#bigdata, #bigfoot e… #bigbubble. La conoscenza del cliente nel #loyalty #retail

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In tanti dicono di averli visti, ma in pochi nella realtà ne saprebbero documentare la reale conoscenza…

Il destino del bigfoot sembra stranamente assomigliare a quello dei bigdata, di cui si parla molto- soprattutto in convegni, ricerche e workshop- e nel quale la maggior parte delle aziende retail giura di credere. E di investire sempre di più come testimoniano ricerche recenti (vedi http://www.techweekeurope.it/data-storage/forrester-crescono-gli-investimenti-in-big-data-98697), pur rappresentando ancora una quota minima degli investimenti IT.

Prima però di vedere quanto viene investito in questa “nuova frontiera”, la domanda da porsi è perché lo si faccia, o meglio ancora, quali siano gli obiettivi che attraverso i bigdata si possano conseguire.

E’ infatti piuttosto evidente che l’interconnessione tra diversi sistemi attraverso i quali transitano i dati delle transazioni e dei profili dei clienti, unita alla multicanalità del consumatore, siano dei fantastici generatori di dati, di fronte alla cui mole però la reazione può essere paradossalmente di stallo.

Partiamo da due (mai troppo banali) considerazioni preliminari:

  1. la conoscenza del Cliente è un patrimonio inestimabile per il Retail

  2. la carta fedeltà è lo strumento centrale della strategia di relazione e conoscenza col Cliente

Se la prima asserzione troverebbe tutti d’accordo, nella realtà dobbiamo registrare come in tanti casi la situazione sia ancora ferma, con retailer che dimostrano di considerare il cliente un unico soggetto, senza attività specifiche per distinti target; e senza che le analisi dei comportamenti d’acquisto (o non acquisto) incidano sulle scelte commerciali, promozionali, di assortimento ecc.

Lo testimoniano i grandi investimenti in campagne promozionali e media mass market, e l’ancora ridotto peso degli investimenti nel CRM.

La carta fedeltà, a sua volta, è ancora troppo spesso un’appendice delle strategie aziendali: un qualcosa che si deve avere in una short list degli strumenti di marketing da spuntare, ma della cui reale utilità molti paiono dubitare…

Quello che manca è talvolta la consapevolezza che alla base di un programma loyalty vi deve essere un semplice patto col Cliente, un sorta di moderno do ut des. Il Cliente permette di analizzare il proprio comportamento d’acquisto se in cambio di questa analisi, il retailer si dimostra in grado di offrire una migliore esperienza d’acquisto fatta ad esempio di promozioni più efficaci e servizi dedicati.

Altrimenti il rapporto risulta sbilanciato e, nell’epoca del prosumerismo, i clienti non sono più disposti a premiare chi li consideri dei semplici numeri.

La conoscenza del cliente può aiutare i retailer nella definizione delle proprie strategie e soprattutto nello sviluppo dei propri programmi loyalty, ma affinché ciò avvenga sono necessari tre elementi:

  • una chiara definizione degli obiettivi. Navigare nel mare magnum dei dati può essere oltremodo faticoso e oneroso, se non si hanno chiari quali siano i dati rilevanti per il proprio business…

  • la costruzione di metriche/kpi’s che permettano di misurare le perfomances delle diverse attività. Bisogna andare oltre le valutazioni manageriali di pancia e avere il coraggio di leggere e analizzare dati, anche quando, come uno specchio di mattina, non ci restituiscono l’immagine dei nostri sogni…

  • la condivisione di una cultura aziendale del dato e della loyalty che parta dal CEO e arrivi fino a tutto il personale del negozio. Senza il supporto delle persone, nessuna infrastruttura IT può essere in grado di dare vita a un efficace programma di loyalty.

E tutto questo senza più confini tra negozio fisico, piattaforme social, sito di e-commerce.

Sono confidente che questi e altri temi emergeranno venerdì 21 a Parma nel corso dell’annuale convegno dell’Osservatorio Fedeltà promosso dall’Università di Parma (www.osservatoriofedelta.it) perché la sfida è cruciale per disegnare il futuro del loyalty management: evitare che i bigdata si trasformino nell’ennesima… bigbubble senza cioè mai trasformarsi in driver dei processi manageriali, è l’ambizioso obiettivo che, prima ancora dei propri fornitori di soluzioni IT, i retailer più avveduti oggi si devono dare.

@danielecazzani

#PROMOZIONI SI. PROMOZIONI NO.

I dati diffusi settimanalmente da Nielsen, Conad e Affari&Finanza di Repubblica per Osservatorio Consumi (http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/) fotografano impietosamente una GDO impantanata in una situazione alquanto critica tra deflazione e calo dei consumi.

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Nulla di cui stupirsi visto che proprio la dinamica dei consumi è strettamente connessa alla fiducia dei consumatori (a sua volta legata a doppio filo con lo stato dell’occupazione che risulta tutt’altro che positivo a leggere con attenzione i dati). Ma anche su questo fronte Nielsen fotografa un livello calante della fiducia, che tra l’altro, anche a prescindere dalla dinamica degli ultimi mesi, resta ampiamente al di sotto dei livelli registrati negli altri Paesi dell’area UE.

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Altro elemento importante, il calo dei fatturati interessa tutti i format, con punte negative per quei discount che solo un anno fa in tanti descrivevano come il canale del futuro, senza rendersi conto che in realtà si stavano orientando verso scelte e strategie (come la spasmodica voglia di togliersi l’etichetta di discount!?) che ben presto li avrebbero portati a condividere i problemi degli altri canali.

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Il calo dei consumi è anche frutto di scelte da parte dei consumatori che si stanno consolidando: ad esempio la sempre maggiore attenzione al value for money, come testimonia l’ottima perfomance delle private label premium (pensiamo al Viaggiator Goloso di Unes/U2 e a Sapori & Dintorni di Conad), piuttosto che la crescita del biologico e dei prodotti innovativi con alto livello di servizio; oppure, sul versante delle perfomance negative, pensiamo al calo dei prodotti primo prezzo (qui è come se il consumatore dicesse: se proprio voglio spendere poco mi rivolgo direttamente a un discount piuttosto che a un super e a un iper che mi propongono, spesso a macchia di leopardo, anche alcune referenze a prezzi da discount).

Non quindi una sorta di neo-pauperismo, ma un’accresciuta attenzione e consapevolezza per il reale valore delle cose.

