UN MESSAGGIO PER I CEO DELLA GDO: ASCOLTATE EINSTEIN

“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose […] La crisi porta progressi […] E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà […] dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza”.

Non sono solito sfruttare frasi di altri- ritengo il vezzo del citazionismo il car sharing del pensiero- ma questa frase di  Albert Einstein è, mio avviso, perfetta per sintetizzare lo stato dell’arte della distribuzione italiana.

Questa amara constatazione sorge dopo avere seguito- come sempre a distanza- i lavori de Linkontro 2022 organizzato da NielsenIQ in cui ho visto molta attenzione sul tema dell’inflazione- tema pressante ma contingente- delle filiere, della sostenibilità, della transizione digitale. Beninteso si tratta di temi certamente fondamentali dell’oggi e del domani ma quello che mi è parso mancare è una seria riflessione su cosa si debba cambiare per vincere le nuove sfide.

Questa domanda, tra l’altro, andrebbe posta mettendosi nei panni del cliente. Pensiamoci: che differenza sostanziale c’è nella politica promozionale e commerciale del 2022 rispetto a quella di 20 anni fa? Sempre volantini… Anche le logiche che guidano gli assortimenti e il rapporto con l’Industria non sono poi cambiate (fatta eccezione per l’affermazione delle pl, che sono ben lungi dall’essere la soluzione di tutti i mali però). Idem dicasi per gli schemi dei programmi loyalty. E potrei continuare… 

Gattopardescamente si realizzano negozi sempre più belli e high tech ma il cuore non cambia.

Serve coraggio e inventiva per cambiare i paradigmi. Ne parliamo al prossimo meeting?

@danielecazzani

IL RUOLO DELLE #MDD NELLA #FIDELIZZAZIONE DEL #CONSUMATORE #GDO

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La recente edizione di Marca by Bologna Fiere ha registrato come ogni anno un crescente entusiasmo per i progressi della marca del distributore (MDD) arrivata nel 2019 a pesare poco meno del 20% sul fatturato complessivo dei prodotti di largo consumo confezionato (LCC).

A guardare i dati però il progresso non risulta così folgorante, se pensiamo che nel 2015 la quota era già superiore al 18% e che in questi anni i distributori hanno investito moltissimo nello sviluppo di nuove linee e nuovi brand (un tempo si sarebbe detto private label) soprattutto nelle nuove categorie bio, di filiera, benessere, free from, premium- inserite negli assortimenti togliendo spazio ai prodotti di marca- ma trascurando invece la componente primo prezzo presidiata (vedasi sotto l’utilizzo recapito realizzato dalla testata GDOWEEK) solo dal migliore operatore del settore, ovvero Esselunga (sarà un caso?); la maggior parte delle catene ha inoltre supportato le MDD agendo con una forte pressione promozionale replicando così il vizio, e in parte i risultati, dell’IDM.

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Lo sviluppo dei prodotti MDD è certamente da salutare con favore sia per il supporto che dà a una filiera nazionale di produttori e co-packer sia per gli investimenti in sostenibilità ambientale e sociale come tra l’altro confermato dall’amico Giorgio Santambrogio (Presidente ADM, oltre che vulcanico AD di Gruppo VeGé) che ha annunciato proprio a Bologna che dal 2021 l’associazione che presiede chiederà a tutti i propri fornitori agricoli l’iscrizione alla “Rete di lavoro agricolo di qualità” promossa dal Mipaf (un importante tassello sia per la lotta al caporalato che per garantire la dignità dei lavoratori del settore).

Ma qual è il ruolo che la GDO assegna ai prodotti MDD?

La domanda sembra banale ma la risposta rischia di essere piuttosto confusa…

Se non v’è dubbio sul fatto che questi prodotti permettano alle insegne di governare in modo più certo la marginalità,  ci dobbiamo chiedere se e come siano in grado di avere effetti sul comportamento d’acquisto dei clienti, in primis in relazione alla loro fidelizzazione.

E’ opinione diffusa che le private label aiutino a fidelizzare i clienti ma dobbiamo constatare come la parola “fedeltà” sia tra le più abusate nel settore: basterebbe appostarsi alle casse di una qualsiasi insegna GDO per notare la varietà di borse utilizzate dai clienti, segno evidente della loro propensione a frequentare diversi punti vendita, come api in un prato fiorito (dopotutto come si giustificherebbe altrimenti il grande investimento in volantini se davvero si pensasse che i clienti sono fedeli? Perché continuare a sollecitarli a tradire questa o quella insegna?)

