindibile la costruzione di reti fisiche nei nuovi mercati per sostenere la diffusione del proprio brand e dei propri prodotti.

In conclusione credo si possa dire che l’ecommerce non è altro che una forma più evoluta del retail tradizionale, nel senso che il ruolo del consumatore/cliente assume rilevanza e centralità sconosciute nei canali tradizionali soprattutto grazie ai device mobile e alla multicanalità che oramai è un tratto caratterizzante l’abitudine di sempre più consumatori.

Anche nel commercio elettronico, insomma, i fattori di successo sono dati da tre elementi che tutti dovrebbero ben conoscere:

  1. prezzo

  2. assortimento

  3. servizio (customer care e logistica in primis)

Calibrando queste tre leve e i nuovi strumenti tecnologici, i retailer dovrebbero progettare nuove piattaforme di relazione col cliente, individuando nuovi format di vendita che ibridino il meglio dei format tradizionali (pensiamo al successo del “drive” in Francia) per rafforzare e ricostruire la relazione coi propri clienti.

In sintesi più che sull’aggettivo “elettronico”, i retailer italiani farebbero bene a concentrarsi sul sostantivo “commercio”, indagando a fondo se abbiano al proprio interno le capacità culturali e manageriali per affrontare questa nuova sfida, prima che prendano ancora più spazio anche nel nostro mercato operatori stranieri (Amazon Fresh, do you know?) che hanno già ampiamente dimostrato di essere in grado di saper rispondere alle nuove esigenze dei consumatori.

@danielecazzani

Un antidoto alla #crisi? Il #loyalty #marketing! (considerazioni a margine dell’Osservatorio #Fedeltà 2013)

Come ogni anno anche l’edizione 2013 dell’Osservatorio Fedeltà promosso dall’Università di Parma- www.osservatoriofedelta.it – è stato un momento importante per fare il punto sullo stato di salute del loyalty marketing in Italia e nel Mondo, soprattutto per capirne il ruolo nell’ambito delle politiche dei retailers in risposta alla perdurante crisi dei consumi (nel nostro Paese soprattutto).

Il Prof.Daveri della Bocconi ha provato a rassicurare i partecipanti illustrando alcune deboli cifre (ripresa ordinativi e miglioramento fiducia imprese e consumatori) che parrebbero sostenere la tesi della fine del periodo recessivo. Onestamente però, al di là delle ottimistiche ipotesi sulla crescita del PIL italiano nei prossimi anni (sovrastimate rispetto a quelle dell’IMF), credo che i retailers farebbero meglio a non affidare le proprie sorti a una prossima ripresa, ma a concentrarsi sui propri business mettendo al centro delle proprie strategie i clienti.

Enzo Grassi, direttore generale di Catalina Marketing Italia, dall’alto del proprio punto di osservazione privilegiato ha infatti illustrato alcuni numeri che non avrebbero dovuto stupire i retailers presenti. Nonostante la crisi abbia colpito indistintamente e duramente tutti i consumatori (i consumi italiani sono a livello di 10 anni fa anche perché il reddito reale si è ridotto del 10%) riducendo la spesa media del 6% (per il combinato disposto di una riduzione della frequenza- che ha inciso per il 2%- e una riduzione della spesa in terminid i quantità e prezzi medi dei prodotti in carrello) i dati esposti hanno dimostrato come la fedeltà sia stata in grado di ridurre l’impatto della crisi, dato che i clienti fedeli hanno ridotto meno la frequenza d’acquisto.

E’ pertanto evidente che quei retailers che in passato hanno investito nella costruzione di una relazione di fedeltà coi propri clienti stiano ora subendo meno i colpi della crisi e, cosa ancora più importante, abbiano la possibilità di innescare, proprio grazie a tale relazione privilegiata, efficaci politiche di rilancio incentrate soprattutto sull’analisi dei comportamenti dei propri clienti fedeli.

Big data, multicanalità, experience, saranno di fatto le parole d’ordine per le politiche di loyalty dei prossimi anni (dopo tutto sono almeno due anni che l’Osservatorio Fedeltà ci dice che è giunto oramai il tempo del loyalty “di servizio”).