Allo stesso modo cresce l’attenzione alle promozioni, che molte indagini confermano come una delle bussole che il consumatore utilizza per le proprie scelte per la spesa; scelte spesso tattiche, visto che è aumentato il nomadismo tra insegna e insegna.

Tornando al nostro titolo, il riflesso pavloviano che ci si può attendere in queste circostanze da parte del settore è un ulteriore incremento della pressione promozionale, che viaggia stabilmente sopra i 30 punti percentuali, con diverse gradazioni tra canale e canale e fluttuazioni da categoria a categoria.

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A questo punto in Italia- Paese avezzo a dibattiti manichei del tipo “sei di destra o di sinistra?”, “sei per il sì o per no?”, “sei guelfo o ghibellino?”- si apre il confronto tra chi è a favore delle promozioni e chi propugna altre soluzioni, ad esempio l’edlp (every day low price). Non ritorno su quest’ultimo tema, ricordando solo che l’edlp è molto di più di una scelta di politica commerciale.

Non apprezzo particolarmente l’approccio manicheo sopratutto quando serve a semplificare eccessivamente un quadro complesso come quello di cui trattiamo, ma  mi permetto di osservare che il tema dovrebbe essere invece quali promozioni costruire e proporre e non se proporle o meno.

Pensando all’attuale processo promozionale non possiamo non notare che questo è il frutto non tanto di una strategia che mette al centro il cliente/consumatore, quanto di un confronto tra Distribuzione e Industria, col risultato che il tempo delle promozioni è  scandito dalle esigenze della produzione industriale e da vecchi tic e retaggi del passato della Distribuzione che ben poco hanno a che vedere coi comportamenti dei consumatori (non solo nell’ambito della spesa alimentare, ma in tutti gli ambiti della propria vita).

Suggerisco a tal proposito, ai manager della GDO di abbinare sempre alla (fondamentale) lettura dei dati anche report, analisi e ricerche sulla società italiana: abbiamo istituti quali il Censis, centri studi di associazioni di categoria e altre realtà- pensiamo al Rapporto Coop- in grado ogni anno di fornire numerosi stimoli ai decision maker della nostrana distribuzione. Sono certo che la lettura darebbe loro un’arma in più rispetto a catene straniere che dimostrano spesso di capire poco la realtà in cui operano.

Tornando alle promozioni, nell’epoca dei bigdata e della piena maturità dei programmi loyalty, pensare ad avere solo un approccio mass market alla promozione risulta limitante, oltre a rischiare di essere penalizzante per i risultati. I dati difatti dimostrano che questa pressione promozionale, così gestita, risulta sempre meno efficace, o no?

Guardiamo questa foto.

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Tre prodotti identici posti contemporaneamente in promozione a pochi centimetri l’uno dell’altro anche a livello espositivo, ben testimoniano la schizofrenia promozionale cui è imputabile la ridotta efficacia.

Il tema non è a mio avviso se aumentare o ridurre la pressione di uno zerovirgola o di qualche punto, quanto di ri-progettarla affinché possa adattarsi alle esigenze dei singoli, massimizzandone l’efficacia.

Vi sono miriadi di dati sui clienti che giacciono spesso su presentazioni di powerpoint dimenticate in qualche cartella nella rete aziendale. Vanno aperte e lette per vedere e capire che i clienti sono diversi e ciascuno di essi si attende che anche la proposta commerciale parli a lui e a lui solo, non all’indistinta categoria del “cliente”.

Può, deve finire l’epoca dei programmi loyalty come necessario accessorio del piano commerciale, magari come riserva indiana del marketing.

Loyalty e politica commerciale possono, debbono, andare a braccetto, in direzione del cliente per costruire il più efficace piano promozionale possibile; auspicando che prima o poi questa direzione coincida con quella di una ripresa della fiducia e dei consumi, ovviamente 😉

@danielecazzani

 

 

I grafici di Nielsen riportati nel presente articolo sono tratti da Osservatorio Consumi e dal sito http://www.gdonews.it.

#Promotion? #Devolution! Le persone devono essere il cuore dei progetti #loyalty

Nel corso dell’ultimo Convegno dell’Osservatorio Fedeltà di Parma è emerso chiaramente come negli ultimi anni si sia accelerata la convergenza tra promozione e loyalty, grazie all’arrivo di nuovi attori “ibridi” tra i due mondi e ai comportamenti di acquisto dei consumatori sempre più complessi e difficili da governare coi vecchi strumenti e strategie.

La ricchezza insita nella conoscenza dei Clienti, dei loro comportamenti e preferenze appare sempre più un valore inestimabile per Retail e Industria che si sono costretti in una spirale iper-promozionale che da un lato ha toccato quote assurde in talune categorie di prodotto (perdendo nel contempo efficacia), e dall’altro ha reso sempre più tesi i rapporti tra i due attori e incentivato un comportamento “predatorio” da parte di un consumatore sempre più avvezzo a cercare e approfittare della migliore promozione disponibile.

Non voglio contestare in questa sede chi ritiene che i progetti loyalty non siano in grado di generare fedeltà, ma siano semplici “mirini” nelle mani di chi costruisce le promozioni, perché è evidente che la migliore conoscenza del Cliente permette (sulla carta) la costruzione di promozioni più personalizzate e rilevanti, e quindi più efficaci.

Ma il vero tema è per me chi sia il decision maker, o meglio ancora a che livello tali scelte si maturino.

Infatti mentre in molte realtà della GDO le strutture territoriali hanno acquisito spazi di manovra su assortimenti, posizionamento di prezzi e politiche commerciali, è abbastanza evidente come il loyalty marketing rimanga spesso una funzione di sede, spesso distante dalla rete commerciale.

Uno dei primi effetti di tale impostazione è spesso un vissuto del loyalty program come “altro” rispetto alle politiche commerciali vere e proprie. Questa impostazione porta con sé un secondo effetto, ovvero una scarsa diffusione della cultura della loyalty nella rete commerciale, visto che il tema è affrontato spesso in lontani comitati commerciali, guardando i numeri macro di insegna senza scendere nel dettaglio dei singoli negozi…

Faccio un esempio banale, certamente non accademico, ma spero efficace. Quanta poca attenzione è riposta nell’emissione di una carta fedeltà di un ipermercato? Quanto questo primo momento di contatto col mondo loyalty dell’insegna appare burocratico e spento di relazione agli occhi del Cliente? Con quale leggerezza si verifica la qualità delle informazioni che il Cliente rilascia? Salvo poi scoprire che il dato inesatto non consente di ricontattare quel Cliente proprio quando vi è il bisogno di richiamare la sua attenzione su una particolare offerta o promozione, magari per contrastare l’aggressione di un nuovo competitor…

Personalmente sono convinto che se si diffondesse una maggiore consapevolezza dell’importanza di quel momento, anche la semplice sottoscrizione di una card diverrebbe ben più importante e rilevante e il programma loyalty nascerebbe su basi per più forti.