La ricerca per Marca 2019 sviluppata da Nomisma aveva evidenziato- in base ai risultati di una ricerca- come il 67% dei clienti scegliesse un punto vendita in base (o grazie) all’assortimento di prodotti mdd.

Non vi sono motivi per dubitare dell’approfondita ricerca, ma ciò che serve è una misurazione effettiva della correlazione tra fedeltà dei clienti e scelta dei prodotti MDD.

Detto che- spesso proprio in virtù dell’ampliamento dell’assortimento a danni di prodotti di marca- in un carrello è facile che vi sia almeno un prodotto MDD (a prescindere dall’insegna) come viene misurata la relazione tra questa scelta del cliente e fedeltà? Come possiamo dire che quel prodotto sia per lui rilevante in un carrello costituito da altri prodotti (di marca spesso)?

Azzardo: qualcuno nella GDO la misura? Nello sviluppo delle linee MDD questo elemento è considerato? Se sì, quanto? Dal punto di vista strategico, chi si occupa di cliente è integrato nei processi di sviluppo delle categorie MDD nelle organizzazioni della GDO?

Per proseguire nello sviluppo dei prodotti MDD come reale strumento di fidelizzazione e per aumentarne la quota- oggi ancora distante dai valori di altri Paesi europei- ritengo sia necessario questo ulteriore sviluppo in termini di analisi e strategie, che aiuterebbero la GDO a compiere ulteriori passi verso un moderno approccio al cliente (e non solo al prodotto e allo scaffale).

 

@danielecazzani

NOTA FINALE

Lancio la provocazione a Marca By Bologna Fiere: nell’edizione 2021 qualche leader della GDO sarà disponibile a rispondere a queste domande condividendo numeri?

#ALDI IN #ITALIA: ALCUNE ANNOTAZIONI SU #BELLEZZA, #PREZZI, #COMUNICAZIONE, #PROMOZIONI (ASPETTANDO LE BORSE DEI CLIENTI)

Se ne parla da anni ma fra pochi giorni apriranno in Italia i primi negozi di Aldi, il colosso della distribuzione tedesca che ha deciso di entrare nel frammentato e iper-competitivo mercato italiano con un format che ha in sé tutto il know-how maturato da leader nel mercato tedesco, ma che è stato adattato e plasmato per entrare subito in sintonia col consumatore italiano.

Nel web si possono trovare già molte immagini e video del nuovo store di Castellanza (vedere in calce all’articolo), per questo pur senza averlo ancora visto di persona mi permetto alcune annotazioni.

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Il negozio è certamente bello e ben distante dall’immagine stereotipata dei discount: quello della piacevolezza dell’ambiente (spaziosità corridoi, chiarezza nella comunicazione, illuminazione ecc) non è elemento da sottovalutare come dimostra il percorso intrapreso in questa direzione anche da Lidl ed Eurospin (per citare i due monstre del settore nel nostro Paese).

I brand e il packaging dei prodotti MDD sono belli, non banali e gareggiano ad armi pari sugli scaffali coi prodotti leader delle diverse categorie.

Il tone of voice della comunicazione è molto colloquiale e diretto, ma trovo eccessivamente stressato il termine “WOW”; lascerei fosse il Cliente ad esclamarlo.

Per converso mi sembra non efficacissima la comunicazione del palinsesto promozionale:  tra offerte del weekend e offerte della settimana il Cliente potrebbe perdersi (ma siamo convinti ancora che promo giornaliere spostino le abitudini di consumo dei Clienti soprattutto nel FMCG?).

Ovviamente sarà importante valutare il posizionamento di prezzo, perché, non scordiamolo, è un driver fondamentale anche per il consumatore del 2018, soprattutto se  sul piatto non vi sono significativi elementi di servizio di offrire.

Infine, se fossi un dirigente di Aldi, nei primi giorni di apertura presterei attenzione alle borse che porteranno nei carrelli i Clienti: sarà un metro qualitativo importante (più ancora del metro quantitativo dei fatturati) per capire se la scommessa di fare attecchire questo muova veste di Aldi nel mercato italiano sarà partita o meno col piede giusto.

Ciò detto, benvenuto Aldi!

@danielecazzani

 

Qui di seguito un video di presentazione che ho ripreso da GDOWEEK.

#MDD: UN VOLANO PER LE ECCELLENZE #AGROALIMENTARI DEL #MADEINITALY

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L’Italia da anni si conferma come il Paese europeo col maggior numero di prodotti certificati DOP, DOC e SGT, arrivati alla ragguardevole cifra di 814. Questo dato conferma la ricchezza e la pluralità della nostra produzione agroalimentare che è parte importante dell’export madeinitaly nel mondo- con una quota del 21% sulle esportazioni agroalimentari- che continua a segnare importanti tassi di crescita (poco meno del 10% nell’ultimo anno) come evidenziato dall’ultimo rapporto Ismea Qualivita (www.qualivita.it)

L’importanza di queste produzioni si conferma anche sulla tavola degli italiani che dimostrano di apprezzare i prodotti certificati, con una leggera crescita dei consumi che va comunque integrata in un contesto di mercato di generale compressione degli acquisti food.

