IL RETAIL E IL DECAMERON AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

DA MARKUP N.290

Nel XIV secolo Boccaccio scrisse il famoso Decameron: una raccolta di cento novelle che ruota attorno all’esperienza di dieci ragazzi e ragazze che per sfuggire la peste del 1348 si rifugiano nella campagna fiorentina occupando le giornate, tra le altre cose, raccontandosi storie ispirate ai loro tempi.

Le lunghe settimane di lockdown- durante la fase 1 della crisi coronavirus che possiamo paragonare, mi sia concesso, alla peste del ‘300- hanno costretto milioni di Italiani a casa; non sappiamo ancora se nei prossimi mesi e anni vedranno la luce opere di simile valore  😉 ma sappiamo quanto smartphone e social abbiano permesso a noi tutti di rimanere in contatto in tempo reale con amici e conoscenti pur lontani da noi.

Quel che sappiamo è che i retailer hanno avuto l’occasione di costruire rapporti e di dialogare coi propri clienti non per proporre un acquisto ma su altri asset, quali la condivisione di valori (tema tanto decantato negli ultimi anni), utilizzando quali canali i social network.

Dobbiamo però ammettere che in pochi casi questo sia avvenuto in modo efficace.

Molti retailer hanno preferito investire in (spesso) melensi e retorici spot televisivi, vuoti di significato e promesse, riducendo nel frattempo la capacità dei propri customer service di dare risposta a clienti spesso frastornati dai vari dpcm e alla ricerca di informazioni sull’apertura di un negozio piuttosto che sulla “sorte” di un proprio ordine online.

Invece mai come ora, coi propri negozi chiusi e i siti di e-commerce (laddove presenti) in tilt, vi sarebbe stata la necessità di aprirsi al dialogo, all’ascolto.

Chi ha avuto il coraggio di dialogare coi propri clienti ne trarrà beneficio per i mesi e anni a seguire: domani, più ancora che ieri, i clienti chiederanno ai retailer e ai brand di essere presenti non solo durante un’acquisto in negozio o online ma anche nella vita di tutti giorni.

 

@danielecazzani

IL PARADOSSO DEL CLIENTE-ICEBERG.

Viviamo nell’epoca dei BIGDATA eppure… Eppure in molti nel retail sembrano davvero non sapere cosa farsene.

Ogni anno le aziende investono MILIARDI DI EURO in pubblicità pensando di poter influenzare il COMPORTAMENTO D’ACQUISTO del cliente- ovvero determinare una scelta di nel breve o brevissimo termine- mentre in realtà altri sono gli strumenti che avrebbero a disposizione.

Il RETAIL, perennemente all’affannosa ricerca di NUOVI clienti, pare non capire di possedere già un enorme PATRIMONIO: i propri CLIENTI.

Conoscere oggi il comportamento del cliente è FACILE, quasi banale, almeno se pensiamo al comportamento transazionale in termini di numero, contenuto e frequenza di acquisto. In effetti di analisi RFM (Receny-Frequency-Monetary) si parla da molti anni ma spesso le sue risultanze restano segregate su qualche presentazione in powerpoint.

Ma proprio come un ICEBERG i retailers paiono spesso accontentarsi di quanto il cliente fa vedere solo in superficie: prendendo atto del comportamento i clienti vengono accuratamente clusterizzati, così facendo cristallizzandone lo status.

Prendere decisioni sul DOMANI utilizzando come base solo la quanto conosciamo del comportamento di IERI però presta il fianco a possibili errori e scelte sbagliate.

Facciamo un esempio. Ipotizziamo di suddividere i nostri clienti in 2 cluster: “member” e “top”. Questi ultimi sono caratterizzati da un maggiore volume di acquisti nel periodo considerato, e per questo considerati i “migliori” nostri clienti.

Ad essi pertanto riserviamo offerte più generose, con l’intento di coccolarli e farli sentire “speciali”.

