Emotional Mall: il futuro del centri commerciali è nelle emozioni

DI SEGUITO LA “EXTENDED VERSION” DEL MIO ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI FEBBRAIO DI MARKUP articolo MarkUp feb 2018

L’apertura de Il Centro di Arese nel 2016, la più recente inaugurazione di CityLife Shopping District a Milano e importanti progetti di prossima realizzazione quale Westfield Segrate, dimostrano come il mercato dei centri commerciali sia decisamente florido- pronto ad attrarre sempre più investimenti stranieri e a cogliere le opportunità di sviluppo insite nelle tante aree urbane da riqualificare qua e là in Italia- nonostante in molti negli scorsi anni ne avessero preannunciato una irreversibile crisi.

E’ pur vero che, come contraltare, si possano annoverare numerose strutture che sono oramai in piena crisi, ma si tratta soprattutto di centri realizzati negli anni Novanta, di piccole e medie dimensioni, extra-urbani e con un’offerta commerciale limitata.

In realtà non avremmo di che stupirci che un settore che per anni ha vissuto per anni solo su logiche di stampo immobiliare (molto più raramente commerciali) stia vivendo un momento di passaggio e di crisi (dal greco krisis ovvero scelta, decisione): si tratta di un fatto fisiologico e la circostanza che avvenga in anni di profondo cambiamento nelle abitudini di consumo rende l’occasione quanto mai propizia per chiedersi quali siano le opportunità da cogliere e le sfide da vincere per un settore che dovrà sempre più competere con l’e-commerce e i moderni e-mall.

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Partendo da queste premesse, gli operatori del settore dovrebbero a mio avviso focalizzarsi su tre elementi:

  • La bellezza delle emozioni. I nuovi centri commerciali non dovranno più solo essere contenitori razionali e funzionali di una proposta commerciale, di “cose”, ma luoghi del bello e del piacevole, con spazi “inutili” che possano essere riempiti di contenuti dai clienti, aperti a iniziative di terzi, con logiche bottom-up.

  • L’identità nel marketing. Diciamocelo: i centri commerciali sono spesso una summa di attività commerciali, e difficilmente sono stati in grado di costruire una propria “personalità”. Serve un ruolo diverso del marketing per queste strutture: non più coordinatore di iniziative terze e non più gestore di profili social che fungono, anche qui, da vetrina per gli operatori del mall, ma attore forte e autorevole. Il marketing infatti, ha la possibilità di svolgere un ruolo di aggregatore di dati e informazioni per delineare il profilo del proprio Cliente e attorno a questo costruire non un mero palinsesto non di eventi (la pista di pattinaggio a Natale…) ma una proposta di servizi e di valore che sarà poi il singolo cliente a ritagliare sui propri desiderata.

  • Il dialogo col territorio. In ambito agricolo ed alimentare, FICO a Bologna esaspera questo concetto (visto che lì, il “territorio” è l’Italia intera) ma è indubbio che i centri commerciali- esaurito l’effetto food court quale elemento differenziante e caratterizzante la propria offerta- abbiano una grande chance di guardare ai territori per individuare eccellenze nell’offerta (non solo food, sia beninteso) da inglobare e valorizzare al proprio interno. Il centro commerciale può essereinfatti una potente vetrina dei territori, un hub di eccellenze, riuscendo così a proporre un mix merceologico (ed esperienziale, aggiungo) davvero unico evitando il rischio copy&paste sempre più presente (chi non provato la sensazione che i centri commerciali, e spesso i centri città, siano deboli sfumature della medesima offerta?).

Nel mercato italiano l’e-commerce è certamente in crescita ma è ancora poca cosa rispetto ad altri Paesi, quindi gli shopping center fisici hanno poco da piangere e molto da fare… La sfida insomma è aperta.

Resta solo da capire chi vorrà e saprà coglierla per contrapporre ai moderni e-mall i nuovi… emotional mall.

@danielecazzani

#ALDI IN #ITALIA: ALCUNE ANNOTAZIONI SU #BELLEZZA, #PREZZI, #COMUNICAZIONE, #PROMOZIONI (ASPETTANDO LE BORSE DEI CLIENTI)

Se ne parla da anni ma fra pochi giorni apriranno in Italia i primi negozi di Aldi, il colosso della distribuzione tedesca che ha deciso di entrare nel frammentato e iper-competitivo mercato italiano con un format che ha in sé tutto il know-how maturato da leader nel mercato tedesco, ma che è stato adattato e plasmato per entrare subito in sintonia col consumatore italiano.

Nel web si possono trovare già molte immagini e video del nuovo store di Castellanza (vedere in calce all’articolo), per questo pur senza averlo ancora visto di persona mi permetto alcune annotazioni.

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Il negozio è certamente bello e ben distante dall’immagine stereotipata dei discount: quello della piacevolezza dell’ambiente (spaziosità corridoi, chiarezza nella comunicazione, illuminazione ecc) non è elemento da sottovalutare come dimostra il percorso intrapreso in questa direzione anche da Lidl ed Eurospin (per citare i due monstre del settore nel nostro Paese).

I brand e il packaging dei prodotti MDD sono belli, non banali e gareggiano ad armi pari sugli scaffali coi prodotti leader delle diverse categorie.

Il tone of voice della comunicazione è molto colloquiale e diretto, ma trovo eccessivamente stressato il termine “WOW”; lascerei fosse il Cliente ad esclamarlo.