Concentrarsi sui propri clienti fidelizzati, quindi su attività di retention, anziché di acquisition, è una scelta che sempre più aziende stanno compiendo, avendo capito che un cliente fedele è un patrimonio da valorizzare, anche perché in grado di richiamare altri clienti meglio di altri media più o meno tradizionali (Nielsen ha recentemente ricordato a tutti che il passaparola è sempre lo strumento più potente, che ora si può avvalere dell’ambiente dei social per vedere elevato all’ennesima potenza la propria efficacia).

E però necessario che i retailers siano sempre più generosi nei confronti dei clienti fedeli, arricchendo di contenuti (anche esperienziali) e non solo di promozioni la carta fedeltà, anche per contrastare in modo efficace i nuovi players che si affacciano sul mercato, grazie proprio alle possibilità offerte dalle tecnologie digitali e l’integrazione tra queste e i negozi fisici e alla diffusione di nuovi strumenti di pagamento (pensiamo a Google Wallet) che diverranno sempre più il perno delle attività di loyalty.

Ma il principale pericolo per i retailers è dato dalla disintermediazione che alcune industrie stanno compiendo, dotandosi di strumenti e piattaforme per dialogare direttamente coi propri clienti, potendo fare leva sulla forza dei propri brand (come il caso illustrato da Procter & Gamble ben dimostra).

In conclusione, solo i retailers che sapranno dare centralità al loyalty marketing, dialogando coi propri migliori clienti e valorizzandone l’experience, potranno  reagire in modo efficace alle mutate condizioni ambientali, dato che pare oramai assodato come il consumatore uscirà comunque cambiato da questa lunga crisi, ovvero sarà sempre più attento al valore e al prezzo, più social e interessato a essere coinvolto in modo attivo (dai retailers o dall’industria).

Al #retail italiano non serve uno psicanalista ma un progetto di sistema. @retailsumm_it: alcune considerazioni a margine

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Il palco del Retail Summit 2013 in alcuni momenti sembrava un lettino da psicanalista con amministratori delegati e manager che elencavano le quotidiane frustrazioni (ben comprese dalla platea) del “fare retail” in Italia per colpa di quei mali che affliggono  il nostro Paese, come la scarsa liberalizzazione in alcuni settori strategici, l’eccessiva burocrazia, l’elevato costo del lavoro, ecc.

Psicanalisi a parte, l’incontro è stato comunque estremamente ricco in termini di spunti di riflessione.

Innanzi tutto è parso ai più evidente come l’eccessiva frammentazione della rappresentanza del mondo Retail- troppe associazioni, troppo divise- sia un ostacolo alla capacità di farsi ascoltare da parte di una delle componenti più importanti del PIL italiano. Il caso dell’IVA ne è un esempio: le tante proteste dai vari settori avanzate in modo scoordinato, non hanno inciso sulla scellerata scelta finale di confermare l’aumento dell’aliquota. Ed è ancora più assurdo, kafkiano direi, ascoltare i rappresentanti di uno dei settori che più investe in pubblicità dire che la Distribuzione pecca in comunicazione: i distributori hanno l’indubbio privilegio di poter parlare ogni giorno, all’interno dei propri negozi, con milioni di Italiani, ma per far sentire la propria flebile voce, si affidano solo a sterili comunicati stampa… mentre altre associazioni (penso a Coldiretti) hanno la forza di mobilitare il Paese per le proprie campagne (a proposito: qualcuno si ricorda di una campagna, una, di Federdistribuzione?) garantendosi un’invidiabile copertura mediatica e un positivo ritorno d’immagine.

Mi è parso altrettanto evidente come il concetto di “filiera” sia ancora ben lungi dal radicarsi, vista la diffidenza con cui ancora si parlano troppo spesso IDM e Distribuzione (il siparietto tra Coop e Carlsberg su chi avesse perso più margini in questi anni è a suo modo istruttivo). Acquisire una visione di sistema è, invece, a mio avviso un passaggio necessario per superare inefficienze e rigidità che inficiano le performances su entrambi i lati, partendo magari dall’organizzazione delle Centrali d’Acquisto o quantomeno da una semplificazione della contrattualistica (arrivando in futuro a una condivisione dei dati loyalty) che a cascata potrebbe impattare positivamente anche sulla gestione del momento promozionale, che in tanti casi ora pare fuori controllo (e sempre meno efficace).

A proposito di “fare sistema”, la testimonianza dei player della Logistica col progetto Delivering, ha dimostrato come, superando ostacoli burocratici e tecnici- la condivisione delle competenze sia in grado portare notevoli miglioramenti alle filiere, alle organizzazioni e, non ultimo, ai conti economici.