Ma normalmente non ci chiediamo cosa li abbia resi “top”, per quale motivo ci abbiano scelto, quale elemento abbia influenzato le loro singole specifiche scelte d’acquisto.

Senza conoscere il PERCHE’ è difficile poter agire sul COME efficacemente mantenerli “top” o migliorare la fedeltà e il comportamento dei “member”.

Insomma, la sola analisi dei dati transazionali non è sufficiente per un’analisi corretta, perché risulta fondamentale conoscere le determinanti del COMPORTAMENTO del cliente.

Il Retail dovrebbe essere CURIOSO e indagare quanto sta sotto la superficie osservabile dell’iceberg/cliente.

Infatti, come ben sappiamo, la parte nascosta dell’ICEBERG è FONDAMENTALE per la sua statica e dinamica ed è RICCO di informazioni.

Un peccato non indagarlo. Un peccato mortale per quel Retail che ha la sensazione di subire l’omni-pervasività dei pure player dell’e-commerce.

Per fare questo servono investimenti nel CRM, nell’INTELLIGENZA ARTIFICIALE per costruire nuovi modelli di analisi della CUSTOMER EXPERIENCE.

Ma serve anche una nuova ORGANIZZAZIONE del Retail che metta al centro un nuovo MARKETING, più intelligente ed evoluto rispetto a quello odierno.

Una grande SFIDA su cui riflettere nel corso di questa calda estate.

@danielecazzani

Vetrine, vetrine delle mie brame… Il retail e lo specchio dei desideri del consumatore.

RIPRENDO ED ESTENDO L’ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI GIUGNO 2018 DI MARKUP

Raccontare. Emozionare. COINVOLGERE. Suggerire… Sono davvero molti i ruoli che possiamo assegnare alle VETRINE di un negozio.

Proprio per questo motivo le vetrine devono essere considerate come un vero e proprio MEDIA.

Nonostante questo potenziale, la  sensazione è che però molti retailer non sappiano bene come gestire questi spazi: basta fare due passi nelle vie di una città o in un centro commerciale per capire come spesso a vincere sia l’improvvisazione, la standardizzazione o, peggio ancora, la BANALITÀ.

Eppure come detto si tratta di TOUCHPOINT fondamentale; le vetrine sono la prima calamita in grado di attrarre anche il consumatore distratto dallo schermo del proprio smartphone. In un’epoca caratterizzata da eccesso (e talvolta appiattimento) di offerta sono davvero pochi i secondi (e i metri) a disposizione del retail per CATTURARE il potenziale consumatore.

Nonostante sia evidente quanto siano fondamentali la LEGGIBILITÀ dell’offerta e del messaggio, spesso le vetrine sono invece gestite come repository per una gran quantità di prodotti, quasi si volesse condensare in pochi metri tutta la propria offerta, spinti da un assurdo “horror vacui” che porta a saturare tutti gli spazi.

Altrettanto importante è la COERENZA tra la vetrina e il negozio. La promessa, il racconto, non devono essere smentite appena varcate le soglie d’ingresso; eppure spesso la sensazione è proprio questa, come se vetrina e negozio fossero gestite da aziende diverse (per capirne il motivo basterebbe guardare agli organigrammi interni di tanti retailer… e vedere la frattura tra la funzione che si occupa del visual e le altre funzioni del marketing in primis).

L’altra tendenza è quella di digitalizzare questi spazi, dotandoli di tecnologie di digital signage con moderni schermi led. Quest’ultima moda, che sembra interpretare le vetrine quali grandi TELEVISORI, non tiene conto del tipo di engagement possibile per un consumatore in transito lungo una via o un mall, e non certo comodamente seduto su un divano…

Si tratta di un ERRORE già fatto con gli schermi degli smartphone impropriamente considerati come mini-televisori. In quel caso ciò che non si considera è che i contenuti devono essere personalizzati per essere rilevanti su un mobile device; nel caso delle vetrine invece va considerata la modalità di fruizione di un video (spesso senza audio) da parte di un consumatore poco disponibile a sincronizzare il proprio orologio con uno spot (soprattutto senza avere con sè l’amato TELECOMANDO). 