Per converso mi sembra non efficacissima la comunicazione del palinsesto promozionale:  tra offerte del weekend e offerte della settimana il Cliente potrebbe perdersi (ma siamo convinti ancora che promo giornaliere spostino le abitudini di consumo dei Clienti soprattutto nel FMCG?).

Ovviamente sarà importante valutare il posizionamento di prezzo, perché, non scordiamolo, è un driver fondamentale anche per il consumatore del 2018, soprattutto se  sul piatto non vi sono significativi elementi di servizio di offrire.

Infine, se fossi un dirigente di Aldi, nei primi giorni di apertura presterei attenzione alle borse che porteranno nei carrelli i Clienti: sarà un metro qualitativo importante (più ancora del metro quantitativo dei fatturati) per capire se la scommessa di fare attecchire questo muova veste di Aldi nel mercato italiano sarà partita o meno col piede giusto.

Ciò detto, benvenuto Aldi!

@danielecazzani

 

Qui di seguito un video di presentazione che ho ripreso da GDOWEEK.

Una #GDO fuori forma, una vecchia trapunta e nuove antenne di #marketing (con un occhio a #Google)

E’ legittimo che la GDO si lamenti per la difficile e lenta ripresa dei consumi? Certo! Lo è meno se nel farlo si lasciano per strada opportunità di vendita…

Prendiamo l’esempio del mese di gennaio. Dopo la grande abbuffata di dicembre (le vendite hanno registrato un segno positivo dopo una partenza del mese sottotono) gennaio sembra essere partito col piede sbagliato, in territorio negativo come registrato da A&F e Nielsen.

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Non ho l’ambizione di proporre in poche righe risposte alla domanda “cos’è successo?”, ma segnalo come i numeri negativi arrivino in un inizio anno caratterizzato da forti azioni promozionali da parte della GDO: sconti gridati, come il “30-40-50%” di Esselunga o le “Grandi Marche al 50%” di Carrefour tanto per citare due big del settore.

Queste azioni sono spesso supportate dalla classica “Fiera del Bianco”: promozione le cui origini si perdono nella notte dei tempi…

Eppure a gennaio vi è un grande trend che pare essere stato ignorato dai più.

Gennaio è infatti il mese delle buone intenzioni e del rammarico per gli eccessi alimentari durante le tavole natalizie.

E’ il mese delle iscrizioni in palestra e dell’inizio delle diete (certo, febbraio è tutta un’altra storia…).

Non si tratta di sensazioni ma di fatti. Se non riteneste sufficiente chiedere al collega o all’amico, basterebbe guardare il seguente grafico che identifica l’andamento delle ricerche su Google a livello mondiale per “get fit” e “lose weight” (i numeri sono poi confermabili anche a livelli di singola country) per avere conferma di quanto detto.

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Ebbene, a fronte di questa domanda di benessere e leggerezza la GDO come risponde? Con ipersconti sui soliti prodotti ricchi di grassi e zuccheri e con qualche lenzuolo…

Così una domanda di benessere che va oltre la palestra- una ricerca sul mercato britannico (invito chi vuole a leggere l’articolo citato in calce a questo post) dimostra infatti come vi sia un’impennata di consumi anche di healty food– resta senza risposta, perché inascoltata da un settore che troppo spesso torna vittima dei propri tic promozionali (vedasi la citata Fiera del Bianco).

Per concludere, rapidamente, vi sono molte opportunità da cogliere là fuori, ma bisogna avere antenne pronte e curiose; insomma un nuovo marketing che sia in grado di scaldare i fatturati della GDO più di una vecchia trapunta…

Ready?

@danielecazzani

PS

Per chi fosse interessato ecco l’articolo di The Economist che ha “ispirato” questo contributo:

https://www.economist.com/news/business/21734459-while-low-cost-offerings-democratise-gym-business-fancy-ones-are-raising-bar-gyms

Due volantini, il potere d’acquisto delle famiglie italiane e il ruolo sociale della GDO

Nel novembre 2013 (vedi qui https://newmarketingretail.com/2013/11/20/quando-i-supermercati-imitano-male-i-discount-che-imitano-meglio-i-supermercati-e-gli-ipermercati/ ) avevo discusso della “rincorsa” ai discount da parte di iper e super preoccupati di accreditarsi come altrettanto convenienti agli occhi dei consumatori.

Il punto di partenza dell’analisi era stato un piccolo volantino di Esselunga.

Oggi mi è capitato tra le mani un volantino simile che mi porta ad alcune riflessioni.

Nel 2013 (quasi quattro anni fa) la promessa era “una spesa completa a meno di 15 euro” e presentava un paniere (opinabile, come argomentavo nel post) di 20 prodotti per un importo complessivo di 14,78 euro.

Il volantino di oggi (sotto la promessa “Tutti i giorni, il più conveniente” che identifica i prodotti primo prezzo sugli scaffali dell’insegna di Pioltello) dichiara invece “una spesa completa a meno di 20 euro”. Il paniere oggi è di 25 articoli e l’importo complessivo è di 19,99 euro (mi chiedo, a margine: che fine faranno questi “giochetti” coi 99 centesimi quando saranno eliminate le monete da 1 cent di euro?).

Pignolo come sono mi sono preso la briga di confrontare i due volantini e annotare su quello attuale i prezzi dell’edizione 2013 come potete sotto leggere (ho artigianalmente riportato a penna il prezzo 2013 a fianco del prezzo attuale, spero in modo leggibile).