Gli interventi di Augusto Cremonini e di Stefano Beraldo hanno ricordato ai più come fare management significhi non solo occuparsi delle grandi strategie (memo: è essenziale avere piani strategici a più anni, evitando di vivere alla giornata…) ma anche intervenire su quelli che a prima vista possono sembrare aspetti trascurabili del nostro business- come i costi di una lampadina in un negozio…- ma che nella realtà nascondono potenzialità di crescita: ogni riga del conto economico, ogni funzione aziendale, ogni business unit deve mirare sempre al proprio miglioramento. Restare fermi, oggi, significa indietreggiare.

Da numerosi speakers è stato detto che il cliente non è più multichannel, ma omnichannel. Non commento il “simpatico” proliferare di termini in ambito marketing [appartengo alla categoria dei marketer quindi non vorrei inimicarmi troppi colleghi], ma ricordo come più che sull’aggettivo sia importante concentrarsi sul sostantivo: CLIENTE. Il cliente deve essere davvero (finalmente) posto alla base delle strategie aziendali, se vogliamo incrociarne i nuovi desiderata che parlano sempre più di una ricerca spasmodica del rapporto qualità-prezzo e di una maggiore consapevolezza delle (e nelle) proprie scelte d’acquisto. Sta forse scomparendo l’epoca della pubblicità tradizionale a favore della relazione (in questo aiutati, o costretti, dal proliferare dei device mobili), quindi è necessario per le aziende attrezzarsi per l’ascolto dei clienti, avendo nel contempo il coraggio di ridisegnare anche la propria organizzazione su questi nuovi paradigmi.

Pugliese di Conad ha infine riportato al centro dell’attenzione un attore, spesso considerato come terzo, ma che a tutto tondo deve essere considerato come facente parte del sistema Retail: ovvero il credito. Non è possibile parlare di rapporti IDM e Distribuzione lasciando fuori dalla porta questa cruciale componente, né si può parlare di investimenti o internazionalizzazione senza prendere atto di come sia essenziale nel nostro Paese porre come questione cruciale un nuovo disegno dei rapporti tra mondo finanziario-bancario e mondo Retail (ma non solo).

Se il Retail italiano saprà affrontare da sè queste sfide- partendo, auspicabilmente dall’indire quegli Stati Generali del Retail cui si è accennato nel corso del Summit- allora è possibile che possa crescere e pensare in modo più concreto a uno sviluppo internazionale- finora debole come testimoniato dal Fondo Strategico Italiano, nonostante l’indubbia potenzialità di tanti nostri brand- e affrontare in modo più efficace i mutamenti degli stili di consumo, sia quelli di oggi che quelli di domani.

 

Daniele Cazzani @danielecazzani

La #banca del futuro? Sempre più #multicanale e sartoriale

Iniziamo con una semplice, rapida ricerca con “Google Immagini” utilizzando quale keyword la parola “banca”. Ecco il risultato.

google banca immagini

A parte qualche sarcastica vignetta (che tanto ci dice dell’immagine oggigiorno di una banca) vediamo solo mattoni, edifici, insegne, soldi. Insomma la banca come luogo fisico, solido, sicuro. Nulla di cui stupirsi, in fondo: la “sicurezza” non è forse una delle prime caratteristiche richieste a una banca, nonché uno dei motivi dei motivi della loro nascita?

Questa banale ricerca- che ha richiesto meno di un secondo- dice più di tante ricerche di mercato o indagini sul rapporto tra noi tutti e l’istituto bancario. Un rapporto formale, rigido, fatto di burocrazia, regole, contratti, firme che si svolge all’interno di mura sicure, che custodiscono i nostri risparmi (per quanto oramai si tratti di valori “virtuali” e non più, non solo, di banconote, monete o valori reali).

Come recentemente emerso nel corso dell’evento Dimensione Cliente 2013 organizzato dall’ABI (www.abi.it) negli ultimi anni si stanno sempre più diffondendo i servizi di home o mobile banking, grazie anche allo sviluppo di app da parte dei principali operatori del settore, ma è altrettanto vero che per buona parte dei clienti il rapporto personale con un addetto della banca risulta ancora essere un aspetto fondamentale, soprattutto nei momenti topici della richiesta di un prestito o della decisione di un investimento: il 90% dei clienti si reca allo sportello mediamente 1,5 volte al mese (negli scorsi anni la media era di 2 volte al mese), ma crescono i clienti che utilizzano l’internet-banking (siamo poco sotto la soglia del 50%) mentre è ancora relativamente bassa- per quanto in crescita- la quota dei clienti che accedono ai servizi bancari via mobile, anche per un ritardo da parte di alcuni operatori del settore nell’adozione delle necessarie tecnologie.