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Permettetemi ora una provocazione. E se la miglior vetrina fosse una NON VETRINA?

Gli Apple Store ad esempio presentano vetrine senza prodotto. Quello che viene raccontato però è l’ESPERIENZA del cliente all’interno dello store.

Un racconto potente, in grado di ingaggiare il consumatore e invitarlo all’interno del negozio per unirsi alla community degli appassionati di Apple…

Certo un caso che pare limite vista la forza del prodotto Apple, ma uno spunto per tanti retailers alla ricerca di un’identità per le proprie vetrine.

In conclusione se le vetrine vogliono trasformarsi in un efficace specchio dei DESIDERI del consumatore è quanto mai necessario ripensarle trasformandole da cenerentole del marketing a splendide principesse (e perdonate questa confusione di fiabe 😉)

 

@danielecazzani

Dinosauri, scarafaggi e… brutti anatroccoli. Il futuro delle agenzie pubblicitarie (e del retail).

È indubbio che il panorama del mercato pubblicitario si sia fortemente modificato negli ultimi anni, principalmente per l’avanzata dell’ADVERTISING DIGITALE e l’ingresso di nuovi e “anomali” PLAYERS quali Facebook, Google piuttosto che nuovi STRUMENTI di pianificazione e gestione delle campagne.

Di fronte a quello che in molti commentatori- spesso soliti alle esagerazioni- hanno descritto come un “cataclisma epocale” (quasi il concetto di evoluzione non dovesse appartenere ai mercati…) la reazione delle grandi agenzie pubblicitarie- WPP, Omnicom, Publicis ecc- dopo un iniziale RIGETTO e rifiuto del nuovo, si è concretizzato in un grande processo di consolidamento caratterizzato da fusioni e acquisizioni, che ha potuto beneficiare di una forte crescita del settore (grazie allo sviluppo di nuovi mercati) che in qualche modo ha ridotto lo shock evolutivo.

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Ottimizzare i costi fissi, INTEGRARE in strutture con l’allure nostalgica da “mad men” l’energia di giovani START-UP e il know how di piccole e dinamiche agenzie, è stata una risposta efficace nel breve periodo che ha permesso alle grandi di schivare il destino da “media DINOSAURI” e confermarsi ancora una volta come resistenti “SCARAFAGGI”, in grado di sopravvivere alle più nefaste previsioni [vedere nota in calce all’articolo]

Le nuove tecnologie e i nuovi media hanno cambiato i paradigmi del settore (e in parte i suoi attori) ma il ruolo della pubblicità resta da sempre lo stesso: CONNETTERE brand e consumatori attraverso un racconto, un bridge valoriale e di contenuti.

Pensiamo ai grandi brand che si sono affermati negli ultimi anni. Amazon, Google, Netflix devono il loro successo certamente a molti fattori, tra i quali però la pubblicità (classicamente intesa) non riveste certo il ruolo principale…

Le grandi multinazionali hanno ottimizzato i BUDGET pubblicitari e in parte portato al proprio interno alcune delle funzioni prima svolte dalle agenzie, quali ad esempio il media buying.

Se WPP e le altre big non capiranno come il sistema sia ben lungi dall’essersi assestato illudendosi di essere al riparo dalla tempesta è allora probabile che i prossimi anni siano segnati ancora da nuove delusioni.

Per le grandi agenzie la priorità è rendere più rapide e SMART le proprie strutture (snellendo organigrammi di accounting spesso paragonabili a BUROCRAZIE ministeriali) e soprattutto riscoprire e imparare a lavorare non più con comodi e sontuosi FEE (che potremmo dire hanno spesso lo stesso effetto dei matrimoni sulla passione…) ma per PROGETTI (con revenue variabili in base ai risultati, ancora oggi quasi una blasfemia il solo pensarlo…) e tornando a investire tempo e risorse per CAPIRE davvero il prodotto e la brand strategy del Cliente. Si eviterebbero così le tante pubblicità “copia e incolla” che infestano i media…

D’altro canto le aziende hanno l’opportunità di riprendersi il destino dei propri brand senza confidare in salvifici ruoli di agenzie in grado di trasformare un BRUTTO ANATROCCOLO (un prodotto senza “quid” e mercato per intenderci) in un successo.