Se quel che serve per migliorare ancora l’export- ricordiamoci infatti che pur potendo vantare cifre in crescita l’export food & wine tricolore è di gran lunga inferiore ai risultati della Germania, il che è tutto dire…- è la capacità di fare sistema e promozione all’estero, attivando efficaci canali retail (non dimenticandoci che anche l’e-commerce potrà aiutare questa crescita), sul fronte interno certamente vi sono ampi margini di manovra per quanto concerne la comunicazione e il marketing di questi prodotti.

Di per sé le sigle DOP, DOC e SGT si basano su disciplinari di produzione alquanto rigidi e importanti, con rigorose filiere di controllo, ma di tutto questo, spesso, ben poco arriva al consumatore.

E’ come se questi prodotti- e chi li distribuisce- si accontentasse di dire al consumatore “accontentati del marchio, al resto abbiamo già pensato noi”.

Credo invece che viviamo un’epoca in cui il consumatore/cliente pretende (e premia) la trasparenza, l’apertura, il racconto.

Ma questo aspetto spesso si scontra con la pulviscolare realtà dei produttori– fatta di piccole realtà che non hanno forza di entrare in contatto col consumatore- e con consorzi di tutela spesso bravi nella gestione della filiera interna, ma poco aperti ed efficaci verso l’esterno, verso il consumatore (penso ad alcune imbarazzanti pubblicità del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano, due autentici monstre del nostro panorama agroalimentare, che in trenta secondi con scelte comunicative quanto meno discutibili hanno banalizzato secoli di storia…).

In questo contesto ritengo che la Distribuzione possa svolgere un ruolo importante per lo sviluppo del mercato interno, attraverso la leva dei propri prodotti mdd.

I dati recentemente diffusi a Marca, hanno infatti evidenziato una crescita dei prodotti premium, all’interno dei quali un ruolo importante lo giocano- oltre ai prodotti bio e ai nuovi prodotti “con” e “senza”- i prodotti certificati.

Per questo motivo sono confidente che la Distribuzione attraverso il volano dei propri prodotti a marchio possa ancora di più avvicinare il consumatore/cliente ai prodotti DOP, DOC e SGT, presentandoli, valorizzandoli, promozionandoli e raccontandoli non uno per uno, ma all’interno di una strategia più ampia che sia in grado di valorizzarne l’effetto corale dell’offerta, non il singolo attore/prodotto.

Il brand MDD diverrebbe così l’ombrello sotto il quale ricomprendere una serie di prodotti di per sé unbranded, conferendo loro identità e riconoscibilità. La “firma” del distributore diverrebbe inoltre un ulteriore elemento di garanzia agli occhi del consumatore/cliente.

Nel contempo la Distribuzione dovrebbe, potrebbe, aiutare i consorzi a scendere dallo scranno per andare verso il consumatore/cliente aprendo le porte dei produttori, facendo conoscere cosa si cela dietro un marchio, anche sorpassando la retorica fine a se stessa del madeinitaly (cosa ne sarebbe ad esempio del nostro latte madeinitaly senza la forte presenza di comunità sikh nella pianura padana?) in uno sforzo di trasparenza certamente non facile, ma oggi quantomai necessario.

Infine, lo sviluppo del prodotti certificati significa anche sviluppo dei territori e tutela delle competenze, delle storie e delle professionalità che sono alla base di quelle eccellenze che siamo tutti bravi a lodare ma di cui spesso ignoriamo le basi.

Una motivazione in più per quella parte della Distribuzione che senta l’appartenenza ai territori come elemento fondante del suo essere azienda sociale.

Si tratta a mio avviso di una sfida importante per tutto il nostro Paese e in particolare per la ricca filiera agroalimentare di qualità, che parte della Distribuzione ha già saputo cogliere (penso a IlViaggiatorGoloso di Unes U2 e a Sapori&Dintorni di Conad) e che, ne sono certo, saprà premiare chi avrà il coraggio di affrontarla.

@danielecazzani

Il futuro delle #privatelabels: da #mdd a #mdc (marca del Cliente). Riflessioni a margine di #marca2017

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Anche quest’anno MARCA, la prestigiosa rassegna bolognese che ogni anno è il punto d’incontro tra la Distribuzione e l’Industria (ma il consumatore dov’è?)  per parlare di private labels- ma non solo…- ha fornito numerosi spunti e tanti numeri.