Il rapporto cliente-banca sarà quindi sempre più multicanale: questa evoluzione non deve però essere vista dal sistema bancario solo come un utile strumento per ridurre i costi operativi (leggasi personale) delle filiali, quanto come un’importante momento per ridisegnare il rapporto coi proprio clienti.

Recenti indagini dell’ABI hanno dimostrato che ogni anno i clienti delle banche effettuano oltre 500 milioni di visite allo sportello per avere informazioni sul proprio conto, effettuare transazioni, fare investimenti, chiedere mutui o finanziamenti. Già oggi le banche dedicano mediamente oltre il 45% del tempo all’assistenza e alla consulenza, circa il 35% alle operazioni di routine e il 20% alle attività di back office: è pertanto evidente che qualsiasi strumento in grado di ridurre le ore lavoro dedicate all’assistenza o alle operazioni di routine si traduce in risparmi di milioni di euro.

Lo sviluppo dell’internet banking, degli ATM evoluti e delle app mobile, stanno incrementando i momenti di contatto (touchpoint) tra cliente e istituto bancario, ma soprattutto permetteranno di ridisegnare le modalità di approccio del cliente alla banca.

Pensiamo alla valutazione di un investimento o alla richiesta di un finanziamento: l’individuazione dell’esatto profilo di rischio del cliente o delle reali necessità e possibilità di indebitamento potrebbero essere attribuite a strumenti evoluti ed intelligenti (web o mobile), lasciando al personale in carne e ossa della filiale la gestione della fase finale di ottimizzazione del servizio e chiusura della pratica (la notevole mole e complessità delle normative- leggasi burocrazia- in ambito bancario credo sia nota a tutti…).

Le banche dovranno (potranno) essere in grado di disegnare prodotti e servizi tailor made, personalizzati, per il singolo cliente, abbandonando l’era dei prodotti generalisti e della semplice ricerca della commissione, passando, per così dire, da supermercato di prodotti a negozio sartoriale in grado di “prendere le misure” alle esigenze di ciascun cliente e disegnare e ritagliare il miglior prodotto/servizio. Così facendo saranno inoltre in grado di fare fronte in modo più efficace alle banche puramente online, che pur potendo offrire, per ovvi motivi, prodotti maggiormente standardizzati, sono state tra le prime ad approfittare delle potenzialità date dallo sviluppo dei device mobile.

Per raggiungere questo obiettivo sarà necessario intraprendere anche un importante percorso di evoluzione nella cultura del personale bancario– vittima da un certo punto di vista dell’evoluzione “industriale” delle banche- riportando al centro proprio il rapporto col singolo cliente e mettendo così fine all’epoca della massificazione e della disperata ricerca dei volumi (spesso dimostratisi vacui, come dimostra l’incidenza dei crediti inesigibili nei bilanci di tante banche). Un percorso, a ben vedere, che dovrebbe riportare la banca a ciò che era solo alcuni decenni fa, quando il direttore di una filiale era davvero consulente per le scelte di finanziamento dei propri clienti, mentre oggi assomiglia troppo spesso a un operatore il cui ruolo è limitato a inserire dei dati in un computer che emetterà automaticamente il responso sulla corresponsione o meno del finanziamento o del mutuo.

Solo per citare un esempio, la centralità della relazione col cliente, garantita anche dalla capillare presenza sul terreno dei Family Banker, è uno dei punti di forza di Banca Mediolanum (www.bancamediolanum.it), una delle realtà del settore che- partendo da un approccio organizzativo certamente distante dalla banca tradizionale- tra le prime ha puntato sulla multicanalità e che continua a registrare importanti tassi di crescita nella raccolta.

Più punti di contatto, maggiore personalizzazione dei servizi e dei prodotti potranno essere così i tratti caratterizzanti dei prossimi passi del sistema bancario italiano che dovrebbe quindi riscoprire e valorizzare uno dei suoi storici punti di forza, ovvero la capacità di dialogo col territorio e con le persone che negli ultimi anni è stato troppe volte dimenticato o sacrificato sull’altare di una crescita rivelatasi spesso fittizia.

