I #discount e la #crisi: un binomio tutto italiano?

Grande-Crisi

Un articolo recentemente pubblicato da @NamNews che evidenzia la forte crescita del discount nel mercato UK  (www.kamcity.com/namnews/asp/newsarticle.asp?newsid=70947&utm_source=feedburner&utm_medium=twitter&utm_campaign=Feed%3A+namnews-kamcity+%28NamNews+-+Latest+Grocery+Retail+News%29) ha attirato la mia attenzione.

nielsen uk

Da qui nasce l’idea di parlare ancora una volta di discount- ma il ragionamento vale a 360 gradi per tutta la GDO- concentrando l’attenzione sul rapporto tra andamento dei consumi e quota di mercato dei discount, pur senza avere la velleità di scrivere qualcosa di definitivo.

Tornando in UK, il mercato è caratterizzato non da una contrazione dei consumi, ma da una loro ripresa, come testimoniato dai dati @Eurostat (vedi tabella): quindi pur in un contesto di ripresa dei consumi i discount stanno registrando performances migliori degli altri formati, che sono comunque stati in grado di implementare strategie e attività per intercettare il consumo (ad esempio  con una forte pressione promozionale e con attività, come la distribuzione di buoni carburante, utili per differenziarsi dalla concorrenza).

eurostat

Non entro nel merito delle determinanti della crescita in UK- anche se potremmo citare la riduzione della spesa pubblica, le iniziative di sostegno alle famiglie e la libertà d’azione dovuta all’assenza dei vincoli europei di cui può godere David Cameron- ma non posso non cogliere come l’andamento sincrono dato dalla crescita dei consumi e dalla crescita dei discount sia una chiara dimostrazione di come sia estremamente riduttivo individuare nella sola crisi i motivi della crescita dei discount che stiamo registrando negli ultimi anni anche nel nostro Paese.

Ragionamento simile si potrebbe fare guardando la situazione tedesca, dove l’economia per quanto in sofferenza a causa del rallentamento del mercato europeo, segna ancora dati positivi- come il calo della disoccupazione registrato lo scorso mese- e dove i discount continuano a registrare buone performances.

La crescita dei discount si può spiegare, oltre che come effetto-risposta alla crisi, con una taratura di assortimenti e politiche commerciali più in linea coi nuovi desiderata dei consumatori, sempre meno propensi a perdere tempo tra scaffali pieni di prodotti di dubbia utilità, e meno inclini comprare prodotti inutili e non previsti nella propria wish-list, oppure avezzi, ad esempio nel non food, ad avere un approccio multicanale (privilegiando l’ e-commerce che concede maggiore libertà e controllo al cliente); consumatori che non sono più disposti a comprare extra quantità solo per poter godere di un prezzo migliore, e non riconoscono più automaticamente il brand value all’IDM (basta notare l’incidenza delle private label in Germania e in altri Paesi europei doppia rispetto al nostro Paese; anche in questo caso la strada che dobbiamo percorrere in Italia è ancora molta… se non nei discount, certamente negli altri formati).

In Italia però, come già detto in alcuni miei precedenti interventi sul mondo discount, la crescita della quota dei discount sta rallentando. A mio avviso il motivo è da individuarsi nel fatto che finora il formato ha raccolto parte della spesa in fuga dagli altri canali (pensiamo alla sofferenza degli ipermercati che stanno registrando cali davvero drammatici…) ma, avendo dato  priorità data allo sviluppo (spesso irrazionale) della rete vendita, pare, nella maggior parte dei casi, non essere stato in grado di definire una propria identità, sia in termini di politica commerciale (assortimenti in primis) che di servizi.

Paradossalmente in Italia i discount sembrano addirittura vergognarsi del proprio stesso nome (vedere ad esempio la recente campagna televisiva di una delle catene più importanti nel nostro Paese che ha l’obiettivo di accreditarsi come  “supermercato”), mentre nelle altre esperienze europee, paiono non essersi concentrati tanto su una questione di nome, quanto sull’arricchimento della propria offerta con servizi e con una gestione più strategica dell’assortimento e una politica commerciale più lineare e chiara.

Ennesima dimostrazione dell’attaccamento tutto italiano per le “etichette” e i “titoli” più che per la sostanza delle cose? Voglio sperare che non sia così, ma il rischio, per i discounters, è quello di perdere un’importante (e irripetibile) occasione per consolidare la propria presenza nel vissuto dei consumatori italiani e porre le basi per una crescita della propria quota di mercato.