Allo stesso modo la diffusione della cultura dell’analisi dei dati a livello locale, anche attraverso la costruzione di modelli di analisi di contesto e non generalisti che vedano come attore protagonista la rete vendita, aiuterebbe a rendere il loyalty il migliore alleato delle politiche commerciali e promozionali, ottimizzando risorse e migliorandone l’efficacia.

Avvicinare il loyalty alle persone, favorendo un processo che chiamerei di promotion devolution- confido che Cristina Ziliani accolga con un sorriso questo divertissement sul titolo del suo ultimo libro…- sarà uno dei temi futuri su cui tutti i retailer saranno chiamati a confrontarsi, quando scopriranno che nessuna infrastruttura tecnologica può garantire il successo di un progetto di loyalty che lasci al margine le persone.
@danielecazzani

L’alba della #GDO: un #Fiat Ducato e degli zaini che trasportano milioni di #euro.

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Scendono. Uno a uno. Silenziosi. Il viso assonnato. Gesti rapidi. Poche parole (quasi a non voler disturbare il nascente giorno). Lo zaino viene rapidamente riempito da mani che sbucano dal portellone di un Fiat Ducato (il cui colore blu lotta da anni contro un’indolente ruggine). Ad un cenno del capo dell’uomo appena sceso dal posto guidatore, tutti partono in direzioni diverse, come particelle impazzite in un reattore nucleare. Il furgone si rimette in moto e dopo alcuni borbottii, si perde in un altra via…

Ma cosa trasporta quel furgone arrugginito? Carta. Certamente. Ma carta che vale milioni di euro.

Quella descritta è infatti la scena che si svolge quasi quotidianamente nelle vie di città e paesi, e che da il là alla distribuzione di quei volantini promozionali che sono una delle colonne portanti della nostra GDO.

La filiera del volantino, oltre ad assorbire buona parte delle risorse professionali nei rapporti Industria-Distribuzione, drena incredibili risorse anche dal punto di vista economico. La sua ideazione, stampa e distribuzione assorbe infatti budget sempre crescenti, perché negli anni ne è aumentato il numero, la fogliazione e la tiratura.

Ciononostante il campo della distribuzione door to door è rimasto un settore grigio, marginale: quello in cui si è disposti a investire meno come se l’ultimo miglio non contasse poi molto.

E’ però evidente tutta la limitatezza di una simile visione. Che senso ha approcciare in modo approssimativo il momento fondamentale, quello in cui il volantino (che è il frutto di ore di trattative, e che innesca una serie di attività logistiche e gestionali sul punto vendita di grande impatto) può arrivare nelle mani del (potenziale) Cliente?

Certo la distribuzione dei volantini presenta tanti e tali variabili che diviene estremamente difficile riportarla nel novero delle attività scientificamente organizzabili, ma chiudere gli occhi non è probabilmente la soluzione ideale.

Anche per questo si è provato negli anni a immaginare soluzioni di monitoraggio sia interne, in accordo col fornitore del servizio (controllo tramite gps), che esterne (con società che controllano chi distribuisce), ma la sensazione è che si sia cercato di intervenire ex post su questo aspetto.

Paradossalmente l’aumento nell’ampiezza dei bacini e nella numerica dei volantini (per un ipermercato di buone dimensioni si può parlare anche di centinaia di migliaia di pezzi) sono stati visti come una risposta alla dispersione naturale che si ritiene insita in questa attività, con l’effetto però di darne per acquisita e accettata l’approssimazione.

Alla base di questo tema dovrebbe invece innescarsi una progettualità più attenta delle aree da coprire con tale servizio (che per il consumatore ora è affiancato, o affiancabile, anche da altri strumenti come il volantino digitale o le app mobili, piuttosto che i siti di aggregazione dei volantini della distribuzione) e una misurazione dei risultati delle singole operazioni promozionali.

La mia esperienza professionale mi ha portato a misurare negli anni risposte ben diverse in base alla tipologia di promozione. Se una promozione sottocosto porta a un ampliamento del bacino di clientela (con aumenti della redemption, superiori anche al 200% anche nelle aree periferiche) una più prosaica e generica operazione “taglio prezzo” rischia invece di investire il bacino tradizionale con piccoli effetti sia sul numero clienti che sugli altri parametri (ad esempio lo scontrino medio).

E’ evidente quindi che la definizione dei bacini andrebbe messa sul tavolo al momento dello studio del palinsesto promozionale, come elemento determinante dei risultati attesi.

In conclusione, i manager della GDO farebbero bene a prestare maggiore attenzione alle prime ore del giorno: rischiano infatti di essere quelle fondamentali per i propri obiettivi di budget più della riunione del mattino! La soluzione non sta certamente nel chiedere ai manager di salire su quel furgoncino, ma nello studio attento dei bacini, nella selezione attenta dei propri partner e nel monitoraggio dei comportamenti dei propri Clienti come strumenti per guidare quell’ultimo miglio da cui tanto dipendono i risultati di cifra e margine.

@danielecazzani

Il paradigma #Netflix e una nuova #loyalty per la #GDO

L’arrivo di Netflix nel nostro Paese rischia, dicono gli esperti, di cambiare il panorama della televisione. Una sorte analoga potrebbe capitare alla GDO. Vediamo come e perché.

Per anni infatti la nostra vita domestica è stata scandita dal ritmo definito dalla televisione: a tavola alle otto per vedere il tg della sera; tutti sul divano alle nove per vedere insieme il film; domenica pomeriggio tutti incollati per seguire i risultati delle partite con la schedina in mano; e via dicendo.

Il palinsesto era fisso. Uguale per tutti. Immodificabile.

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Lo sviluppo del panorama televisivo ha portato poi alla moltiplicazione dei canali tv: pensiamo alla tv satellitare e digitale coi suoi innumerevoli canali tematici che si rivolgono non più alla massa di telespettatori ma, di volta in volta, agli appassionati di avventura, cucina, arte, sport…

Così facendo l’audience dei singoli canali si è certamente ridotta in termini assoluti, ma gli investitori pubblicitari hanno avuto la possibilità di mirare messaggi su target più definiti (e selezionabili).