Per intraprendere con ancora più convinzione questa strada le aziende hanno però la necessità di costruire al proprio interno nuove professionalità in grado di dialogare efficacemente con le agenzie pubblicitarie- senza sindromi da “sudditanza psicologica” verso art director, copywriter & c.- e (penso qui in primi alle aziende RETAIL) attingendo a quell’incredibile PATRIMONIO di informazioni che è dato dal proprio CUSTOMER DATABASE e lavorando in stretta sinergia con un moderno CRM.

Un grande CHALLENGE per tutti!

@danielecazzani

NOTA FINALE

La citazione su dinosauri e scarafaggi prende spunto da una frase attribuita a Rishad Tobaccowala (Chief Growth Officer di Publcis) e ripresa un un recente articolo dell’Economist:

“Everybody says that we’re dinosaurs but we’re not. We’re cockroaches. We know how to scurry around, we hide out in the corner, we figure out where the food is, we reconstitute ourselves.”

Emotional Mall: il futuro del centri commerciali è nelle emozioni

DI SEGUITO LA “EXTENDED VERSION” DEL MIO ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI FEBBRAIO DI MARKUP articolo MarkUp feb 2018

L’apertura de Il Centro di Arese nel 2016, la più recente inaugurazione di CityLife Shopping District a Milano e importanti progetti di prossima realizzazione quale Westfield Segrate, dimostrano come il mercato dei centri commerciali sia decisamente florido- pronto ad attrarre sempre più investimenti stranieri e a cogliere le opportunità di sviluppo insite nelle tante aree urbane da riqualificare qua e là in Italia- nonostante in molti negli scorsi anni ne avessero preannunciato una irreversibile crisi.

E’ pur vero che, come contraltare, si possano annoverare numerose strutture che sono oramai in piena crisi, ma si tratta soprattutto di centri realizzati negli anni Novanta, di piccole e medie dimensioni, extra-urbani e con un’offerta commerciale limitata.

In realtà non avremmo di che stupirci che un settore che per anni ha vissuto per anni solo su logiche di stampo immobiliare (molto più raramente commerciali) stia vivendo un momento di passaggio e di crisi (dal greco krisis ovvero scelta, decisione): si tratta di un fatto fisiologico e la circostanza che avvenga in anni di profondo cambiamento nelle abitudini di consumo rende l’occasione quanto mai propizia per chiedersi quali siano le opportunità da cogliere e le sfide da vincere per un settore che dovrà sempre più competere con l’e-commerce e i moderni e-mall.

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Partendo da queste premesse, gli operatori del settore dovrebbero a mio avviso focalizzarsi su tre elementi:

  • La bellezza delle emozioni. I nuovi centri commerciali non dovranno più solo essere contenitori razionali e funzionali di una proposta commerciale, di “cose”, ma luoghi del bello e del piacevole, con spazi “inutili” che possano essere riempiti di contenuti dai clienti, aperti a iniziative di terzi, con logiche bottom-up.

  • L’identità nel marketing. Diciamocelo: i centri commerciali sono spesso una summa di attività commerciali, e difficilmente sono stati in grado di costruire una propria “personalità”. Serve un ruolo diverso del marketing per queste strutture: non più coordinatore di iniziative terze e non più gestore di profili social che fungono, anche qui, da vetrina per gli operatori del mall, ma attore forte e autorevole. Il marketing infatti, ha la possibilità di svolgere un ruolo di aggregatore di dati e informazioni per delineare il profilo del proprio Cliente e attorno a questo costruire non un mero palinsesto non di eventi (la pista di pattinaggio a Natale…) ma una proposta di servizi e di valore che sarà poi il singolo cliente a ritagliare sui propri desiderata.