Intanto i numeri. Le private labels nel 2016 hanno raggiunto in Italia una quota del 18,5% (come sempre la media cela valori molti diversi tra le diverse insegne) registrando una crescita rispetto al 2015: 1,7% a valore- grazie soprattutto alla perfomance dei prodotti premium- e 0,2% a volume.

Una crescita non certo impetuosa che sembra confermare quasi l’esistenza di un tetto alle potenzialità di crescita del comparto (ne parlavo già anni fa…) e che si conferma se diamo uno sguardo alle percentuali di altri Paesi (vedi grafico)

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Altro tema importante è la sinergia tra Distribuzione e Industria. Pensado soprattutto al mercato italiano le private labels rappresentano un’incredibile opportunità di sviluppo per tante piccole e medie aziende produttrici.

Le private labels hanno dimostrato appieno la capacità di divenire cardine di un processo di fidelizzazione della clientela come dimostrano Sapori & Dintorni di Conad e ViaggiatorGoloso di Unes-U2. In quest’ultimo caso i successi dei temporary natalizi e del nuovo store di Milano sono il segno che la MDD può divenire insegna.

Ma, ribadito che mi è parso che a Marca mancasse il consumatore (o, meglio, il Cliente), a mio avviso le reali possibilità di successo per le private labels sono legate alla capacità che la Distribuzione avrà di trasformarle da MDD a MDC, ovvero a Marche del Cliente caratterizzate da:

  1. trasparenza/tracciabilità (i clienti vogliono sempre più sapere e conoscere mentre l’opacità è un freno alla fiducia)
  2. value for money (che non significa prezzo basso, ma prezzo giusto, anche nei comparti come i prodotti “bio” e “senza” o “con” nei quali spesso il “light” si sposa con prezzi davvero troppo “heavy”) e ridotto ricorso alla leva promozionale
  3. attenzione alle nuove tendenze e stili di consumo (anche le nicchie quindi, non solo il mainstream)
  4. innovazione nel packaging, nel servizio (pensiamo al ViaggiatorGoloso su Amazon)
  5. educazione (ad un consumo corretto e consapevole, non promozionale e coercitivo).
  6. esposizione e valorizzazione all’interno del punto vendita (quante volte abbiamo la sensazione che il distributore quasi si vergogni dei propri prodotti? assurdo!)

Per la Distribuzione si tratta di un’occasione imperdibile, visto che l’IDM dimostra tutta la sua rigidità e schizofrenia (lanciando ogni anno sul mercato prodotti flop) e pare ancora concentrata su investimenti in advertising e in uno storytelling che assomiglia troppo spesso ad un moderno tentativo di affabulazione più che a un racconto sincero dei propri valori e della propria promessa.

Fra un anno vedremo se (e da chi) sarà colta appieno questa opportunità.

 

@danielecazzani

 

PS

Un suggerimento agli organizzatori di Marca: inviate un biglietto anche al consumatore/Cliente per la prossima rassegna. Sono certo che vederlo tra gli stand non potrà che fare bene ai tanti espositori (e relatori) 😉

Grazie!

Un patto #bio tra #agricoltura, #distribuzione e #consumatori

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In tempi di crisi dei consumi vedere un numero positivo fa sempre piacere.

Fino ancora a pochi anni fa considerato da tanta parte della distribuzione come una nicchia  o una moda passeggera, il biologico è ora al centro dell’attenzione della GDO.

Con una crescita del 21% (anno terminante maggio 2016) il biologico si conferma un settore in piena salute per quanto ancora piccolo nel mondo dei consumi, pesando solo per il 3% sul totale delle spese alimentari delle famiglie italiane (una percentuale però quasi raddoppiata negli ultimi cinque anni).

Ma la passione per il biologico si sta radicando, se è vero che le ricerche dimostrano che il 18% delle famiglie consuma abitualmente prodotti bio, mentre è decisamente superiore il numero delle famiglie che anche occasionalmente li acquista.

In questo contesto vi sono certamente degli heavy users (o dovremmo dire heavy eaters?) del bio se è vero che il 23% delle famiglie acquirenti pesa per oltre il 70% delle vendite, ma il perimetro di consumatori si sta allargando rapidamente, complice la maggiore attenzione alla qualità del cibo, come testimonia ad esempio la parallela crescita del comparto dei prodotti alimentari “senza” (senza glutine, senza olio di palma, senza conservanti e via dicendo).