Oggi però le nuove tecnologie permettono a ognuno di noi di costruirsi il proprio palinsesto personale. La diffusione del mobile poi ci permette di costruirlo e di fruirne ovunque.

Il prossimo arrivo di Netflix da questo punto di vista non è che l’ultimo passo di un percorso che si preannuncia ancor lungo e ricco di novità.

Fin qui però sembriamo fuori argomento, avendo parlato solo di televisione. Passiamo quindi alla GDO.

C’è un motivo per cui dovremmo pensare che la libertà che le persone hanno conquistato (o, meglio, scoperto) in questo ambito non sia estendibile ad altri comparti, ad altri momenti della giornata, come ad esempio la spesa?

Pensando alla prima televisione, quella col palinsesto unico, viene automatico un parallelo col palinsesto promozionale della GDO, composto da volantini rivolti a tutti i consumatori, con contenuti e date fisse. Tanto per fare alcuni esempi, a tanti sarà capitato di ricevere nella cassetta postale un volantino con offerte per il fai da te pur essendo però assolutamente incapaci di piantare anche un solo chiodo; oppure ricevere un volantino dedicato all’infanzia, peccato che i propri figli siano già all’università…

Negli anni la GDO ha sviluppato programmi di loyalty che attraverso la lettura e l’analisi dei dati relativi al comportamento d’acquisto dei Clienti, hanno permesso di raggruppare i Clienti in cluster in base a un numero via via crescente di parametri partendo dai basici dati di affluenza e importo scontrino (usati quali deboli indicatori della fedeltà all’insegna o al punto vendita).

Ora la numerica di questi dati e la capacità di leggerli è andata aumentando- parliamo di big data, no?- ma senza riuscire a incidere più di tanto sul vecchio approccio promozionale fatto da volantini con offerte pensate per la generalità dei Clienti (mass market è un termine freddo ma rende l’idea).

Il paradosso è che le promozioni, più ancora che i servizi (tasto dolente di tanta Distribuzione), sono uno dei momenti in cui la GDO potrebbe dimostrare maggiore prossimità ai propri Clienti; prossimità intesa come capacità di conoscerne le esigenze e attorno a questa costruire offerte e proposte mirate.

La verità è che questa potenzialità non è stata colta dai più. Vi sono come sempre eccezioni, con insegne che hanno costruito dei cluster di Clienti cui destinare particolari offerte, ma la realtà è che si tratta spesso di attività di scarso impatto e la cui ratio spesso sfugge (vi sono retailers che utilizzano parametri che portano a considerare “premium” quasi il 40% dei propri Clienti, ingannando così se stessi e i Clienti stessi).

Il nuovo paradigma e le nuove tecnologie propongono quindi alla GDO una nuova sfida, ancora più importante: ovvero la possibilità di disegnare un nuovo rapporto coi propri Clienti, in cui questi ultimi siano in grado di costruirsi un proprio palinsesto promozionale, ritagliato in base ai propri desiderata (ovviamente all’interno di regole definite).

I Clienti potrebbero accedere a uno “store promozionale” dal quale attingere a particolari promozioni, già attive o attivabili da particolari comportamenti degli stessi Clienti (determinati acquisti ad esempio).

Questa possibilità- che potrebbe essere riservata ai particolari target di clientela- permetterebbe a tanti operatori di cercare (trovare) una via d’uscita alla sempre minore efficacia promozionale delle attività mass market ora messe in campo.

Affinché ciò avvenga è però necessario che buona parte della GDO si accorga che i propri Clienti la sera non se ne stanno più sul divano in attesa del programma tv, ma sono oramai liberi di scaricarsi un film (scelto da un ampio portfolio) quando e dove vogliono, fruendone in qualsiasi momento delle giornata

Certo si tratta di concedere maggiore libertà ai Clienti e questo spaventa. Ma siamo certi che vi sia un’altra strada?

@danielecazzani

Il #volantino promozionale e il punto vendita: dicotomie e schizofrenie della #GDO

La pressione promozionale è prossima al 30% ma le più recenti analisi dimostrano che la sua efficacia si è andata via via riducendo… Cerchiamo di vedere le cose dal lato di un Cliente, tralasciando per un attimo le determinanti nel rapporto Industria e Distribuzione che hanno portato a questa situazione.

Nelle proprie cassette postali un consumatore riceve quasi quotidianamente almeno un volantino promozionale.

Apriamo quindi la cassetta postale. Vi sono manager della GDO che hanno paragonato la distribuzione door to door dei volantini a un delicata bussata alle porte dei consumatori. Immagine quasi bucolica, se non fosse che nella realtà la sequenza di bussate a lungo andare diviene tutt’altro che piacevole, generando un effetto di rigetto automatico. A quanti è capitato che un vicino di casa, un condomino, decidesse di default di svuotare una cassetta postale condominiale straboccante di carta?

Questo è anche determinato dal fatto che spesso riceviamo nella cassetta più volantini della stessa insegna e che le date di consegna variano così come variano le durate delle singole promozioni, che spesso si sovrappongono, senza un apparente ordine così che la possibilità di azzeccare la prossima data di consegna è pari a quella di fare “sei” al superenalotto. Può sembrare una banalità ma sarebbe così assurdo dare date certe alla ricezione del volantino, così da trasformarlo in un momento di incontro programmato se non addirittura atteso da parte del Cliente fedele (o perlomeno attento) alle promozioni di una particolare insegna?

Pesiamo ora il volantino. La numerica delle pagine è andata via via aumentando, così che spesso quello che ci si trova tra le mani assomiglia a una versione moderna di un vecchio catalogo postalmarket.

Osserviamo il volantino. Normalmente il titolo è gridato e promette “convenienza” e “risparmi” da non perdere: proprio come la nota catena di divani che ogni settimana ci invita ad approfittare dell’offerta imperdibile dell’anno, salvo poi, la settimana successiva, ripresentarsi con un nuovo spot tv che lancia una nuova offerta ancora più imperdibile, confidando evidentemente nella scarsa memoria a breve termine dei consumatori.