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Partendo dalla nota che i panieri risultano sostanzialmente omogenei, risulta evidente come in 4 anni i prezzi della maggior parte dei prodotti confrontabili non siano aumentati, risultando in alcuni casi addirittura diminuiti.

Pur confermando tutti i miei dubbi sull’efficacia di questo strumento e messaggio– altre sono, a mio avviso, le leve di contrasto verso i discount come già argomentavo nel 2013- non si può non evidenziare come avere mantenuto negli anni stabili i prezzi dei prodotti si sia tradotto in un importante fattore di tutela del potere d’acquisto dei consumatori.

Oltre ad Esselunga azioni simili sono state messe in atto da altri importanti player del settore.

Per quanto sia vero che gli ultimi due anni sono stati addirittura caratterizzati da una leggera deflazione, sarebbe sbagliato non riconoscere questo importante risultato e contributo della GDO alla condizione di vita delle famiglie italiane.

Ciò detto la Distribuzione vede difficilmente riconosciuto questo proprio ruolo sociale.

Anzi, a volerla dire tutta, la Distribuzione gode spesso di cattiva stampa, additata come speculatrice (pensiamo alle ricorrenti polemiche sui prezzi dell’ortofrutta dal campo al supermercato) e con debole capacità di lobbying su temi quali la tracciabilità dei prodotti, l’etichettatura, la normativa fiscale (pensiamo al tema IVA) e via dicendo (fatto salvo alcune iniziative di singole insegne che sono state meritoriamente in grado di portare sul tavolo della politica temi importanti).

Mi chiedo come questo sia possibile.

La Distribuzione rappresenta un importante settore dell’economia del Paese e ha peculiarità e ruoli (pensiamo alla promozione dei prodotti made in Italy e certificati) che nessun altro attore potrebbe svolgere con altrettanta efficacia (certo migliorabile).

Forse la sua frammentazione e la sostanziale debolezza degli organi di rappresentanza della Distribuzione ne sono una prima spiegazione, ma sarebbe interessante aprire un dibattito sul tema.

Chi vuole cogliere questo spunto?

@danielecazzani

Il futuro dei discount tra prossimità, relazione e omnicanalità

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Nel 1992 la società francese Sodiaal insieme a Kraft si affacciò sul mercato italiano con una poderosa campagna pubblicitaria (oltre 20 miliardi di lire per la sola tv!) per il lancio del nuovo yogurt Yoplait.

Il claim della campagna era: “Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?” (se non la ricordate guardate qui: https://www.youtube.com/watch?v=N7bwGIrA2PI )

La risposta dei consumatori italiani fu chiara e niente affatto positiva per Yoplait. Già nel 1993 gli investimenti pubblicitari furono bloccati e pochi anni dopo il prodotto venne ritirato dal mercato italiano (pur rimanendo un prodotto di successo su tanti altri mercati).

Potremmo porci la stessa domanda per i discount: ma con tutti i discount che ci sono c’è ancora spazio per altri discount?

E’ indubbio che la formula discount abbia incontrato negli ultimi anni il favore del consumatore, sia come riflesso della crisi dei consumi sia per merito di strategie volte a migliorarne ambiente, assortimenti e servizi, oltre che a un rafforzamento delle reti dei 3 principali attori (Eurospin, Lidl e MD-LD) tant’è che alcuni di questi stanno cercando di togliersi l’etichetta di discount provando ad accreditarsi come supermercati.

Al di là di questioni terminologiche- che non mi appassionano…- torniamo alla domanda.

La quota dei discount in Italia è cresciuta negli ultimi anni e si prospetta possa crescere ancora di alcuni punti percentuali in primis perché la presenza territoriale non è omogenea nel nostro Paese, con quote più basse nei territori ove è più forte la domanda (e la concorrenza of course).

Quale potrà essere quindi il ruolo del discount all’interno di una GDO sempre più in fibrillazione con conto economici critici e alle prese con test di nuovi format- come testimoniano ad esempio i percorsi intrapresi di Carrefour, Auchan- ristrutturazioni assortimentali e della rete commerciale, e che vede all’orizzonte l’arrivo di Aldi e di Leader Price?

Riprendendo quanto avevo già anticipato nel lontano aprile 2013 (https://newmarketingretail.com/2013/04/15/discount-3-0-il-futuro-del-discount-in-una-societa-in-evoluzione/ ) a mio avviso le leve che potranno assicurare il successo di questo format sono tre:

  1. la prossimità,

  2. la relazione e

  3. l’omnicanalità.

La prima si declina nella scelta di location non solo periferiche, in layout chiari e punti vendita belli oltre che funzionali; ma anche in assortimenti mirati, attenti ai territori, con focus sui freschi, e un chiaro posizionamento di prezzo senza cedere alla tentazione della promozione da cui gli altri format (iper e super) stanno con difficoltà cercando di disintossicarsi.

La seconda leva costituisce una sfida che nessuno degli attuali leader di mercato ha saputo o voluto cogliere. Pur avendo copiato molti dei “tic” dei supermercati (l’eccessiva pressione promozionale in primis) infatti per ora i discount si sono ben guardati da investire nella conoscenza del cliente, che costituisce il punto di partenza partenza per la costruzione di una relazione.