Daniele Cazzani @danielecazzani

L’ultimo miglio del #volantino

volantini gdo

Venerdì scorso si è tenuta a Parma la seconda edizione del convegno “Le nuove frontiere del volantino” organizzato da #Nielsen e Università di Parma.

In sintesi alcuni dei dati più interessanti emersi:

  1. la prolungata crisi che stiamo vivendo ha modificato le abitudini di consumo e d’acquisto degli Italiani: si compra meno, solo l’essenziale (senza stoccarsi di prodotti), spostandosi su format di vendita più convenienti (discount e specialisti drugstore) e comprando sempre più prodotti a marchio privato;
  2. la pressione promozionale continua a crescere, arrivando a sfiorare il 30%; questo dato è sostanzialmente identico per leader e follower di categoria e formato di vendita;
  3. cresce fino  al 23,7% anche la pressione promozionale dei prodotti a marchio privato;
  4. per il combinato disposto dei primi 3 punti diminuisce la fedeltà al negozio e alla marca;
  5. le principali aziende del largo consumo nel 2012 hanno disinvestito dall’advertisement e dirottato risorse sulla promozione prodotto/prezzo.

Nonostante l’aumentata pressione promozionale il 2012 ha registrato un calo dei consumi sia a valore (-1%) che a volume (-1,5%), con punte differenziate in funzione del formato (in grande difficoltà gli ipermercati).

Il volantino non è percepito dai clienti/consumatori come strumento di aiuto alla spesa, ma ancora come strumento di spinta al consumo.

Qualche operatore del settore ha detto che il volantino è lo strumento di ingaggio tra insegna e cliente, ma la sensazione è che sia ancora più che altro strumento di ingaggio tra industria e GDO, in base ad arcaici approcci relazionali e commerciali che rischiano di essere sempre più inadatti al nuovo contesto.

La sempre maggiore diffusione dei device mobili e la sempre maggiore propensione dei clienti alla multicanalità dovrebbe comportare uno switch di risorse dalle promozioni mass market a mirate promozioni basate sui dati fidelity, ma anche su questo fronte le resistenze da vincere paiono essere davvero molte…

Sempre parlando del volantino- che assorbe mediamente il 70-80% del budget pubblicitario nella GDO- l’attenzione è stata posta sul tema della qualità della distribuzione porta a porta, cui si affidano tutti gli operatori della GDO, avvalendosi di una delle tante aziende di un settore in cui sono presenti tante, troppe imprese senza struttura e organizzazione e che fanno affidamento solo sulla richiesta/necessità di tante catene di comprimere al massimo i costi del servizio (a fronte di un costo medio di 0,03 euro a copia, vi sono casi in cui il servizio di distribuzione viene offerto a tariffe di 0,015 euro a copia…) senza preoccuparsi della qualità dell’ultimo passaggio, rischiando così di vanificare quell’80% di investimento.

Premesso che il futuro vedrà certamente una sempre maggiore importanza (e centralità) del volantino digitale– che dovrà però offrire contenuti arricchiti rispetto al cartaceo- visto che già oggi almeno il 50% dei consumatori consulta il volantino anche sui siti web o le app delle diverse insegne, è emerso come cruciale il tema della qualità della distribuzione.

Sono oggi disponibili sul mercato società che effettuano (per conto terzi) attività di controllo campionario sulle distribuzioni eseguite da altre società, ma vi sono anche nuovi strumenti che permettono di “certificare” la distribuzione, tramite la tracciatura satellitare e la possibilità di personalizzare il volantino con codici alfanumerici univoci in fase di stampa.

Senza contrapporre il metodo tradizionale alle nuove tecnologie, dobbiamo notare che anche la distribuzione con tracciatura gps- il cui costo è circa il triplo rispetto ai valori sopra indicati- può al massimo certificare l’avvenuta consegna in una certa cassetta postale o condominiale. Ma il vero problema è proprio nella cassetta postale e condominiale: ognuno di noi, quotidianamente, deve fare i conti con la propria cassetta postale invasa da comunicazioni pubblicitarie (negozi alimentari, agenzie immobiliari, negozi di arredamento, offerte di artigiani, ecc) cedendo talvolta alla voglia di sbarazzarsi di tutta quella carta non richiesta. La situazione ovviamente peggiora se pensiamo alle cassette pubblicitarie condominiali, dove basta la volontà e determinazione di un singolo per eliminare in un colpo solo chili di carta (di volantini).