@danielecazzani

La storia di #Carosello e un #Carosello (reloaded!?) che non passerà alla storia…

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La RAI ha recentemente lanciato un format/contenitore pubblicitario inopinatamente chiamato Carosello Reloaded. Dico inopinatamente perché Carosello è stato un programma che ha fatto la storia del costume italiano e perché il nuovo contenitore di “reloaded” pare avere davvero poco, vista la qualità degli spot trasmessi (trattasi di riciclo di spot già on air da tempo…), almeno in occasione della prima puntata.

Partendo da questo stato d’animo mi piace ripercorrere brevemente la storia del primo Carosello: sarà così facile capire quanti e quali siano le differenze rispetto alla recente versione…

GLI ESORDI DI CAROSELLO

Carosello nasce il 3 febbraio 1957 alle 20.50. Ogni scenetta doveva essere approvata da una speciale commissione della Sacis (sentite odore di censura?), dovevano tutte essere in bianco e nero e in 35 millimetri.
I limiti pubblicitari imponevano che su due minuti e quindici secondi di ogni Carosello, la reclame del prodotto durasse al massimo 35 SECONDI: il famoso “codino”, che faceva impazzire i pubblicitari che cercavano di fondere armoniosamente scenetta e richiamo pubblicitario rispettando i vincoli di una censura che vietava di usare una certa terminologia e imponeva un numero massimo di citazioni del nome del prodotto anche nel codino. Alcuni esempi di “censura”? Si poteva dire “aquila” o “piccione”, ma non “uccello” o “passera”; non si poteva utilizzare la parola “intestino” né “il buon sapore della natura”…
Ma perché Carosello fu strutturato così (scenetta + reclame)? Il vero motivo è che la RAI godeva già del canone e temeva critiche per la scelta di fare anche pubblicità; inoltre temeva la lobby degli editori della carta stampata (preoccupati della potenziale concorrenza della pubblicità televisiva). Il Carosello, con spot mascherati da intrattenimento, fu, bisogna ammetterlo, una tipica soluzione all’italiana…

Quando i primi quattro episodi di Carosello andarono in onda, gli abbonati alla televisione erano 3.666.161.
Il titolo del programma rievocava un celebre film musicale da poco uscito (“Carosello napoletano”), il teatrino era costruito sul modello di quelli napoletani. La musica di Raffaele Gervasio riadattava una vecchia melodia popolare napoletana di autore sconosciuto- I pagliacci- a cui si aggiunsero un rullo di tamburi e una bella tarantella.

I NUMERI DI CAROSELLO

Carosello divenne il breve il programma più seguito della RAI. Nel 1961 l’ascolto di Carosello, nonostante la nascita di altri programmi di intrattenimento, era arrivato a quasi otto milioni di spettatori.

Col passare degli anni e l’aumento degli inserzionisti pubblicitari Carosello diventò sempre più corto: nel 1974 ogni scenetta durava un minuto e quaranta secondi mentre il costo per realizzarlo si aggirava dai 3 ai 5 milioni di lire.

Il primo gennaio 1976 andò in onda l’ultimo Carosello: una Raffaella Carrà commossa recitava l’addio al programma brindando con lo Stock e ringraziando tutti quelli che vi avevano lavorato.
Gli ultimi ascolti di Carosello parlavano di 19 milioni di italiani, fra cui 9 milioni di bambini.
Ufficialmente, la decisione di sospendere il programma fu della Commissione parlamentare di vigilanza della Rai, che tendeva a ridurre la pubblicità ai vari prodotti nelle ore di maggior ascolto.
Complessivamente in 19 anni furono trasmesse oltre 42 mila scenette!

I PERSONAGGI DI CAROSELLO

Durante i vent’anni in cui é andato in onda, Carosello coinvolse tutto il mondo del cinema e dello spettacolo italiano, nel ruolo di attori-testimonial: da Giorgio Albertazzi ad Alberto Lionello e Pippo Franco, da Nino Besozzi a Gianfranco D’Angelo, da Mario Soldati a Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Ma come non ricordare Aldo Fabrizi, Totò, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi…
Ma ci furono anche i registi Leone Pompucci e Carlo Verdone e attori ancora bambini come Diego Abatantuono, Teo Teocoli, Renzo Arbore, Alba Parietti.