E’ certamente vero che lo scontrino medio del cliente discount è decisamente inferiore rispetto a quello del cliente di un ipermercato, ma a bene vedere non è poi molto distante da quello del cliente di un super.

Perché quindi non investire su questo tema e dotarsi di strumenti per monitorare il comportamento del cliente e in base a questi dati perfezionare azioni promozionali, proposta di servizi ecc? Non dico che iniziare questo percorso sia facile, ma la strada per il miglioramento raramente lo è..

Infine l’omnicanalità. Lasciando da parte la paura per Amazon & co. che tanto spaventa (e spesso paralizza) la GDO nostrana, non esistono motivi per ritenere che il cliente di un discount non si attenda da questo una coerente presenza multicanale, a partire ad esempio da un servizio click & collect (lo vogliamo chiamare drive?) tanto quanto la attende/pretende dagli altri format (taluni in grosso ritardo sul tema).

Certo l’assortimento di un discount è ben più ristretto rispetto a quello di un iper, ma non è l’ampiezza dell’assortimento a rendere necessaria questa scelta: è la sola osservazione della realtà e delle mutate esigenze e attese dei consumatori.

Alla domanda che ho posto all’inizio io quindi rispondo con un sì. C’è spazio per nuovi discount, ma che siano di prossimità e sempre più vicini al cliente e alle sue mutate esigenze.

I discount in conclusione hanno la possibilità di crescere ancora, disegnando un proprio percorso evolutivo che senza ripetere gli errori passato degli altri format possa definitamente consolidarlo come attore principale del mercato, non più come una cenerentola guardata di sottecchi dai big della distribuzione (se ve ne fosse bisogno il caso inglese da questo punto di vista dovrebbe costituire un efficace alert http://www.gdonews.it/2017/06/12/il-discount-fa-paura-a-tutti-ecco-cosa-sta-succedendo-in-inghilterra/ ).

@danielecazzani

#Esselunga, un #coupon, il Cliente e la #multicanalità (dimenticata?)

Alcuni giorni fa ho ricevuto un mailing di Esselunga contenente 3 coupon validi (in 3 distinti periodi) come sconto di 20 euro a fronte di una spesa minima di 100 euro (totale sconto 60 euro, per ricordare i sessant’anni dell’insegna di riferimento della GDO italiana).
Lodevole iniziativa ma in merito alla quale mi premono due domande.

La prima attiene al lato esperienziale. PER QUALE MOTIVO ESCLUDERE LA SPESA ONLINE? Non so cosa abbia dettato questa scelta (considerazioni di marginalità?) ma come Cliente per me è indifferente acquistare in un superstore Esselunga o online su esselungaacasa. Per questo sarebbe stato opportuno che anche Esselunga mi considerasse sempre come lo stesso Cliente senza penalizzare l’una o l’altra scelta. Si dice che siamo nell’epoca della multicanalità ma vedere queste barriera da parte di un’insegna che prima di altre ha creduto nella spesa on line lascia perplessi…

Seconda domanda sia tecnologica che (ancora una volta!) esperienziale. Il direct mailing cartaceo è certamente uno strumento utile per “bussare alla porta” dei propri Clienti (fatte salve le inefficienze delle società che si occupano di recapito), ma PERCHE’ NON ATTIVARE GLI SCONTI DIRETTAMENTE SULLA CARTA FIDATY DEL CLIENTE permettendo a questi di usufruirne anche a prescindere da eventuali non consegne del mailing (messe in conto dall’insegna?) o di eventuali dimenticanze del piccolo coupon in qualche cassetto di casa?

Con un nuovo approccio il mailing (ma perché non usare anche altri strumenti quali email o sms? certamente non innovativi ma assai apprezzati dai consumatori) avrebbe potuto essere lo strumento per informare il Cliente di questo “regalo” ma dal punto di vista dell’experience l’avere lo sconto direttamente sulla propria card sarebbe stato, a mio modesto avviso, un passo avanti.

Insomma: sessant’anni sono un bellissimo traguardo (raggiunto tra l’altro in splendida forma!) ma la storia (declinata come “affetto” verso vecchi strumenti) non dovrebbe mai essere da freno nell’adozione di nuove soluzioni che mettano al centro il Cliente e la sua esperienza.

@danielecazzani

L’equivoco promozionale nel Retail. Promuovere non significa (solo) scontare…

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Quando si parla di pressione promozionale si è soliti pensare all GDO. Dopo tutto, quello della Grande Distribuzione è un settore che negli anni ha conosciuto un forte incremento di questa leva di marketing (una delle famose 4 P di Kotler) arrivando a medie del 30% (con punte anche superiori al 50% in alcune categorie) e con la quale noi tutti da consumatori abbiamo a che fare. Cosa sono, dopo tutto, i volantini promozionali che riceviamo quotidianamente nella nostra cassetta postale, se non una tangibile dimostrazione che le promozioni sono sempre tra di noi?

A ben pensarci, però, il problema della pressione promozionale non è affatto questione della sola GDO.

Il tic dello sconto sempre e comunque interessa tanti altri settori del moderno Retail.

Facciamo un esempio. Avete intenzione di comprarvi un divano? Approfittate della promozione “Metà Prezzo”! Anzi no, attendete ancora una settimana perché parte la promozione “Sotto Costo”!! No, ancora un minuto: forse è meglio approfittare della promozione “Doppi Saldi”.

Qualcuno dirà: “ma i consumatori amano le promozioni!”.