Nulla e nessuno può ad oggi certificare l’avvenuta consegna del volantino nelle mani del nostro cliente (reale o potenziale che sia).

Anche per questi motivi la strada da percorrere sarà quella di personalizzare le offerte, facendo convergere la sempre maggiore attenzione del cliente alla qualità dell’offerta (in termini di prodotto, prezzo e servizi proposti) e la disponibilità di nuove tecnologie- che saranno via via sempre più diffuse e utilizzate- con le strategie degli operatori della GDO.

La sfida sarà mettere al centro delle proprie strategie il cliente per costruire attorno alla sua domanda (di qualità, convenienza e servizi) una coerente offerta (non solo commerciale, ma anche esperienziale e valoriale).

Il terzo incomodo (il cliente!?)

Immagine

Nel corso degli ultimi anni si è registrata una forte crescita del cambi di organizzazione (cambi insegna) nell’ambito della GDO, con una dinamica accelerata rispetto ai periodi precedenti.

Immagine

Il cambio insegna di un negozio- inteso come passaggio da un’organizzazione a un’altra- è certamente un momento delicato che coinvolge personale, assortimenti, layout fisici, clienti e via dicendo.

Ma concentriamoci sui clienti. Quando un negozio viene ceduto da un retailer all’altro, i clienti normalmente vengono gestiti come dei terzi incomodi:  difficilmente qualcuno si fa carico di spiegare quanto avverrà a quello che spesso è il proprio negozio di riferimento, al di là di banali cartelli di lavori in corso che ricordano i famigerati “stiamo lavorando per voi” che si osservano (stando in coda) lungo le autostrade del nostro Paese. Poi un giorno, come per incanto, il cliente varcando la soglia del punto vendita noterà che gli addetti alla vendita hanno cambiato divisa, non troverà più quella pasta (private label) che tanto gli piaceva e scoprirà che quella tessera di plastica che custodisce nel portafoglio non vale più nulla, né i punti in essa accumulati…

Uno scenario troppo fosco? Non direi… E’ quanto accade normalmente.

E’ assurdo questo modo di procedere, non solo per il mancato rispetto del cliente- che dovrebbe essere lo stakeholder di riferimento (il “capo” per dirla con Mercadona)- ma anche perché interrompere in modo così drastico la “storia” di un negozio (sia questa una superette, un supermercato o un ipermercato) è un metodo efficacissimo per distruggere valore (ovvero parte di quell’avviamento che viene correttamente valutato nell’ambito degli accordi di cessione e vendita di negozi).

E’ certamente vero che il rapporto tra retailer uscente e subentrante è spesso difficile e “scabroso”, ma sono altrettanto certo che si possa fare di meglio, mettendo al centro il CLIENTE  non solo nelle presentazioni in powerpoint dei Convegni ma anche nella più difficile realtà quotidiana… Ne vogliamo parlare?

Daniele Cazzani @danielecazzani

INSEGNE E PACK CARREFOUR: DUE STORIE DIVERSE?

 

Da alcuni mesi Carrefour ha intrapreso una profonda modifica del packaging dei propri prodotti a marchio, optando per una grafica più sobria, meglio leggibile e nel contempo meno basica (povera) rispetto alla versione precedente. Uno degli elementi di novità è dato dall’abbandono dell’alabarda del logo Carrefour, lasciando sul pack, con la consueta font, solo la scritta “Carrefour”.

Tale operazione è stata supportata da un’importante campagna media basata sul claim “prodotti Carrefour, ispirati da voi” per spiegare il ruolo del panel test di consumatori europei cui vengono sottoposti tutti i prodotti a marchio del colosso francese. Sui prodotti inoltre è stato apposto un bollino blu per “certificare” questo gradimento.

patatina crf

Come anticipato da www.retailwatch.it sui punti vendita Carrefour avrebbe invece deciso di eliminare la scritta “Carrefour”, lasciando solo l’alabarda nell’insegna opportunamente affiancata dalla dicitura “iper”, “market” o “express” a seconda del formato del negozio.

Possiamo dire che le due scelte appaiono distoniche, come prese da due Società diverse? C’è un po’ di confusione sotto i cieli di Francia? Forse inizio a comprendere i dubbi di Monsieur Plassat sul marketing (di Carrefour)…

IL VOLANTINO: UN NEW MEDIA?