Sfogliamo il volantino. La sequenza dei reparti varia da volantino a volantino, e per evidenti motivi non è in grado di seguire il personalissimo percorso merceologico del Cliente all’interno di un qualsivoglia punto vendita. Così a volte la sequenza dei reparti prevede freschi-scatolame-nonfood mentre altre volte le prime pagine sono dedicati a offerte non alimentari e via variando (il calcolo combinatorio piace agli uffici marketing). A volte le offerte della medesima categoria merceologica sono polverizzate in più pagine: alcune nella normale pagina di categoria, altre nell’inserto di un determinato fornitore, altre ancora nella pagina riservata agli sconti per i titolari della carta fedeltà etc.

Già questa prima rapidissima descrizione del percorso che si chiede al Cliente di compiere per leggere il volantino, dovrebbe indicarci quanti e quali spazi di miglioramento vi siano. A guidare il racconto dell’offerta dovrebbe essere la consapevolezza delle esigenze del Cliente non il (talvolta astruso) risultato di un braccio di ferro tra uffici marketing, comunicazione e commerciale.

Ma poniamo caso che il Cliente decida, volantino alla mano (sappiamo bene quanto il volantino aiuti nella costruzione della lista della spesa), di recarsi nel nostro punto vendita.

Una volta arrivato il dilemma sarà dove trovare i prodotti in promozione. In un’area promozionale? Nella corsia e sullo scaffale dove sono normalmente esposti? Normalmente qui e là. Dopo tutto a tutti piace rivivere l’emozione di una caccia al tesoro, no?

Battute a parte- ma nessuno legge le ricerche di mercato che dicono quanto sia importante il fattore tempo nel fare la spesa?- capita spesso di non trovare un fil rouge tra volantino promozionale e punto vendita che spesso vivono di una comunicazione “fatta in casa” dove i codici colore della promozione saltano; dove quello che sul volantino si chiama “offerta” ed è scritto in rosso, sul locale di volta in volta si chiama “promozione” o “prezzo speciale” e cambia colore più di un camaleonte di corsia in corsia.

Sappiamo bene tutti come un punto vendita sia ricco di sollecitazioni per l’occhio e la mente del Cliente- a partire dal packaging dei prodotti- quindi potrebbe essere già un ottimo risultato lavorare con attenzione sulla comunicazione promozionale, identificando forme, colori e parole che permettano al Cliente tra gli scaffali un agile matching tra la promessa del volantino e la realtà dello scaffale.

Questa situazione, che di primo acchito potrebbe sembrare una distrazione o un difetto di coordinamento, denuncia a mio avviso una mancata centralità del Cliente nelle visione del retailer. Si chiede infatti proprio al Cliente di adattarsi alle variazioni sul campo della comunicazione, della disposizione della merce, anziché cercare di migliorarne la shopping experience che non è fatta di parole e promesse, e non è titolo da convegno, ma si compone più banalmente (!?) di attenzioni e servizi sul punto vendita.

Un altro elemento che abbatte l’efficacia promozionale è poi dato dalla schizofrenia promozionale della GDO.

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Vediamo questa foto. Un sabato pomeriggio in un ipermercato. Alla ricerca di scatolette di tonno incontro a poca distanza l’una dall’altra 3 offerte per formati identici o comunque simili!? Eppoi vorremmo misurare l’efficacia della leva promozionale!? Perlomeno dovremmo evitare scelte di auto-cannibalizzazione tra identiche offerte che nulla aggiungono al Cliente (tre proposte per rispondere sempre al medesimo bisogno!) e inficiano gli sforzi di marginalità di Industria e Distributore.

Si tratta a tutta evidenza di un mero esempio, ma la mia conclusione è che per migliorare le vendite, e l’efficacia della promozione, la strada da seguire non è tanto quella di aumentarne ancora l’intensità, quanto quella di eliminarne le schizofrenie e progettarle sforzandosi di vederle con gli occhi del Cliente partendo dai fondamentali: la promozione deve essere rilevante (deve esserne comprensibile il beneficio), efficacemente comunicata a volantino e nel punto vendita, evitando che questi due parlino linguaggi diversi, visto che l’interlocutore (il Cliente) è sempre lo stesso.

@danielecazzani

Un nuovo #NONFOOD per un nuovo #RETAIL: riflessioni a margine del 13mo Osservatorio NonFood @GS1Italy

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Lunedì 29 giugno a Milano GS1 (indicod-ecr.it) ha presentato i risultati della tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food che ha evidenziato come questo comparto abbia beneficiato della lieve ripresa nel 2014 dei consumi della famiglie italiane, con un incoraggiante +0,6% (che pone fine ad anni di pesanti flessioni pur lasciando la quota dei consumi non alimentari al di sotto del 15%).

Questo dato è evidentemente la media di situazione molto diverse tra i tanti comparti dell’universo non alimentare ma ciò nondimeno è un segnale positivo in un anno che ha visto una contrazione importante (-7%) nei punti vendita e la crisi aziendale di importanti player, uno dei quali solo due anni fa, proprio in occasione dell’Osservatorio Non Food dichiarava invece di avere individuato una nuova strategia, poi risoltasi in un leggero make-up dei propri punti vendita (evidentemente non apprezzato dai consumatori).

Preso atto dei numeri la domanda fondamentale da porsi a questo punto è però: il non alimentare ha raggiunto questo risultato grazie a nuove strategie e nuovi approcci oppure ha beneficiato della generale (mini)ripresa dei consumi?

Mia opinione è che il risultato sia ascrivibile in buona parte al secondo fattore, perché a fianco di alcune interessanti novità (cito lo svilippo di Ikea e, anche se relativa al 2015, l’arrivo in Italia di Zodio) gli ipermercati e tanti storici retailers specializzati paiono essere ancora in una situazione di stallo decisionale.

Pensiamo agli ipermercati che fino a poco tempo fa vedevano nel non food non dico la gallina dalle uova d’oro ma certamente un comparto da sviluppare (pensiamo ad alcuni “gigantismi” testati, con scarso successo, da insegne non italiane) e che ora invece stanno riducendo gli spazi, prendendo così atto che il non food non è affatto un’arena competitiva più facile del food: anche qui servono competenze, risorse umane (bello che se ne sia parlato ampiamente a Milano!) e strategie di medio lungo periodo.