Non va dimenticata la grande produzione di cartoni animati che caratterizzò Carosello.
I primi furono del 1958: Angelino per il detersivo Supertrim e l’Omino coi baffi per la caffettiera Bialetti, entrambi creazioni di Paul Campani.
L’anno seguente fu la volta del Vigile e il Foresto per il brodo Lombardi e Ulisse e l’Ombra per il caffé Hag, ideati da Roberto e Gino Gavioli.
Nei primi anni ’60, Svanitella Svanité fece dire a tutti “Come se niente fudesse”.
Poi arrivarono Unca Dunca, di Bozzetto, Olivella e Mariarosa (olio Bertolli, 1962 -75), Capitan Trinchetto e, nel 1970, I Cavalieri della Tavola Rotonda, inventati da Marco Biassoni.
Contemporaneamente, nascevano in Carosello i pupazzi animati.
Cominciò TOPO GIGIO, che esordì in pubblicità nel 1961 per i biscotti Pavesini.
Il 1965 fu l’anno di CARMENCITA e il CABALLERO, pupazzi creati da Armando Testa per il caffé Lavazza e che riproponevano l’uso di accenti torinesi e meridionali per la parlata dei personaggi.
Poi arrivò il pulcino CALIMERO, creato dai fratelli Pagot per il detersivo della Mira Lanza e ancora l’ippopotamo PIPPO, JO CONDOR, il GIGANTE BUONO e molti altri…

CAROSELLO FU EFFICACE?

Carosello costituì certamente un importantissimo fenomeno di costume della società italiana, alle prese col boom economico e il cambiamento di stili di vita e di consumo, e che forse non è ancora stato studiato in modo appropriato.

Ma Carosello fu efficace come strumento pubblicitario? Bisogna dire che troppi badarono allo spettacolo e poco al messaggio pubblicitario- accade anche oggi…- per cui molte marche non ne trassero alcun beneficio. Di fatti se ci pensiamo ci ricordiamo tutti (o quasi) del Gigante Amico ma chi si ricorda a quale prodotto era associato? Ma per tornare al quesito possiamo dire in estrema sintesi che la sua efficacia fu per molti anni correlata al fatto che la pubblicità televisiva per molti anni fu possibile solo all’interno del famoso contenitore e che l’ascolto (in regime di monopolio) era da Guinness dei Primati. Ma spesso gli spot non furono utili per affermare la marca o supportare le vendite: ad esempio è opinione diffusa che CALIMERO diede uno scarsissimo contributo a Mira Lanza, le cui vendite erano invece legate solo alle promozioni nei punti vendita (sconti) e alla RACCOLTA DI FIGURINE…

Carosello determinò però l’imprinting degli Italiani alla pubblicità televisiva e quindi, al di là delle (oramai sterili) valutazioni sulla sua reale efficacia, rimarrà indelebilmente nella nostra memoria, soprattutto in questi ultimi anni dove vediamo dilagare pubblicità di scarsa qualità e dopo averne vista questa indecifrabile riproposizione…

@danielecazzani

L’ultimo miglio del #volantino

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Venerdì scorso si è tenuta a Parma la seconda edizione del convegno “Le nuove frontiere del volantino” organizzato da #Nielsen e Università di Parma.

In sintesi alcuni dei dati più interessanti emersi:

  1. la prolungata crisi che stiamo vivendo ha modificato le abitudini di consumo e d’acquisto degli Italiani: si compra meno, solo l’essenziale (senza stoccarsi di prodotti), spostandosi su format di vendita più convenienti (discount e specialisti drugstore) e comprando sempre più prodotti a marchio privato;
  2. la pressione promozionale continua a crescere, arrivando a sfiorare il 30%; questo dato è sostanzialmente identico per leader e follower di categoria e formato di vendita;
  3. cresce fino  al 23,7% anche la pressione promozionale dei prodotti a marchio privato;
  4. per il combinato disposto dei primi 3 punti diminuisce la fedeltà al negozio e alla marca;
  5. le principali aziende del largo consumo nel 2012 hanno disinvestito dall’advertisement e dirottato risorse sulla promozione prodotto/prezzo.

Nonostante l’aumentata pressione promozionale il 2012 ha registrato un calo dei consumi sia a valore (-1%) che a volume (-1,5%), con punte differenziate in funzione del formato (in grande difficoltà gli ipermercati).

Il volantino non è percepito dai clienti/consumatori come strumento di aiuto alla spesa, ma ancora come strumento di spinta al consumo.