A tutta evidenza, insieme ad esempio alla gestione degli assortimenti, il volantino costituisce una delle architravi dei rapporti tra industria e GDO: la sua cadenza di uscita determina di fatto il bioritmo di questa o quella insegna e sulle sue note danzano tutti gli attori, dai fornitori, alle funzioni acquisti, al marketing oltre ovviamente ai punti vendita. E poco importa se nell’aria risuonano contemporaneamente più musiche, con l’effetto di creare per il consumatore in ascolto un effetto fastidiosamente cacofonico. Come rendersene conto? E’ sufficiente dare un’occhiata alle nostre cassette postali dove, quasi ogni giorno, numerosi volantini fagocitano lo spazio che sarebbe riservato alla posta personale (per fortuna in diminuzione in termini di volumi, verrebbe da dire).

Da anni questo strumento, il volantino, è anche additato come emblema dello sclerotico attaccamento della GDO, ma anche dell’industria, a schemi del passato, in un continuo copia e incolla di operazioni 3×2, tutto a 1 euro, sconti 30, 40 o 50%, sottocosto e via dicendo, che assorbe quote importanti dei budget della comunicazione, con incidenze ben superiori alle risorse destinate ad altre attività di loyalty o di advertising più istituzionale o sui cosiddetti new media.

Ma è anche vero che pur essendo uno strumento di promozionalità di massa- di fatto in antitesi con le tante ricerche che indicano la necessità di demassificare sempre di più la comunicazione per aprirsi a un dialogo uno a uno col singolo cliente per una personalizzazione delle promozioni- il volantino rappresenta anche un media dalle potenzialità ancora inespresse.

Sgombriamo però subito il campo da un equivoco di fondo.  Non sarebbe corretto pensare che si tratti di uno strumento tipicamente push- anche se è evidente che pensando alle attuali modalità di distribuzione porta  a porta non  si può non inorridire per come questo tipo di messaggio viene portato alla nostra attenzione- perché ogni giorno vengono volontariamente sfogliati o scaricati on line migliaia di volantini (sarebbe interessante aggregare questi dati per eseguire un’analisi di sistema) il che dimostra come la sua fruizione possa essere anche di tipo pull.

Ciò detto, in Italia vengono settimanalmente stampati e diffusi milioni di volantini che hanno di fatto tirature ben superiori rispetto a quelle dei più importanti settimanali o periodici (il più diffuso settimanale italiano, Sorrisi e Canzoni TV si attesta poco sotto il milione di copie).

Si tratta di due strumenti diversi, verrebbe giustamente da dire. Ma diversi in cosa? Nei contenuti, certo. A fronte di articoli di giornalismo, corredati da ampie pagine pubblicitarie, nel volantino si trovano solo offerte, promozioni, sconti et similia. A loro modo sono anch’essi contenuti,  ampiamente ricercati dalle persone, basti dare un’occhiata ai sempre più numerosi portali in cui vengono confrontate e paragonate le offerte (in volantino) delle diverse insegne, o anche alle ricerche che attestano come il volantino sia un importante strumento di pianificazione della spesa, per l’ottimizzazione dei budget di spesa (e sfuggire, questo è l’auspicio del consumatore, alle maglie degli acquisti d’impulso tessute all’interno dei negozi). Quindi forse contenuti figli di un dio minore (il dio Commercio?) ma talvolta più interessanti dell’ultima dieta inventata dai guru di Los Angeles per le star hollywoodiane.

Ciò non vuole dire che gli attuali volantini non possano essere migliorati per arricchire il contenuto dando valore alla proposta commerciale, che certo resterà  mass market e indistinta- ma per la formulazione di offerte personalizzate non si potrà prescindere dal web e dalle nuove frontiere del mobile, dato che i vecchi strumenti cartacei su questo fronte risultano sì davvero vecchi- grazie all’integrazione con le nuove tecnologie (pensiamo ad esempio all’inserimento di Qr code sul volantino con ricette dei clienti o il giudizio sul prodotto in promozione, oppure con link ai video per mostrare la filiera produttiva di una private label) o, solo per citare altri esempi, l’inserimento di info nutrizionali per intolleranze alimentari o guide su come leggere le etichette. Esperimenti in tal senso ve ne sono stati, ma si è trattato di timidi accenni, non di scelte strategiche.

L’evoluzione in tal senso del volantino- da non confondersi con l’esperienza di magazine realizzati da alcune insegne, il cui ruolo spesso, al di là di contribuire alla brand reputation, si stenta a comprendere- e che avrebbe l’obiettivo di arricchirne il contenuto di utilità per il lettore-consumatore potrebbe avere il non secondario effetto di ridurre quell’effetto di rigetto che il sopra citato affollamento nelle cassette postali rende oramai quasi istintivo.