Un altro piccolo esempio su un comparto- quello della GDO- che mi sta sempre a cuore. Avete presenti i settori libri e videogiochi di alcuni ipermercati: spazi dimenticati, dove l’assortimento pare essere stato disegnato dal caso (o dal caos?), con una noncuranza che stride rispetto all’attenzione al display merchandising che giustamente regna negli altri reparti. Mi chiedo: che senso ha destinare metri quadri (e lineari) di vendita a tali merceologie, per poi nella realtà abbandonarle (o come nel caso dei libri, darli in gestione esterna) come fossero corpi estranei. Ecco, la GDO dovrebbe fare questo: smettere di vedere il non food come un corpo estraneo rispetto alla propria anima food. Anche solo dal punto di vista della cultura manageriale sarebbe un gran passo in avanti.

Tornando ai numeri sono molti gli ambiti nei quali il non food è chiamato a fare di più e qui ne citerò solo due.

Ad esempio, in un anno che ha visto l’e-commerce crescere del 17% il risultato del non food, per quanto interessante in alcune categorie (arredamento in primis che ha raddoppiato le vendite) pare essere molto distante dalle sue potenzialità; questa situazione è frutto di una ancora non chiarito rapporto tra store fisico e store digitale. Anzi, proprio questa visione duale è sintomo di un’arretratezza di approccio che pare non considerare come oramai i touch point tra brand e consumatori si siano moltiplicati e approfonditi.

Allo stesso modo- ed eccomi al secondo punto- è proprio l’assenza di una brand strategy che penalizza il comparto non food, i cui punti vendita sono spesso gestiti come come rassemblement di merci: quasi una provocazione in anni in cui un consumatore sempre più attento e informato non chiede solo un prodotto, ma un senso da dare alla propria relazione col retailer. E non si tratta di aggiungere servizi ai prodotti (soprattutto se il servizio- banalmente penso a un’estensione di garanzia di un prodotto hi-tech- è vista come un altro prodotto da vendere…) quanto di analizzare le domande dei Clienti e strutturare i propri store (siano questi fisici o virtuali) affinché siano in grado di dare le risposte migliori, grazie anche al fondamentale contributo delle persone che vi lavorano. Ogni contatto in uno store deve essere vissuto come un incontro, come il primo passo per una relazione, mentre spesso la formazione delle risorse umane è finalizzata a migliorarne le perfomances di vendita, con effetti in realtà controproducenti.

Nuove strategie, nuovi approcci, un nuovo coraggio insomma: ecco ciò che serve al non food per uscire dalle proprie contraddizioni e ritrovare il proprio ruolo in un Retail moderno.

@danielecazzani

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La matematica di Fido e Fuffi: strategie per il #petcare e il #petfood nella #GDO

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Quel segno “più” nel fatturato 2014 dei comparti petfood e petcare della GDO risaltano come due rigogliose oasi in un deserto costellato di “meno” e dove l’arsura della crisi inizia a far vedere pericolosi miraggi a tanti operatori, che sembrano avere smarrito la via (e la speranza) di rivedere la ripresa dei volumi.

I dati sulla presenza di animali domestici in Italia sono piuttosto noti, con oltre 60 milioni di animali- praticamente in rapporto 1:1 con la popolazione- tra i quali oltre 14 milioni tra gatti (in leggera maggioranza) e cani. Il 50% delle famiglie possiede infatti un cane o un gatto, il che significa che un Cliente su due di un qualsivoglia punto vendita della GDO è un proprietario di pet: un dato di cui tenere conto. Tra i principali aspetti del rapporto uomo-animale di compagnia- oltre al fatto di considerarlo “di famiglia” ed avere un effetto benefico sulla tenuta della famiglia, la riduzione dei litigi e dello stress, l’aiuto alla socializzazione ecc- è importante registrare (in base a recenti ricerche Eurisko e IRI) come oltre il 96% delle persone proprietarie di cani e gatti si dichiari molto attento alla salute del proprio animale domestico. Questo aspetto impatta fortemente sulle scelte di acquisto e quindi sui dati della categoria. Torniamo infatti ai numeri. Pur a fronte di una contrazione dei volumi (che molti imputano anche alla sempre maggiore presenza di animali di piccola taglia nelle famiglie italiane) l’incremento dei fatturati degli ultimi anni è stato determinato da due distinte tendenze:

  1. una sempre maggiore attenzione al benessere degli animali, che si concretizza nella ricerca di prodotti di fascia premium superpremium, e
  2. una sempre maggiore attenzione alla riduzione degli sprechi, che premia packacing più piccoli, monoporzione, e per questo di prezzo maggiore rispetto a confezioni di maggiore grammatura.

Qualità/benessere e servizio sono quindi stati i driver della crescita e dell’evoluzione degli assortimenti sia nei canali tradizionali che nella citata GDO, dove l’evoluzione è stata caratterizzata, tra le altre cose, da una forte presenza dei prodotti a marchio- dapprima a coprire le funzioni base, poi sviluppatosi anche nei servizi, accessori e nelle fasce premium– tant’è che oggi le private labels in questa categoria coprono circa il 50% dei volumi e più del 30% del valore (ben superiore quindi al 18% medio delle PL nel totale del largo consumo confezionato). In questo mercato la GDO assorbe buona parte del volume/valore delle vendite (con una quota pari a circa il 60%) ma è ancora forte il peso dei petshop tradizionali (33%) e delle catene che stanno registrando incoraggianti tassi di crescita a due cifre nelle vendite. La GDO dovrebbe chiedersi se la decrescita del canale tradizionale debba ineluttabilmente avvenire a favore delle catene, col rischio di trovarsi nella condizione di subire nel breve-medio periodo una riduzione dei fatturati anche in un comparto/mercato in crescita, così come è avvenuto in passato nelle categorie della detergenza, igiene e pulizia casa che ha visto l’affermarsi degli specialisti drugstore che negli ultimi anni segnano tassi di crescita straordinari soprattutto se paragonati all’agonico stallo di ipermercati (e, in minor misura, supermercati),  avendo acquisito un ruolo di vero e proprio category killer di diverse categorie. A caratterizzare i petshop tradizionali e le catene è una maggiore ampiezza e profondità degli assortimenti rispetto alla GDO che presenta mediamente 450 referenze a fronte delle oltre 1200 dei primi e le quasi 1800 delle catene.