Certamente il prezzo è sempre un driver di scelta importante come dicono tutte le ricerche di mercato (qui l’estratto dell’ultimo Osservatorio Multicanalità di Nielsen e del Politecnico di Milano che da anni seguono i cambiamenti del consumatore Consumatore Multicanale_ Nielsen e PoliMi) e novità quale il dynamic pricing nell’ecommerce (dove il prezzo assume ancora un valore maggiore) vanno sempre in questa direzione, ma altra cosa è dire che il consumatore ami le promozioni tout court.

Quando si parla di “risparmio” per il consumatore possiamo in realtà individuare diverse esigenze: vi è che cerca la promozione di prezzo in quanto tale (cherry pickers), altri (money savers) che hanno un approccio più razionale e più attenti al value for money; altri ancora sono attenti al risparmio di tempo o a componenti di servizio (ad esempio garanzie, servizi post vendita ecc) cui danno valore tanto quanto il prezzo del prodotto acquistato.

Insomma il panorama (del consumatore e del suo rapporto col prezzo) è più complesso di quanto si voglia spesso semplicisticamente rappresentare.

Affidandoci alla Treccani e cercandone l’etimologia, troviamo conferma che dal latino “pro-movere” il termine promuovere dovrebbe significare “andare avanti, fare avanzare, progredire”.

Evidentemente, declinato in ambito retail, possiamo pensare a far progredire le vendite, ma perché non anche la relazione col Cliente?

Personalmente ho molti elementi che mi fanno pensare che buona parte delle promozioni che vediamo quotidianamente dispiegate rispondano a logiche di breve periodo, e siano spesso risposte per obiettivi altrettanto brevi e tattici, oppure altri rispetto a quello di un consolidamento del rapporto col cliente. Ad esempio buona parte delle promozioni nella GDO nascono da esigenze (legittime, ovviamente) dell’Industria e legate a volumi di produzione e obiettivi di sell-out.

Ma così interpretata e gestita la leva prezzo rischia di essere un boomerang, sia perché spesso l’efficacia promozionale (indicatore quanto mai grezzo se si pensa ai soli volumi di vendita, senza invece guardare in modo più ampio al periodo pre e post promozione e al più generale comportamento del consumatore) risulta debole e in calo, sia perché questo approccio mina alle radici il valore dei brand e il suo posizionamento nella mente del consumatore.

Inoltre- e non è annotazione di poco conto- il prezzo è leva facilmente imitabile dai nostri concorrenti. Ma nonostante questa evidenza sia riportata nelle prime pagine di qualsiasi manuale di marketing, ogni giorno viene ignorata.

Paradossalmente la sempre minor efficacia delle promozioni (documentata da più ricerche) ha visto paradossalmente come risposta un incremento della pressione promozionale stessa (incrementando le percentuale o i panieri oggetto di sconto), come se ci si volesse convincere che l’efficacia è correlata all’entità dello sconto. E’ banale dirlo, ma non è così. Purtroppo per quanto banale questa realtà è ancora poco accettata…

Inoltre, senza aprire qui a un tema (il brand positioning) che richiederebbe molto più spazio, mi chiedo, tornando all’esempio dei divani: un divano scontato da 1.000 euro a 500 euro, siamo sicuri che per il cliente valga davvero 1.000 euro? Che senso ha affermare che quello sia il suo prezzo per abbatterlo poi in maniera così consistente?

Le promozioni poi scontano oggi un altro grave difetto: la loro quasi assoluta indistintività. Si tratta infatti normalmente di promozioni (leggasi sconti) mass market, non calibrati sul singolo Cliente, e quindi con appeal diversi in funzione del destinatario.

La disponibilità di dati sul comportamento del Cliente renderebbe invece possibile declinare queste azioni sui singoli, col grande valore aggiunto di definire per ciascun cliente diversi obiettivi (incentivo all’acquisto, aumento dello scontrino, aumento della frequenza d’acquisto per citare solo gli esempi più banali), a tutto vantaggio dell’efficacia di questa (consunta) leva. Ancor meglio le nuove promozioni potrebbero essere finalizzate a incidere sul comportamento del Cliente non solo in negozio ma anche in altri ambiti (pensiamo al passaparola, ad azioni quali il member get member, o ancora alla possibilità di sfruttare l’esperienza del Clienti per costruire panel su nuovi servizi o prodotti in fase di test).

Solo calibrate sul singolo cliente le promozioni (lato sensu intese) potrebbero essere rivitalizzate e divenire strumento davvero efficace per consolidare le strategie dei retailer.

Così in un moderno Retail “promuovere” dovrebbe assurgere a un nuovo significato. Ovvero valorizzare anche tramite la leva prezzo i contenuti di prodotto e di servizio, del bene proposto e acquistato dal cliente.

Un passaggio certamente non facile e che mette in forse tante consuetudini ancora diffuse- che dovrebbero essere in crisi anche solo guardando i risultati delle odierne promozioni- ma quanto mai necessario per garantire sostenibilità ai conti economici e una base solida a strategie che abbiano orizzonti più ambiziose del solo “oggi”.

@danielecazzani

Il futuro delle #privatelabels: da #mdd a #mdc (marca del Cliente). Riflessioni a margine di #marca2017

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Anche quest’anno MARCA, la prestigiosa rassegna bolognese che ogni anno è il punto d’incontro tra la Distribuzione e l’Industria (ma il consumatore dov’è?)  per parlare di private labels- ma non solo…- ha fornito numerosi spunti e tanti numeri.