Anche l’ambiziosa operazione di ELelcerc in Francia “Zero prospectus” non si pone certo l’obiettivo di eliminare il volantino, ma più prosaicamente di smaterializzarlo, per risparmiare sui costi di stampa, logistica e di distribuzione, oltre che peri ridurre l’impatto ambientale coerentemente con la mission dell’insegna francese.

In conclusione, dato che perlomeno nei prossimi anni non si potrà prescindere da questo vecchio “arnese” chiamato volantino, lo sforzo che dovrebbe fare la GDO, e insieme ad essa l’industria (che dovrebbero in qualche modo contribuire ai maggiori costi che certamente l’evoluzione del media comporterebbe)  sarà quello di pensare a investire nel volantino parte del patrimonio di credibilità e competenza di cui ciascun retailer è spesso inconsapevole custode.

 

Daniele Cazzani

Private Label – Il difficile rapporto tra copacker e retailer

A gennaio in occasione di Marca 2011 (Fiera Bologna) ho assistito a un interessante convegno sulla marca commerciale in Europa, ascoltando le interessanti testimonianze dei partecipanti al dibattito non ho capito se la marca privata è lo strumento per migliorare i margini delle categorie– sempre più compressi tra l’estenuante braccio di ferro con l’industria (vedasi tema aumenti materie prime) e la pressione promozionale che, frutto oltre che della crisi della maggiore concorrenza nei territorio, sembra essere l’unica leva per aggiudicarsi fette del sempre più striminzito paniere di spesa del consumatore italiano (abbiamo letto tutti cosa dicono Istat e altri istituti  di ricerca a proposito…)- oppure è una risposta alle nuove esigenze del consumatore, sempre meno legato alla marca-industriale e alle sue promesse, e sempre più razionale nei comportamenti d’acquisto (per lo meno in ambito alimentare e grocery). E’ mia convinzione che le private label possano essere una delle chiavi di volta per la ridefinizione dei rapporti tra insegna e cliente– e in questo ambito Mercadona testimonia quanto tale scelta possa essere premiante- mentre il dibattito vagamente “mercatista” tra distributore e copacker cui ho assistito a Bologna mi fa temere che in Italia siamo ben lungi da tale approdo,

La modifica degli stili di consumo, la sempre maggiore attitudine alla multicanalità dei consumatori oltre che, ca va sans dire, la crisi stanno determinando un profondo mutamento dell’ambiente in cui si muovono retailers e copackers. Non tenere conto delle modifiche ambientali è forse il peggiore tra gli errori che si possano compiere!

Il tema vero a mio avviso è il rapporto tra copacker e distributore. Vedendo le dinamiche degli stand di Bologna, sentendo alcuni partecipanti, ho avuto la sensazione che il copacker resti per il distributore un fornitore tout court. Non un partner. Anche le rivendicazioni, emerse nel dibattito, da un lato dei limiti “tecnologici” di tanti fornitori (ad esempio la mancanza di un listino prezzi in formato elettronico, che in effetti è risibile nel 2011, ma che non credo possa essere considerato IL problema) quanto della rigidità da parte dei distributori a farsi carico di parte degli aumenti, lasciandone l’onere maggiore al copacker di turno- alcuni dei quali hanno denunciato di rischiare un default- hanno evidenziato quanta sia la distanza tra i due attori.

Si è detto, non so quanto convintamente, che bisogna partire dal cliente– “el jefe” direbbero i mercadonisti- per tarare assortimenti, offerte ecc. Se siamo convinti di questo, credo non vi sia altra strada che lasciare la logica del muro contro muro per definire un reale patto tra copacker e distributore: avremmo da una parte il distributore che possiede i dati sui comportamenti d’acquisto dei clienti (attenzione non dei consumatori, ma dei PROPRIO REALI clienti), dall’altra l’industria copacker che col proprio know how, e la capacità di ricerca e innovazione potrebbe divenire lo strumento per portare sugli scaffali i prodotti che il cliente/consumatore chiede.

In caso contrario il rischio è che i distributori farciscano i propri assortimenti di private label anziché di prodotti dell’industria di marca, con l’unico risultato di disorientare ancor di più il cliente di fronte a scaffali che iniziano sempre più ad assomigliare a versioni merceologicamente moderne della Babele biblica!