In tale contesto la GDO potrebbe pertanto pensare che la strada più agevole per intromettersi nella guerra sempre più cruenta tra negozi tradizionali e nuove catene passi, più che da un incremento nell’utilizzo della leva promozionale, attraverso un arricchimento dell’assortimento. In questa direzione si è mosso recentemente un importante operatore della GDO attraverso lo spin-off del reparto petfood e la creazione di uno store dedicato in cui è in grado di offrire un assortimento assolutamente in linea con quelle delle più note catene. A parte ovvie considerazioni sulle reali disponibilità di spazio (metri quadri e metri lineari) nei propri locali, ritengo che la GDO così facendo perderebbe l’opportunità di sfruttare il proprio status di punto di vendita “olistico” per il consumatore che non è solo un proprietario di animale domestico e il cui rapporto col proprio cane o gatto non si limita all’acquisto del sacco di crocchette o della scatoletta di carne. Insomma, solamente ampliando lo sguardo sui propri Clienti, sarebbe possibile individuare importanti spazi per offrire servizi ed esperienze in grado di contrastare in modo efficace i negozi tradizionali e le catene, che, pur con diverse accezioni, risultano ancora fortemente concentrati sull’offerta di prodotto, caratterizzandosi spesso, né più né meno che come supermercati del petfood.

In conclusione quella del petfood e del petcare è un’opportunità che ad oggi la GDO ha saputo sfruttare solo in parte, mentre nei prossimi anni la crescente maturità del settore e una sempre maggiore tensione concorrenziale comporterà scelte importanti che potranno trasformarsi in segni “più” ancora più rassicuranti o in nuovi e conosciuti segni “meno”.

@danielecazzani

NOTA METODOLOGICA– I principali dati citati nel presente articolo sono tratti da una ricerca IRI commissionato da Assalco nel 2014.

L’ERA GLACIALE DEI #CONSUMI E I T-REX NELLA #DISTRIBUZIONE

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Circa 66 milioni di anni fa nel Cretaceo un evento inatteso- l’impatto di un meteorite o l’eruzione di contemporanea di aree vulcaniche- comportò la scomparsa di oltre il 70% delle specie viventi, causando cioè gli stessi devastanti effetti di una grande glaciazione. Senza che vi sia stato bisogno di meteoriti, il crollo del consumi registrato dal 2007 sta profondamente cambiando il contesto in cui si muovono i grandi e piccoli operatori della Distribuzione, che, verosimilmente, auspicano di non fare la fine dei temibili e apparentemente invincibili T-Rex.

Poche cifre (che traggo liberamente dal sempre utile Rapporto Coop 2014) ci aiutano a ricordare i contorni di quanti accaduto.

Il reddito disponibile dal 2007 al 2013 è calato di oltre l’11%, con una identica perdita del potere d’acquisto reale, come effetto combinato dell’aumento delle tasse (dalla casa all0IVA) e delle tariffe dei servizi pubblici, aggravate da una sostanziale stabilità del livello dei salari. Guardando ai consumi il calo è stato del 5% tra il 2007 e il 2012, ma anche nei successivi due anni il calo è stato del 2,5% . Questo calo si è tradotto in una forzosa rimodulazione dei consumi che hanno visto crescere la quota di quelli legati all’abitazione dal 18 al 24% e scendere dal 15 al 14,5% quelli per consumi alimentari. Per quanto uno zerovirgola possa apparire poca cosa, chi lavoro nel settore della Distribuzione sa bene che impatto devastante abbia avuto tale riduzione sui fatturati e gli equilibri di bilancio delle principali insegne.

Di fronte a un mutamento così importante della Società, non tanto e non solo dei consumi, buona parte della Distribuzione ha risposto in modi diversi, talvolta utilizzando una sola leva, talvolta mixando più strumenti. Quasi tutta la Distribuzione ha innanzi tutto risposto con le armi della tradizione, ovvero con un aumento della pressione promozionale, affiancando la spinta di un’Industria preoccupata di mantenere i volumi di produzione. Non si è però lavorato solo sulla leva prezzo, ma anche sull’assortimento, dapprima ampliandolo al di fuori dei canonici confini per coprire altre fasce di consumo nel tentativo di cogliere quell’85% dei consumi non alimentari: in questo senso vanno intese le avventure (non sempre fortunate) di alcune insegne nella vendita di contratti di utility luce e gas, finanza o telefonia, piuttosto che le specializzazioni in alcuni comparti quali l’elettronica di consumo, l’arredo casa e via dicendo.

Nel contempo però è emerso come l’ipertrofia degli assortimenti fosse a sua volta uno dei principali problemi del settore: da qui riduzioni di superfici di vendita–  con tutti i limiti dati da rigidità strutture e vincoli di natura immobiliare e contrattuale-soprattutto a danno del non food, che certamente più del grocery ha risentito dell’accresciuta multicanalità del consumatore e dell’avvento del e-commerce. Ma vi è stato anche chi ha pensato fosse sufficiente procedere a un re-naming (con vere e proprie rottamazioni di insegne storiche nel panorama distributivo del nostro Paese), oppure a un restyling di punti vendita (spesso guidati dall’estro degli architetti più che dalla ragione del marketing e dei numeri). Numerosi anche i movimenti nel mondo delle attività loyalty, con l’avvento di coalition, la scomparsa di cataloghi e concorsi a premio, l’avvento delle special promotion e via dicendo.

In sintesi, non si può certo dire che la Distribuzione sia rimasta a guardare quanto stava accadendo, ma è altrettanto forte la sensazione che spesso e volentieri si sia trattato di risposte tattiche, pensate per tamponare situazioni contingenti (difficoltà a raggiungere e controcifre nei budget, piuttosto che riduzioni di traffico clienti), e non scelte strutturali, come se vi fosse la convinzione che la tempesta sarebbe ben presto passata, e che per non vederla fosse sufficiente ripararsi nella stiva della nave, piuttosto che prendere atto della necessità di profondi cambiamenti di rotta.

Eppure è oramai patrimonio comune il concetto di società fluida, che, a dire il vero, affonda le proprie origini nel panta rei di Eraclito: tutto scorre, nulla si ripete, nulla può essere più come prima.

Calato nel nostro contesto: è inutile vagheggiare su un ritorno dei consumi ai livelli pre-crisi. Sempre più operatori a parole paiono convinti di questo, ma dal dire al fare. La grande attenzione ai numeri dei propri bilanci dovrebbe andare di pari passo con la conoscenza dei numeri della Società: se non conosciamo il terreno sul quale dobbiamo muoverci, qualsiasi strategia e direzione risulterà fallace. Serve quindi intervenire su numerosi format che sono in realtà rimasti ancorati a paradigmi- del consumo e della società- validi anni or sono ma che ora paiono sbiadite foto di un tempo che fu. Ma va detto che un format non è costituito solo da un contenitore (un layout) e un contenuto (un assortimento e un posizionamento di prezzo) ma ha un’anima più profonda che deve affondare le radici nella conoscenza dei propri Clienti per arrivare a proporre a essi una visioneche permetta di condividere un percorso quotidiano.