L’aumento dei consumi bio è dovuta da una parte dall’aumento della produzione– in questi ultimi anni si è registrato un notevole incremento dei terreni per agricoltura biologica- dall’altra dall’entrata in campo della grande distribuzione e dal moltiplicarsi dei canali di acquisto a disposizione dei consumatori: negozi specializzati (pensiamo al grande sviluppo avuto da un’insegna quale NaturaSì), centri di acquisto, vendite dirette da agricoltori e ultimo, ma non meno importante, l’e-commerce.

Ma numerose sono ancora le possibilità di espansione del mercato; basti pensare al mondo della ristorazione (commerciale e non) e alla sua ancora marginale attenzione a questo fenomeno…

Tornando alla GDO l’incremento delle vendite è stato determinato, oltre che dalla domanda, da un aumento dell’assortimento disponibile, cresciuto solo nell’ultimo anno di oltre il 26% e spesso trainato dalle private labels.

In un comparto produttivo caratterizzato dalla presenza di piccoli operatori, quasi pulviscolare, e dove, fatte alcune eccezioni, è risultato finora difficile fare branding sul biologico, le private labels possono giocare un ruolo fondamentale mettendo sul piatto tutto il peso del brand d’insegna.

La tracciabilità del prodotto, il suo luogo di coltivazione e produzione sono elementi ancora più importanti in un mondo, quello del biologico, tutto sommato nuovo per buona parte dei consumatori. Non si può certo pensare che basti il bollino “agricoltura biologica” per convincere all’acquisto i propri clienti. Serve trasparenza e chiarezza. Ecco perché ritengo che le private labels possano giocare un ruolo fondamentale, anche per abbattere una delle barriere all’acquisto più forte per i prodotti bio: il prezzo.

Chi di noi fa la spesa sa bene quale sia il price divide tra un prodotto bio e un prodotto non bio. Spesso, è opportuno dirselo, tale differenza non nasconde fondamentali differenze nella catena del costo; piuttosto il prezzo elevato è stato utilizzato (non so dire quanto impropriamente) come leva di marketing, quale elemento di “certificazione” della maggiore qualità del biologico.

Anche su questo tema la distribuzione può e deve giocare un ruolo importante: per il consumatore moderno il value for money è formula che funziona se entrambi i piatti della bilancia sono equilibrati. Ben disposto a pagare un prezzo superiore quindi per il biologico, ma a fronte di tangibili e trasparenti elementi che ne attestino la superiore qualità e la veridicità della promessa.

Si tratta di una sfida avvincente per quei distributori che sapranno coglierla perché, se è verosimile che i tassi di crescita non saranno infiniti per questo comparto, il prodotto biologico potrebbe divenire un’importante leva di fidelizzazione della propria clientela; invito i distributori a vedere oggi quali siano i propri clienti che acquistano anche bio: sono piuttosto sicuro che il profilo che ne emergerebbe sarebbe quello del cliente fedele, alto-frequentante e alto-spendente. Perché l’acquisto di un prodotto bio presuppone conoscenza e confidenza che solo un cliente fedele può riconoscere a un distributore.

Per concludere quella che si presenta, a mio avviso, è anche una grande opportunità per i produttori bio.

La distribuzione moderna infatti si presta ad essere una grande veicolo di diffusione della cultura e del consumo del biologico. Inoltre le esigenze logistiche e commerciali della distribuzione potrebbero indurre il comparto biologico a fare un ulteriore salto di qualità finalizzato all’innovazione e alla modernizzazione di tutta la filiera con benefici per il consumatore finale.

Certo per fare questo sarà necessario da un lato un ruolo attivo della distribuzione- in realtà sono già molte le insegne soprattutto italiane che dimostrano di avere colto questa sfida…- e una crescita imprenditoriale anche dei produttori che farebbero bene a imparare dal passato quanto sia importante trovarsi al tavolo con la distribuzione con una voce sola, piuttosto che a gruppi sparsi o singolarmente portando con sé ceste di bellissimi e buonissimi ortaggi ma idee poco chiare sul proprio futuro e le proprie strategie.

Un patto bio tra agricoltura e distribuzione che vedrebbe come beneficiario finale anche quel nuovo consumatore che la prolungata stagnazione dei consumi ha plasmato e i cui nuovi valori, la distribuzione tutta farebbe bene a studiare con attenzione.

@danielecazzani

 

NOTA

I dati riportati nell’articolo sono stati estratti da “Trend e prospettive di crescita per l’alimentare e il biologico in Italia” di Nielsen e anticipati per Sana Bologna.