  • Il dialogo col territorio. In ambito agricolo ed alimentare, FICO a Bologna esaspera questo concetto (visto che lì, il “territorio” è l’Italia intera) ma è indubbio che i centri commerciali- esaurito l’effetto food court quale elemento differenziante e caratterizzante la propria offerta- abbiano una grande chance di guardare ai territori per individuare eccellenze nell’offerta (non solo food, sia beninteso) da inglobare e valorizzare al proprio interno. Il centro commerciale può essereinfatti una potente vetrina dei territori, un hub di eccellenze, riuscendo così a proporre un mix merceologico (ed esperienziale, aggiungo) davvero unico evitando il rischio copy&paste sempre più presente (chi non provato la sensazione che i centri commerciali, e spesso i centri città, siano deboli sfumature della medesima offerta?).

Nel mercato italiano l’e-commerce è certamente in crescita ma è ancora poca cosa rispetto ad altri Paesi, quindi gli shopping center fisici hanno poco da piangere e molto da fare… La sfida insomma è aperta.

Resta solo da capire chi vorrà e saprà coglierla per contrapporre ai moderni e-mall i nuovi… emotional mall.

@danielecazzani

#MDD: UN VOLANO PER LE ECCELLENZE #AGROALIMENTARI DEL #MADEINITALY

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L’Italia da anni si conferma come il Paese europeo col maggior numero di prodotti certificati DOP, DOC e SGT, arrivati alla ragguardevole cifra di 814. Questo dato conferma la ricchezza e la pluralità della nostra produzione agroalimentare che è parte importante dell’export madeinitaly nel mondo- con una quota del 21% sulle esportazioni agroalimentari- che continua a segnare importanti tassi di crescita (poco meno del 10% nell’ultimo anno) come evidenziato dall’ultimo rapporto Ismea Qualivita (www.qualivita.it)

L’importanza di queste produzioni si conferma anche sulla tavola degli italiani che dimostrano di apprezzare i prodotti certificati, con una leggera crescita dei consumi che va comunque integrata in un contesto di mercato di generale compressione degli acquisti food.

Se quel che serve per migliorare ancora l’export- ricordiamoci infatti che pur potendo vantare cifre in crescita l’export food & wine tricolore è di gran lunga inferiore ai risultati della Germania, il che è tutto dire…- è la capacità di fare sistema e promozione all’estero, attivando efficaci canali retail (non dimenticandoci che anche l’e-commerce potrà aiutare questa crescita), sul fronte interno certamente vi sono ampi margini di manovra per quanto concerne la comunicazione e il marketing di questi prodotti.

Di per sé le sigle DOP, DOC e SGT si basano su disciplinari di produzione alquanto rigidi e importanti, con rigorose filiere di controllo, ma di tutto questo, spesso, ben poco arriva al consumatore.

E’ come se questi prodotti- e chi li distribuisce- si accontentasse di dire al consumatore “accontentati del marchio, al resto abbiamo già pensato noi”.

Credo invece che viviamo un’epoca in cui il consumatore/cliente pretende (e premia) la trasparenza, l’apertura, il racconto.

Ma questo aspetto spesso si scontra con la pulviscolare realtà dei produttori– fatta di piccole realtà che non hanno forza di entrare in contatto col consumatore- e con consorzi di tutela spesso bravi nella gestione della filiera interna, ma poco aperti ed efficaci verso l’esterno, verso il consumatore (penso ad alcune imbarazzanti pubblicità del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano, due autentici monstre del nostro panorama agroalimentare, che in trenta secondi con scelte comunicative quanto meno discutibili hanno banalizzato secoli di storia…).

In questo contesto ritengo che la Distribuzione possa svolgere un ruolo importante per lo sviluppo del mercato interno, attraverso la leva dei propri prodotti mdd.

I dati recentemente diffusi a Marca, hanno infatti evidenziato una crescita dei prodotti premium, all’interno dei quali un ruolo importante lo giocano- oltre ai prodotti bio e ai nuovi prodotti “con” e “senza”- i prodotti certificati.