Intanto i numeri. Le private labels nel 2016 hanno raggiunto in Italia una quota del 18,5% (come sempre la media cela valori molti diversi tra le diverse insegne) registrando una crescita rispetto al 2015: 1,7% a valore- grazie soprattutto alla perfomance dei prodotti premium- e 0,2% a volume.

Una crescita non certo impetuosa che sembra confermare quasi l’esistenza di un tetto alle potenzialità di crescita del comparto (ne parlavo già anni fa…) e che si conferma se diamo uno sguardo alle percentuali di altri Paesi (vedi grafico)

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Altro tema importante è la sinergia tra Distribuzione e Industria. Pensado soprattutto al mercato italiano le private labels rappresentano un’incredibile opportunità di sviluppo per tante piccole e medie aziende produttrici.

Le private labels hanno dimostrato appieno la capacità di divenire cardine di un processo di fidelizzazione della clientela come dimostrano Sapori & Dintorni di Conad e ViaggiatorGoloso di Unes-U2. In quest’ultimo caso i successi dei temporary natalizi e del nuovo store di Milano sono il segno che la MDD può divenire insegna.

Ma, ribadito che mi è parso che a Marca mancasse il consumatore (o, meglio, il Cliente), a mio avviso le reali possibilità di successo per le private labels sono legate alla capacità che la Distribuzione avrà di trasformarle da MDD a MDC, ovvero a Marche del Cliente caratterizzate da:

  1. trasparenza/tracciabilità (i clienti vogliono sempre più sapere e conoscere mentre l’opacità è un freno alla fiducia)
  2. value for money (che non significa prezzo basso, ma prezzo giusto, anche nei comparti come i prodotti “bio” e “senza” o “con” nei quali spesso il “light” si sposa con prezzi davvero troppo “heavy”) e ridotto ricorso alla leva promozionale
  3. attenzione alle nuove tendenze e stili di consumo (anche le nicchie quindi, non solo il mainstream)
  4. innovazione nel packaging, nel servizio (pensiamo al ViaggiatorGoloso su Amazon)
  5. educazione (ad un consumo corretto e consapevole, non promozionale e coercitivo).
  6. esposizione e valorizzazione all’interno del punto vendita (quante volte abbiamo la sensazione che il distributore quasi si vergogni dei propri prodotti? assurdo!)

Per la Distribuzione si tratta di un’occasione imperdibile, visto che l’IDM dimostra tutta la sua rigidità e schizofrenia (lanciando ogni anno sul mercato prodotti flop) e pare ancora concentrata su investimenti in advertising e in uno storytelling che assomiglia troppo spesso ad un moderno tentativo di affabulazione più che a un racconto sincero dei propri valori e della propria promessa.

Fra un anno vedremo se (e da chi) sarà colta appieno questa opportunità.

 

@danielecazzani

 

PS

Un suggerimento agli organizzatori di Marca: inviate un biglietto anche al consumatore/Cliente per la prossima rassegna. Sono certo che vederlo tra gli stand non potrà che fare bene ai tanti espositori (e relatori) 😉

Grazie!

#Occhiali duepuntozero: un nuovo #marketing per il #retail dell’occhiale

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Riprendo con piacere un mio vecchio articolo di quasi quattro anni fa (era il lontano 12 marzo 2013…) in cui parlavo del retail nel settore dell’ottica, visto che il mio percorso professionale mi ha portato oggi a lavorare proprio nell’azienda leader di questo settore in Italia, e da poco entrata a far parte del più grande gruppo mondiale del settore.

Certo, rispetto al momento della prima redazione, le premesse sono fortunatamente cambiate- il mercato non è in sofferenza e la maggiore forza del retail ha permesso a molti operatori di coglierne le tante opportunità di crescita- ma restano forti i margini per un ulteriore crescita in un mercato estremamente frammentato, in cui l’integrazione verticale dalla produzione al consumatore pare essere oramai strada segnata (per chi avrà forza e capacità per percorrerla) con strategie che vedano al centro il cliente e i suoi bisogni.

Proprio perché convinto degli spunti allora proposti, ho deciso di riproporre oggi quell’articolo- scritto allora, lo ammetto, da outsider rispetto al settore- senza ritoccarne nemmeno una parola per quanto alcune delle semplificazioni (in parte obbligate per lo spazio a disposizione) oggi, mi rendo conto, potrebbero sembrare fin troppo forzate…

Ecco l’articolo.

 

I retailers del settore dell’occhialeria stanno registrando performances negative sia in termini di volumi che di valore- sia nel comparto “vista” che “sole”- in funzione di due tendenze:

  1. nel comparto delle montature, un aumento dell’incidenza degli home brands a danno della quota dei luxury brands, e
  2. un allungamento del tempi di sostituzione degli occhiali (oramai superiore ai 3 anni).

Mi permetto di semplificare il contesto (evitando fini distinzioni tra lenti e montature, tra occhiali e lenti a contatto, e via dicendo) ed evidenziare quelli che a mio avviso sono due forti elementi di debolezza:

  1. la indistintività dell’offerta commerciale tra le diverse insegne, e la conseguente forte dipendenza dall’industria dell’occhiale che, come sappiamo, è fortemente concentrata nelle mani di alcuni players nazionali;
  2. l’aumento della pressione promozionale per sostenere i volumi di vendita.