#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

La matematica di Fido e Fuffi: strategie per il #petcare e il #petfood nella #GDO

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Quel segno “più” nel fatturato 2014 dei comparti petfood e petcare della GDO risaltano come due rigogliose oasi in un deserto costellato di “meno” e dove l’arsura della crisi inizia a far vedere pericolosi miraggi a tanti operatori, che sembrano avere smarrito la via (e la speranza) di rivedere la ripresa dei volumi.

I dati sulla presenza di animali domestici in Italia sono piuttosto noti, con oltre 60 milioni di animali- praticamente in rapporto 1:1 con la popolazione- tra i quali oltre 14 milioni tra gatti (in leggera maggioranza) e cani. Il 50% delle famiglie possiede infatti un cane o un gatto, il che significa che un Cliente su due di un qualsivoglia punto vendita della GDO è un proprietario di pet: un dato di cui tenere conto. Tra i principali aspetti del rapporto uomo-animale di compagnia- oltre al fatto di considerarlo “di famiglia” ed avere un effetto benefico sulla tenuta della famiglia, la riduzione dei litigi e dello stress, l’aiuto alla socializzazione ecc- è importante registrare (in base a recenti ricerche Eurisko e IRI) come oltre il 96% delle persone proprietarie di cani e gatti si dichiari molto attento alla salute del proprio animale domestico. Questo aspetto impatta fortemente sulle scelte di acquisto e quindi sui dati della categoria. Torniamo infatti ai numeri. Pur a fronte di una contrazione dei volumi (che molti imputano anche alla sempre maggiore presenza di animali di piccola taglia nelle famiglie italiane) l’incremento dei fatturati degli ultimi anni è stato determinato da due distinte tendenze:

  1. una sempre maggiore attenzione al benessere degli animali, che si concretizza nella ricerca di prodotti di fascia premium superpremium, e
  2. una sempre maggiore attenzione alla riduzione degli sprechi, che premia packacing più piccoli, monoporzione, e per questo di prezzo maggiore rispetto a confezioni di maggiore grammatura.

Qualità/benessere e servizio sono quindi stati i driver della crescita e dell’evoluzione degli assortimenti sia nei canali tradizionali che nella citata GDO, dove l’evoluzione è stata caratterizzata, tra le altre cose, da una forte presenza dei prodotti a marchio- dapprima a coprire le funzioni base, poi sviluppatosi anche nei servizi, accessori e nelle fasce premium– tant’è che oggi le private labels in questa categoria coprono circa il 50% dei volumi e più del 30% del valore (ben superiore quindi al 18% medio delle PL nel totale del largo consumo confezionato). In questo mercato la GDO assorbe buona parte del volume/valore delle vendite (con una quota pari a circa il 60%) ma è ancora forte il peso dei petshop tradizionali (33%) e delle catene che stanno registrando incoraggianti tassi di crescita a due cifre nelle vendite. La GDO dovrebbe chiedersi se la decrescita del canale tradizionale debba ineluttabilmente avvenire a favore delle catene, col rischio di trovarsi nella condizione di subire nel breve-medio periodo una riduzione dei fatturati anche in un comparto/mercato in crescita, così come è avvenuto in passato nelle categorie della detergenza, igiene e pulizia casa che ha visto l’affermarsi degli specialisti drugstore che negli ultimi anni segnano tassi di crescita straordinari soprattutto se paragonati all’agonico stallo di ipermercati (e, in minor misura, supermercati),  avendo acquisito un ruolo di vero e proprio category killer di diverse categorie. A caratterizzare i petshop tradizionali e le catene è una maggiore ampiezza e profondità degli assortimenti rispetto alla GDO che presenta mediamente 450 referenze a fronte delle oltre 1200 dei primi e le quasi 1800 delle catene.

In tale contesto la GDO potrebbe pertanto pensare che la strada più agevole per intromettersi nella guerra sempre più cruenta tra negozi tradizionali e nuove catene passi, più che da un incremento nell’utilizzo della leva promozionale, attraverso un arricchimento dell’assortimento. In questa direzione si è mosso recentemente un importante operatore della GDO attraverso lo spin-off del reparto petfood e la creazione di uno store dedicato in cui è in grado di offrire un assortimento assolutamente in linea con quelle delle più note catene. A parte ovvie considerazioni sulle reali disponibilità di spazio (metri quadri e metri lineari) nei propri locali, ritengo che la GDO così facendo perderebbe l’opportunità di sfruttare il proprio status di punto di vendita “olistico” per il consumatore che non è solo un proprietario di animale domestico e il cui rapporto col proprio cane o gatto non si limita all’acquisto del sacco di crocchette o della scatoletta di carne. Insomma, solamente ampliando lo sguardo sui propri Clienti, sarebbe possibile individuare importanti spazi per offrire servizi ed esperienze in grado di contrastare in modo efficace i negozi tradizionali e le catene, che, pur con diverse accezioni, risultano ancora fortemente concentrati sull’offerta di prodotto, caratterizzandosi spesso, né più né meno che come supermercati del petfood.