Per questo motivo sono confidente che la Distribuzione attraverso il volano dei propri prodotti a marchio possa ancora di più avvicinare il consumatore/cliente ai prodotti DOP, DOC e SGT, presentandoli, valorizzandoli, promozionandoli e raccontandoli non uno per uno, ma all’interno di una strategia più ampia che sia in grado di valorizzarne l’effetto corale dell’offerta, non il singolo attore/prodotto.

Il brand MDD diverrebbe così l’ombrello sotto il quale ricomprendere una serie di prodotti di per sé unbranded, conferendo loro identità e riconoscibilità. La “firma” del distributore diverrebbe inoltre un ulteriore elemento di garanzia agli occhi del consumatore/cliente.

Nel contempo la Distribuzione dovrebbe, potrebbe, aiutare i consorzi a scendere dallo scranno per andare verso il consumatore/cliente aprendo le porte dei produttori, facendo conoscere cosa si cela dietro un marchio, anche sorpassando la retorica fine a se stessa del madeinitaly (cosa ne sarebbe ad esempio del nostro latte madeinitaly senza la forte presenza di comunità sikh nella pianura padana?) in uno sforzo di trasparenza certamente non facile, ma oggi quantomai necessario.

Infine, lo sviluppo del prodotti certificati significa anche sviluppo dei territori e tutela delle competenze, delle storie e delle professionalità che sono alla base di quelle eccellenze che siamo tutti bravi a lodare ma di cui spesso ignoriamo le basi.

Una motivazione in più per quella parte della Distribuzione che senta l’appartenenza ai territori come elemento fondante del suo essere azienda sociale.

Si tratta a mio avviso di una sfida importante per tutto il nostro Paese e in particolare per la ricca filiera agroalimentare di qualità, che parte della Distribuzione ha già saputo cogliere (penso a IlViaggiatorGoloso di Unes U2 e a Sapori&Dintorni di Conad) e che, ne sono certo, saprà premiare chi avrà il coraggio di affrontarla.

@danielecazzani

Il mercato dei #media e della #pubblicità (tra #Sanremo, #giornali e #web)

La crescita del mercato pubblicitario registrata da Nielsen (vedere grafico sotto riportato) è un segno che va accolto con positività perché può contribuire a sostenere i consumi ed è indice di una ripresa di fiducia (perlomeno da parte degli inserzionisti).

Ma più che sul numero macro mi interessa porre l’attenzione sul peso dei diversi media.

In primis non si può non sottolineare che, per quanto data come sulla via del tramonto da anni, la cara vecchia TV continui ad essere il media pubblicitario per eccellenza con un peso superiore al 60%.

A ben guardare questo dato è spiegabile col fatto che non si tratta più (o solo) della “cara vecchia TV”: infatti l’offerta è aumentata tra canali digitali terrestri, satellitari, on demand e web. Un’offerta più ricca di canali e contenuti in grado di segmentare ancora meglio i target e offrire così all’Industria e alle agenzie pubblicitarie nuove opportunità.

Queste ultime paiono però in crisi di identità: forse a causa del deserto che hanno attraversato negli ultimi anni- con ristrutturazioni e fusioni che spesso hanno disperso know how, idee e talenti- mi sento di dire che la qualità media degli spot TV sia diminuita. Le campagne memorabili si contano sulle dita di una mano e l’utilizzo di vecchie meccaniche (pensiamo al frequente e indiscriminato ricorso al testimonial/endorser) dimostra pigrizia e scarsa voglia di rischiare e innovare linguaggi (anche da parte dei clienti a onore del vero).

Sull’altro versante il digital, per anni osannato come il media del futuro, arranca. In questo caso il mito della misurabilità e le accresciute possibilità tecniche hanno finito per offuscare idee e capacità progettuali facendo sì che molti utilizzassero il web e il social (soprattutto nel mobile) come una nuova TV dimostrando così di non avere colto le peculiarità dei nuovi media.