Qualche operatore del settore ha detto che il volantino è lo strumento di ingaggio tra insegna e cliente, ma la sensazione è che sia ancora più che altro strumento di ingaggio tra industria e GDO, in base ad arcaici approcci relazionali e commerciali che rischiano di essere sempre più inadatti al nuovo contesto.

La sempre maggiore diffusione dei device mobili e la sempre maggiore propensione dei clienti alla multicanalità dovrebbe comportare uno switch di risorse dalle promozioni mass market a mirate promozioni basate sui dati fidelity, ma anche su questo fronte le resistenze da vincere paiono essere davvero molte…

Sempre parlando del volantino- che assorbe mediamente il 70-80% del budget pubblicitario nella GDO- l’attenzione è stata posta sul tema della qualità della distribuzione porta a porta, cui si affidano tutti gli operatori della GDO, avvalendosi di una delle tante aziende di un settore in cui sono presenti tante, troppe imprese senza struttura e organizzazione e che fanno affidamento solo sulla richiesta/necessità di tante catene di comprimere al massimo i costi del servizio (a fronte di un costo medio di 0,03 euro a copia, vi sono casi in cui il servizio di distribuzione viene offerto a tariffe di 0,015 euro a copia…) senza preoccuparsi della qualità dell’ultimo passaggio, rischiando così di vanificare quell’80% di investimento.

Premesso che il futuro vedrà certamente una sempre maggiore importanza (e centralità) del volantino digitale– che dovrà però offrire contenuti arricchiti rispetto al cartaceo- visto che già oggi almeno il 50% dei consumatori consulta il volantino anche sui siti web o le app delle diverse insegne, è emerso come cruciale il tema della qualità della distribuzione.

Sono oggi disponibili sul mercato società che effettuano (per conto terzi) attività di controllo campionario sulle distribuzioni eseguite da altre società, ma vi sono anche nuovi strumenti che permettono di “certificare” la distribuzione, tramite la tracciatura satellitare e la possibilità di personalizzare il volantino con codici alfanumerici univoci in fase di stampa.

Senza contrapporre il metodo tradizionale alle nuove tecnologie, dobbiamo notare che anche la distribuzione con tracciatura gps- il cui costo è circa il triplo rispetto ai valori sopra indicati- può al massimo certificare l’avvenuta consegna in una certa cassetta postale o condominiale. Ma il vero problema è proprio nella cassetta postale e condominiale: ognuno di noi, quotidianamente, deve fare i conti con la propria cassetta postale invasa da comunicazioni pubblicitarie (negozi alimentari, agenzie immobiliari, negozi di arredamento, offerte di artigiani, ecc) cedendo talvolta alla voglia di sbarazzarsi di tutta quella carta non richiesta. La situazione ovviamente peggiora se pensiamo alle cassette pubblicitarie condominiali, dove basta la volontà e determinazione di un singolo per eliminare in un colpo solo chili di carta (di volantini).

Nulla e nessuno può ad oggi certificare l’avvenuta consegna del volantino nelle mani del nostro cliente (reale o potenziale che sia).

Anche per questi motivi la strada da percorrere sarà quella di personalizzare le offerte, facendo convergere la sempre maggiore attenzione del cliente alla qualità dell’offerta (in termini di prodotto, prezzo e servizi proposti) e la disponibilità di nuove tecnologie- che saranno via via sempre più diffuse e utilizzate- con le strategie degli operatori della GDO.

La sfida sarà mettere al centro delle proprie strategie il cliente per costruire attorno alla sua domanda (di qualità, convenienza e servizi) una coerente offerta (non solo commerciale, ma anche esperienziale e valoriale).

Il cliente è mobile. Il retail è mobile?