In merito al primo punto, non vi è dubbio che gli aspetti della moda e del brand siano ancora molto forti, visto che per molti consumatori l’occhiale è un accessorio fortemente personale, che parla dello stile o del modo di essere di chi lo indossa: anche gli occhiali da vista infatti da mero strumento correttivo di difetti oculistici, sono oramai divenuti uno shopping goods. Tale considerazione è ancor più valida nell’ambito degli occhiali da sole, ove l’acquisto presenta caratteri più impulsivi e la comunicazione pubblicitaria riveste un ruolo ancora più importante.

Ma se davvero l’acquisto di un occhiale branded è per il consumatore un modo per entrare nel mondo dei luxury goods, mi chiedo, provocatoriamente, per quale motivo i retailers non investano nella shopping experience del cliente, che risulta invece estremamente povera e indistinta nelle principali catene. Senza con questo negare la componente “tecnica” e “medicale” del mondo dell’occhiale, i negozi dovrebbe superare l’aspetto normalmente freddo e ambulatoriale, ispirandosi a brand del settore moda: l’acquisto di un occhiale (correttivo o meno che sia) potrebbe essere decisamente più emozionale, vivace, interessante, sociale. Per fare questo i retailers dovrebbero iniziare dall’analisi della shopping journey del cliente multicanale e disegnare percorsi flessibili di avvicinamento al punto vendita fisico, con servizi di personalizzazione delle offerte, ed enfatizzando la componente social (condivisione) dell’acquisto.

Anche gli assortimenti dovrebbero essere più narrati e meno caotici: per quanto alcuni negozi abbiano provato ad organizzare l’offerta inventandosi cluster sinceramente opinabili (penso alla suddivisione in “stile”, “eleganza”, “colori” e via dicendo di uno dei leader del settore) la sensazione che vive il cliente è quella spesso dello spaesamento e dell’eccesso di offerta, che, come insegna il Prof.Lugli dell’Università di Parma in altri contesti, può portare alla paralisi, e all’ansia (e quindi al non consumo). E’ prioritario migliorare la rappresentazione della scelta.

Pensiamo anche al mondo junior: un altro target cui molti retailers paiono assolutamente indifferenti, mentre molto si potrebbe fare per rendere meno “traumatica” l’esperienza di acquisto per un bambino “costretto” a utilizzare fin da piccolo gli odiati occhiali, e minimizzare la sindrome “Quattrocchi”. Potrebbe divenire un elemento di distinzione per il primo player che vi si applicasse con interesse e intelligenza.

Venendo al secondo punto il rischio è che- come già capitato nella GDO- il progressivo aumento della pressione promozionale porti non tanto a un incremento dei volumi e dei valori, ma a una riduzione dei margini (per tutta la filiera) e a un’alterazione del comportamento d’acquisto dei clienti, trasformati sempre più in soggetti price sensitive, con l’effetto di vanificare gli interventi effettuati sul primo punto.
Almeno finché con un’azione di lobbying gli attori del settore non riusciranno ad imporre una regolamentazione che  preveda un “tagliando” obbligatorio ai propri occhiali correttivi (per quanto gli italiani paiano non prestare molta attenzione alla cura delle proprie lenti, dobbiamo sempre ricordare che si tratta di presidi medici) così da ridurre i tempi di sostituzione (almeno) delle lenti, ritengo che la strada obbligata sia quella di lavorare sugli assortimenti (e la loro architettura e narrazione) e sulla costruzione di una shopping experience più appagante e distintiva, che parta da un ridisegno fisico del punto vendita e da un salto di qualità nel marketing (anche sul fronte della relazione e fidelizzazione del cliente).

Daniele Cazzani @danielecazzani

Il #marketing è una vera barba! Le 3 “C” della #customer #shopping #experience (tra #barberie e #retail)

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Negli ultimi anni, anche grazie alla diffusione della moda (o, meglio, cultura) hipster, si sta riscoprendo l’arte della barba e con essa il lavoro del barbiere. Non che il barbiere fosse mai scomparso, ma dopo anni in cui hanno imperversato i negozi unisex, la riscoperta in questo settore si concretizza nel rinascita di spazi riservati all’uomo, in cui la cura della propria barba diviene simbolo del prendersi cura di sé.

In questo ambito, quando si parla di barberie si utilizza impropriamente la parola “rito” che rimanda a una dimensione quasi religiosa: norme rigide e ripetitive che regolano un avvenimento.

Le nuove barberie sono invece un luogo di esperienze sempre diverse, sempre nuove, dove ci si sente al centro dell’attenzione e il tempo si dilata; sensazione ben diversa rispetto a tanti saloni di haircare dove la sensazione è spesso quella di trovarsi all’interno di catene di montaggio di matrice fordista.

Stiamo parlando di customer shopping experience. Vediamo di approfondire il tema, declinandolo in ambito retail, partendo da una definizione.

La letteratura accademica e manageriale in questo ambito è ricca e spesso contraddittoria tra una fonte e l’altra; pertanto ho deciso di proporre una mia lettura su questo tema, attingendo alla mia esperienza in ambito retail.