In conclusione quella del petfood e del petcare è un’opportunità che ad oggi la GDO ha saputo sfruttare solo in parte, mentre nei prossimi anni la crescente maturità del settore e una sempre maggiore tensione concorrenziale comporterà scelte importanti che potranno trasformarsi in segni “più” ancora più rassicuranti o in nuovi e conosciuti segni “meno”.

@danielecazzani

NOTA METODOLOGICA– I principali dati citati nel presente articolo sono tratti da una ricerca IRI commissionato da Assalco nel 2014.

IL RUOLO DELLE PRIVATE LABELS NELLA #GDO TRA #SPREAD, MIOPIE E UN NUOVO METRO PER I CLIENTI

Per anni dipinte come i nuovi campi dorati di conquista della GDO (e panacea per i suoi mali di margine), nell’ultimo anno le private labels hanno in realtà registrato uno stop alla propria crescita nel mercato italiano, attestandosi a una quota di valore del 18%; crescita, va detto, che negli ultimi anno stava comunque dando ampi segni di rallentamento come se la quota del 20% costituisse un limite irraggiungibile. In questo contesto poco conta che vi siano categorie come quelle “premium” e” bio” che crescono con valori interessanti, scalfendo (poco ) i prodotti industriali, poiché si tratta appunto di ambiti dal perimetro e volumi limitati.

Premesso che la media come sempre nasconde dati tra loro molto diversi (vi sono operatori della distribuzione organizzata ove la quota della marca privata supera il 30%) vorrei brevemente incrociare due considerazioni partendo da alcuni dati (fonte IRI INFOSCAN).

private label 2015

Innanzi tutto nel nostro Paese il limitato sviluppo delle private label può essere imputato anche all’elevata propensione dei consumatori italiani per i prodotti di marca (la marca è driver di scelta per il 70% degli acquirenti; dato doppio rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna) e alla crescente pressione promozionale che è stata la leva scelta da IDM e GDO per rispondere a una contrazione dei consumi perdurante da oramai troppi anni.

Al netto di questi dati (di fatto) ecco il secondo elemento che intendo evidenziare. Da un lato il posizionamento di prezzo medio delle private labels in Italia è di circa 22 punti inferiore rispetto alla marca industriale, mentre nella maggior parte degli altri mercati europei lo “spread” è decisamente più ampio (quasi il 40% in Francia dove si avvicina al posizionamento primo prezzo); dall’altro anche le private labels sono oggetto di spinta promozionale: per rispondere alla già citata crescente pressione promozionale messa in campo dall’IDM (in accordo con la GDO a essere onesti…) in Italia la pressione sulle private labels è arrivata al 23% (pesando per circa il 19% sul totale delle promozioni a valore).

private label 2015 bis

La domanda (certo non banale) è capire quale sia il ruolo che dovrebbero avere le private labels nell’ambito dell’assortimento e, più in generale, nella strategia commerciale (e di servizio) che l’operatore GDO propone ai propri Clienti.

Per quanto sia evidente come i prodotti a marchio privato abbiano avuto un’indubitabile funzione di aiuto alla marginalità- compressa da aumenti contrattuali, riduzione volumi e aumento pressione promozionale- e ai volumi di vendita in tempi di contrazione dei consumi, ritengo sinceramente che sarebbe assurdo limitarne a questi aspetti il reale potenziale.

A mio avviso infatti le private labels dovrebbero assurgere l’importante ruolo di metro attraverso il quale il consumatore legge e interpreta l’offerta di un’insegna, grazie a un posizionamento di prezzo stabile (non drogato e perturbato da più o meno occasionali attività promozionali) in grado di definire IL corretto rapporto qualità-prezzo all’interno delle singole categorie.

Uno ruolo centrale quindi all’interno della strategia commerciale e non certamente “ancellare” e di ripiego come spesso capita di leggere, quasi che le private labels fossero una riserva cui dedicare le residue risorse (economiche e professionali) delle proprie strutture manageriali. Infatti l’inserimento di prodotti a marchio privato nel proprio assortimento è parso quasi un passo obbligato, ma non ragionato, per tanti operatori, come se dovessero adattarsi (malvolentieri) a una nuova tendenza del mercato e a una nuova domanda dei consumatori. Un’approccio miope, che non ha saputo vedere tutte le opportunità connesse e che, verosimilmente, ne ha limitato anche i risultati conseguiti.