Queste possono sembrare parole da sociologia da bar- certo non voglio imbeccare strategie a mezzo articolo- ma nella realtà se ben guardiamo, il mercato oggi ci dice che a reagire meglio alla “grande glaciazione” sono stati retailers molto diversi che hanno saputo però leggere il momento e disegnare una propria strategia. Da chi ha coraggiosamente sposato l’every day low price(politica alquanto faticosa) unito a tante attenzioni al Cliente, a chi ha saputo andare oltre le cose, a discounter che non hanno disconosciuto il proprio nome ma che continuano a muoversi nel coerentemente con la promessa di offrire risparmio, a chi non si è fatto tentare dal gigantismo degli ipermercati ma ha continuato a coltivare quel fantastico vivaio di relazioni coi Clienti dato dal vicinato. Evito ovviamente di citare nomi e insegne, ma abbiamo in Italia numerose case history da studiare e- non è un caso- non si tratta mai di operatori stranieri, che hanno dimostrato spesso un approccio distante dalla realtà italiana, tanto quanto lo sono stati i risultati ottenuti rispetto alle attese (e ai faraonici investimenti).

La grande glaciazione è forse agli sgoccioli- almeno questo è l’auspico dei più- ma gli anni di stenti hanno stremato numerose organizzazioni: sarebbe per queste illusorio pensare “finalmente è finita” e abbandonarsi fiduciosi alla debole ripresa. Serve coraggio e visione. Oggi più che mai.

Daniele Cazzani @danielecazzani

 

IL RUOLO DELLE PRIVATE LABELS NELLA #GDO TRA #SPREAD, MIOPIE E UN NUOVO METRO PER I CLIENTI

Per anni dipinte come i nuovi campi dorati di conquista della GDO (e panacea per i suoi mali di margine), nell’ultimo anno le private labels hanno in realtà registrato uno stop alla propria crescita nel mercato italiano, attestandosi a una quota di valore del 18%; crescita, va detto, che negli ultimi anno stava comunque dando ampi segni di rallentamento come se la quota del 20% costituisse un limite irraggiungibile. In questo contesto poco conta che vi siano categorie come quelle “premium” e” bio” che crescono con valori interessanti, scalfendo (poco ) i prodotti industriali, poiché si tratta appunto di ambiti dal perimetro e volumi limitati.

Premesso che la media come sempre nasconde dati tra loro molto diversi (vi sono operatori della distribuzione organizzata ove la quota della marca privata supera il 30%) vorrei brevemente incrociare due considerazioni partendo da alcuni dati (fonte IRI INFOSCAN).

private label 2015

Innanzi tutto nel nostro Paese il limitato sviluppo delle private label può essere imputato anche all’elevata propensione dei consumatori italiani per i prodotti di marca (la marca è driver di scelta per il 70% degli acquirenti; dato doppio rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna) e alla crescente pressione promozionale che è stata la leva scelta da IDM e GDO per rispondere a una contrazione dei consumi perdurante da oramai troppi anni.

Al netto di questi dati (di fatto) ecco il secondo elemento che intendo evidenziare. Da un lato il posizionamento di prezzo medio delle private labels in Italia è di circa 22 punti inferiore rispetto alla marca industriale, mentre nella maggior parte degli altri mercati europei lo “spread” è decisamente più ampio (quasi il 40% in Francia dove si avvicina al posizionamento primo prezzo); dall’altro anche le private labels sono oggetto di spinta promozionale: per rispondere alla già citata crescente pressione promozionale messa in campo dall’IDM (in accordo con la GDO a essere onesti…) in Italia la pressione sulle private labels è arrivata al 23% (pesando per circa il 19% sul totale delle promozioni a valore).

private label 2015 bis

La domanda (certo non banale) è capire quale sia il ruolo che dovrebbero avere le private labels nell’ambito dell’assortimento e, più in generale, nella strategia commerciale (e di servizio) che l’operatore GDO propone ai propri Clienti.

Per quanto sia evidente come i prodotti a marchio privato abbiano avuto un’indubitabile funzione di aiuto alla marginalità- compressa da aumenti contrattuali, riduzione volumi e aumento pressione promozionale- e ai volumi di vendita in tempi di contrazione dei consumi, ritengo sinceramente che sarebbe assurdo limitarne a questi aspetti il reale potenziale.

A mio avviso infatti le private labels dovrebbero assurgere l’importante ruolo di metro attraverso il quale il consumatore legge e interpreta l’offerta di un’insegna, grazie a un posizionamento di prezzo stabile (non drogato e perturbato da più o meno occasionali attività promozionali) in grado di definire IL corretto rapporto qualità-prezzo all’interno delle singole categorie.

Uno ruolo centrale quindi all’interno della strategia commerciale e non certamente “ancellare” e di ripiego come spesso capita di leggere, quasi che le private labels fossero una riserva cui dedicare le residue risorse (economiche e professionali) delle proprie strutture manageriali. Infatti l’inserimento di prodotti a marchio privato nel proprio assortimento è parso quasi un passo obbligato, ma non ragionato, per tanti operatori, come se dovessero adattarsi (malvolentieri) a una nuova tendenza del mercato e a una nuova domanda dei consumatori. Un’approccio miope, che non ha saputo vedere tutte le opportunità connesse e che, verosimilmente, ne ha limitato anche i risultati conseguiti.

A mio avviso, infatti, quegli operatori che ora registrano quote di prodotti a marchio ben superiori alla citata media del 18% testimoniano invece quanto un corretto approccio a questo tema possa essere fonte di soddisfazioni e successi e di un forte patto coi propri Clienti.

In conclusione, ben lungi dal ritenere esaurita la crescita delle private labels, la realtà è che vi è ancora un forte spread tra la situazione attuale e le potenzialità di questo segmento: uno spread però che solo strategie intelligenti potranno colmare, a beneficio di volumi, margini (indi, conti economici) e di un sistema di piccoli/medi produttori (i co-packer) che sono un’incredibile risorsa della nostra Italia e che l’arroganza di tanta distribuzione (soprattutto straniera) rischierebbe di condannare all’oblio.

@danielecazzani