A mio avviso le componenti fondamentali della customer shopping experience, sono riassumibili in tre C:

  1. CONTATTO

  2. CONTESTO

  3. CONTENUTO

Partiamo dal primo, ovvero dalla fondamentale dimensione relazionale. All’interno di un negozio fisico, piuttosto che su attraverso l’accesso a un sito di e-commerce o il contatto con una chat di supporto o ancora un call center (ma l’elenco potrebbe continuare ancora per molto…) la prima consapevolezza che ogni retailer dovrebbe avere è che ogni CONTATTO con un cliente è un incontro.

Ovvero un momento di conoscenza (reciproca), di scambio (di informazioni e di emozioni).

Al centro di questo momento sono le persone, non le tecnologie. Non è infatti il media di contatto a determinare l’experience ma la relazione che vogliamo costruire. Anche quando il contatto è filtrato da un media infatti, non dobbiamo mai dimenticare che questi sono strumento per delle persone.

La domanda fondamentale qui è che tipo di relazione vogliamo costruire col nostro cliente. Di amicizia e condivisione di valore? Più distaccata e formale? Di guida? E tradurre poi questa scelta in maniera coerente su tutti i propri touchpoint, sia fisici (il negozio) che virtuali (il sito, la pagina facebook..).

Si tratta di condividere con tutte le risorse della propria organizzazione una visione, una cultura. E la condivisione non può che passare da una formazione che metta al centro le persone.

La relazione si svolge in un CONTESTO, che può essere fisico o virtuale. La coerenza tra contatto e contesto è fondamentale per la costruzione di una customer shopping experience forte e memorabile.

Le persone non possono mai scindersi dall’ambiente in cui si trovano e questo influenza tutto quello che avviene. Ecco perché la progettazione degli spazi di un negozio, piuttosto che il disegno dell’architettura di un sito di e-commerce, devono partire non dal prodotto o servizio offerto ma da un’idea chiara dell’experience che si vuole offrire ai propri clienti.

Guardandosi attorno è evidente che molta strada deve ancora essere fatta da questo punto di vista.

Inoltre, per quanto possa essere importante il ruolo del contatto, sarebbe illusorio pensare che questo possa da sé sopperire a grandi deficit nella costruzione dell’ambiente: chiedere al personale di un ristorante di usare i guanti bianchi in una sala con tavoli traballanti e piatti sbeccati, produce un effetto di enfatizzazione del contrasto tra gli elementi che non può che determinare una pessima customer experience.

Il contesto a sua volta si alimenta dei contatti che in esso trovano spazio. Anche il contesto cioè- che sia negozio o sito o pagina social- deve divenire uno spazio in continuo apprendimento, che cresce e si aggiorna insieme ai clienti che ospita, non un contenitore rigido.

Vi sono ulteriori elementi non fisici che contribuiscono a disegnare il contesto: la comunicazione pubblicitaria e la narrazione di marca. Entrambe hanno lo scopo di rappresentare il contesto nel quale si vuole accogliere il cliente. Entrambe devono assolutamente essere coerenti col contesto reale che il cliente si troverà nel momento in cui entrerà in contatto con l’insegna.

Ho lasciato il CONTENUTO (ovvero il prodotto o servizio offerto) come terzo elemento, non certo perché meno importante degli altri, ma piuttosto perché è in base a questo che gli altri due vanno costruiti ed elaborati, creando così una matrice tra contatto e contesto che risulti coerente ed efficace.

Il rischio da evitare è lo spaesamento del cliente dovuto a un mancato dialogo tra le 3 C. In questo caso l’effetto è una mancata chiara percezione della proposta del retailer, cui spesso tatticamente si risponde con attività di advertising, o tattiche promozionali; con l’unico effetto di mettere sul tavolo elementi che anziché chiarire rischiano solo di complicare la situazione.

Pensiamo ad esempio a una banca (settore ancora lontano dal fare propria un’autentica cultura retail, ma questo sarebbe altro tema…) che tramite la comunicazione pubblicitaria e la propria narrazione si propone come aperta, smart e disponibile per i propri clienti. Se il cliente una volta che entra in una filiale si trovasse di fronti ad ambienti chiusi, dove ci si sente trattati come un codice iban piuttosto che come una persona, ecco che l’effetto sarebbe quello di determinare una pessima customer experience.

Per questi motivi, come già accennato, potremmo considerare la COERENZA come la quarta C: un elemento cioè altrettanto fondamentale per disegnare con attenzione l’experience dei propri clienti.

In conclusione quello di cui stiamo parlando è strategia, non tattica. Visione, non adattamento al contesto.

Si tratta certamente di un elemento cruciale per un moderno retailer, che presuppone una focalizzazione (vera, non a parole) sulla più importante delle C, che finora abbiamo solo citato tra le righe: il CLIENTE.

@danielecazzani

NOTA FINALE

Se mai qualcuno si chiedesse come è nata questa riflessione, ecco qui la risposta.

Pur non con l’assiduità che desidererei (l’agenda oltre a rovinare spesso le cene serali mi costringe a look da guerrigliero cubano…) sono da alcuni mesi cliente di una moderna barberia di Pavia: Sir Modern Barbershop (sir-modernbarbershop.com). Uno spazio di raffinata semplicità, costruito attorno ai clienti, dove per sentirsi a casa si impiegano pochi istanti, e dove protagonisti assoluti, non sono tanto gli arredi ricercati e caldi, ma i gesti di giovani professionisti che hanno saputo riscoprire e attualizzare un mestiere che rischiava di soccombere in nome di una controversa modernità.

Osservare il loro lavoro, mi ha portato fin qui…