A mio avviso, infatti, quegli operatori che ora registrano quote di prodotti a marchio ben superiori alla citata media del 18% testimoniano invece quanto un corretto approccio a questo tema possa essere fonte di soddisfazioni e successi e di un forte patto coi propri Clienti.

In conclusione, ben lungi dal ritenere esaurita la crescita delle private labels, la realtà è che vi è ancora un forte spread tra la situazione attuale e le potenzialità di questo segmento: uno spread però che solo strategie intelligenti potranno colmare, a beneficio di volumi, margini (indi, conti economici) e di un sistema di piccoli/medi produttori (i co-packer) che sono un’incredibile risorsa della nostra Italia e che l’arroganza di tanta distribuzione (soprattutto straniera) rischierebbe di condannare all’oblio.

@danielecazzani

Quando i #supermercati imitano (male) i #discount che imitano (meglio) i supermercati (e gli #ipermercati)

esse... non fosse buon marketing?

Stamattina ho trovato nella mia cassetta postale un piccolo volantino di una delle più note insegne della GDO italiana, che mi segnala come sia possibile fare la spesa quotidiana con meno di 15 euro. Wow! Wow? Alcune premesse sono necessarie: 1- non faccio la spesa quotidianamente; 2- non saprei cosa farmene, ogni santo giorno, di un detergente piatti o di un litro di sapone liquido (vabbè, l’igiene è importante); 3- non consumo 10 rotoli di carta igienica al giorno (almeno finora non mi è mai capitato!); 4- non bevo 12 litri d’acqua (per quanto i medici dicano che faccia bene…); 5- nè mangio 1 chilo di carote (anche se a ben vedere, potrebbe beneficiarne la mia vista e la mia abbronzatura); e potrei continuare all’infinito… oppure berci una bella birra (ah, no, sono astemio!).

Siamo nel 2013- nell’epoca dei bidgdata, della multicanalità, del loyalty e del mobile marketing- e mi chiedo a cosa servano certe iniziative (proposte non solo dall’insegna citata, sia chiaro), o solo quali obiettivi si pongano. Detto che il paniere proposto è perlomeno risibile e opinabile, se il messaggio voleva essere “rinunciando alle marche più famose (che trovi sui nostri scaffali) e comprando prodotti del tutto anomini, puoi risparmiare un sacco di soldi” credo allora che sia efficace; ma dato che temo che il messaggio volesse essere più semplice, del tipo “anche da noi puoi fare la spesa, spendendo come da un discount”, credo che la via scelta sia quanto meno non felice.

Gli operatori della GDO tradizionale potrebbero raccontare il proprio assortimento nelle corsie dei propri negozi, quando il cliente si trova alla guida del proprio carrello, ponendo l’enfasi sui propri prodotti a marchio oppure sui primi prezzi, per far capire ai clienti quale maggiore libertà di scelta possano offrire rispetto ai classici discount in termini di opportunità di scelta tra marche, private labels, e primi prezzi. Ovviamente anche altri media potrebbero essere utilizzati a tale scopo, ma non voglio perdere il filo del discorso.

Con la soluzione che ho commentato all’inizio, invece, l’effetto è, a mio avviso, quello di un downgrading del messaggio e del posizionamento dell’insegna, ovvero un errore marchiano per chi fa marketing.

Il problema è enfatizzato dal fatto che i discount, dal loro lato, si stanno sforzando per riposizionarsi verso l’alto, migliorando l’appeal dei propri negozi, l’offerta commerciale- con la valorizzazione dei reparti freschi e freschissimi- oltre che la qualità del proprio assortimento, elevando a brand i propri marchi di fantasia (protagonisti anche di spot tv). Insomma, un percorso che, senza poter negare la limitatezza dell’offerta tipica di un discounter [a mio avviso suonano forzati i tentativi di togliersi l’etichetta di discount da parte di alcuni leaders del formato], investe per comunicare ai propri clienti come il proprio assortimento risponda alla domanda di convenienza, ma anche a quella di un corretto value for money.

GDO tradizionale e discount sembrano così percorrere due strade con direzioni diverse. Ovviamente sarà il cliente a scegliere quale strada percorrere (anche di volta in volta, si sa che la fedeltà oggigiorno non è scontata), anche se i dati di vendita periodicamente diffusi da Nielsen o IRI segnalano come solo i discount (tranne qualche rara eccezione nella GDO classica) stanno finora riuscendo, seppure con difficoltà, a reggere l’impatto di questa prolungata crisi.

 

@danielecazzani