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Mobile marketing, mobile commerce, mobile payment, mobile advertising e via dicendo sono termini oramai entrati nel gergo comune di professionisti e riviste, siti internet, blog del mondo retailing. Si potrebbe dire che se negli anni Novanta del secolo scorso era sintomo di modernità parlare di Internet ed e-commerce, nel secondo decennio del XXI Secolo pare che il must sia avere una app. Con il rischio, come accaduto nel primo caso, che spesso a fare da traino allo sviluppo di un settore siano elementi di moda e tendenza- o più prosaicamente la ricerca di nuovi strumenti per fare business una volta avviati al tramonto vecchi media- piuttosto che una reale conoscenza e competenza sulle potenzialità dei nuovi strumenti e sul loro ruolo nell’ambito della proprio business. Aumentano gli smartPhone Senza citare dati specifici- l’evolversi del settore porta a un invecchiamento precoce di tabelle e torte- si può dire che l’aumento di vendite di smartphone nel corso del 2011 è stato davvero esaltante in tutto il mondo (con mercati che hanno toccato tassi di crescita del 100%) e anche in Italia il numero dei nuovi device in circolazione (circa 20 milioni) supererà fra non molto quello dei vecchi e semplici (sigh) telefoni cellulari. Nulla di cui stupirsi nel Paese, il nostro, che vanta il maggior numero procapite di SIM e in cui il cellulare ha una diffusione e penetrazione nella popolazione oramai paragonabile a quella della vecchia tv. E’ quindi evidente come a breve gli smartphone sostituiranno tutti i vecchi cellulari, restringendo il campo d’azione dei pc e notebook- si stima che nel 2013 gli accessi al web da smartphone supereranno quelli da pc- già insediati dall’altro fenomeno dei tablet; in entrambi i casi il forte sviluppo è dato dalla diffusione di tariffe flat da parte degli operatori telefonici e dalla sempre maggiore propensione degli Italiani alla navigazione in Internet (e non solo, come spesso si immagina, nelle fasce più giovani della popolazione). Lo smartphone e il negozio Preso atto che prima o poi tutti noi saremo dotati di uno smartphone, la vera domanda da porsi è come questo fatto possa influire sulla relazione tra retailer e cliente o consumatore. ,Al momento, come detto in apertura, pare che l’obiettivo sia quella di avere un’app, il che in tutta onestà pare una visione quanto meno limitante per le potenzialità di questo media. Restringendo il campo d’analisi al settore della GDO sono già state lanciate alcune applicazioni (Esselunga, Bennet e Auchan per citarne alcune) che offrono i seguenti servizi: store locator, orari e aperture straordinarie punti vendita, promozioni (normalmente limitata alla visualizzazione del volantino, fatta eccezione di Esselunga in cui il cliente può navigare tra le offerte dei diversi reparti anche extra volantino), informazioni sulla carta fedeltà (saldo punti nel caso di Bennet ed Esselunga). Dalla competenza commerciale a… Le iniziative fin qui avviate paiono quindi concentrarsi, per l’ennesima volta, sulla componente commerciale della relazione ovvero sulla promozionalità mass market,- ignorando di fatto una delle caratteristiche più importanti del nuovo device, ovvero la possibilità di personalizzazione e interazione- mentre non vi sono attività di customer service (la prenotazione di un premio senza il vincolo di recarsi presso il punto vendita ad esempio) oppure attività promozionali mirate al singolo cliente, o progetti che prevedono che il cliente dialoghi con l’insegna durante l’esperienza di acquisto. E’ probabile che mentre scrivo alcune di queste evoluzioni siano già in cantiere- come detto il settore è estremamente mutevole- ma la sensazione che, per lo meno nella GDO, l’approccio alla nuova frontiera del mobile assomigli, purtroppo, a quanto avvenuto all’avvento di Internet (ad oggi vi sono ancora molti siti che rappresentano mere vetrine aziendali senza tenere in alcun conto il cliente).

Concludo con un rimando a un filmato che in varie circostanze è stato trasmesso e commentato proprio per supportare le argomentazioni a favore dell’incredibile sviluppo del mobile: il caso della metropolitana di Seoul in cui Home Plus (ovvero Tesco in Corea) ha allestito con dei pannelli che replicano gli scaffali di un punto vendita; i clienti leggono il codice del prodotto per inserirlo nel loro carrello virtuale che, grazie alla consegna a domicilio, la sera si trasforma in carrello reale. Al di là del fatto che un cliente potrebbe fare la spesa col suo smartphone seduto in metropolitana anziché sulla banchina, la domanda che pongo è: che spesa è in grado di fare una persona in circa due minuti ( tempo massimo di attesa di una carrozzo nella metropolitana della capitale sudcoreana)? O qualcuno pensa che i sempredicorsa Coreani se ne stiano in banchina a fare la spesa vedendo sfrecciare le carrozze sui binari dietro i pannelli? Non ho in progetto trasferte in Asia ma mi piacerebbe conoscere qualcuno che abbia visto dal vivo il progetto…

Daniele Cazzani @danielecazzani