Infine la carta stampata: un residuo ottocentesco nel mondo dei media per organizzazione dell’offerta e capacità di innovarsi. Un moloc autoreferenziale sulla via del tramonto (anche per lettori) e qualitativamente sempre peggiore (avete presenti certe campagne di adv con scatti di prestigiosi fotografi, letteralmente umiliate da una qualità di stampa imbarazzante?) che si è spesso buttato sul web con la stessa convinzione di un uomo che bevendo voglia dimenticare la realtà. Il risultato è quello di una risveglio doloroso e coi conti in rosso…

La radio resiste e continua a raccogliere consenso per la capacità di parlare in modo agile con diversi target e a costi tutto sommato contenuti.

Non ci resta che attendere i prossimi dati ma non vi sono elementi che facciano ipotizzare sconvolgimenti in queste classifiche.

Dopo tutto questa è la settima del Festival  di Sanremo- il Superbowl nostrano come amo definirlo- che fa fermare le macchine a tutti gli altri canali TV e raccoglie pubblicità come il vecchio Carosello. Quale esempio migliore per dimostrare che in realtà nel mercato pubblicitario tutto cambia affinché nulla cambi?
@danielecazzani

#Occhiali duepuntozero: un nuovo #marketing per il #retail dell’occhiale

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Riprendo con piacere un mio vecchio articolo di quasi quattro anni fa (era il lontano 12 marzo 2013…) in cui parlavo del retail nel settore dell’ottica, visto che il mio percorso professionale mi ha portato oggi a lavorare proprio nell’azienda leader di questo settore in Italia, e da poco entrata a far parte del più grande gruppo mondiale del settore.

Certo, rispetto al momento della prima redazione, le premesse sono fortunatamente cambiate- il mercato non è in sofferenza e la maggiore forza del retail ha permesso a molti operatori di coglierne le tante opportunità di crescita- ma restano forti i margini per un ulteriore crescita in un mercato estremamente frammentato, in cui l’integrazione verticale dalla produzione al consumatore pare essere oramai strada segnata (per chi avrà forza e capacità per percorrerla) con strategie che vedano al centro il cliente e i suoi bisogni.

Proprio perché convinto degli spunti allora proposti, ho deciso di riproporre oggi quell’articolo- scritto allora, lo ammetto, da outsider rispetto al settore- senza ritoccarne nemmeno una parola per quanto alcune delle semplificazioni (in parte obbligate per lo spazio a disposizione) oggi, mi rendo conto, potrebbero sembrare fin troppo forzate…

Ecco l’articolo.

 

I retailers del settore dell’occhialeria stanno registrando performances negative sia in termini di volumi che di valore- sia nel comparto “vista” che “sole”- in funzione di due tendenze:

  1. nel comparto delle montature, un aumento dell’incidenza degli home brands a danno della quota dei luxury brands, e
  2. un allungamento del tempi di sostituzione degli occhiali (oramai superiore ai 3 anni).

Mi permetto di semplificare il contesto (evitando fini distinzioni tra lenti e montature, tra occhiali e lenti a contatto, e via dicendo) ed evidenziare quelli che a mio avviso sono due forti elementi di debolezza:

  1. la indistintività dell’offerta commerciale tra le diverse insegne, e la conseguente forte dipendenza dall’industria dell’occhiale che, come sappiamo, è fortemente concentrata nelle mani di alcuni players nazionali;
  2. l’aumento della pressione promozionale per sostenere i volumi di vendita.

In merito al primo punto, non vi è dubbio che gli aspetti della moda e del brand siano ancora molto forti, visto che per molti consumatori l’occhiale è un accessorio fortemente personale, che parla dello stile o del modo di essere di chi lo indossa: anche gli occhiali da vista infatti da mero strumento correttivo di difetti oculistici, sono oramai divenuti uno shopping goods. Tale considerazione è ancor più valida nell’ambito degli occhiali da sole, ove l’acquisto presenta caratteri più impulsivi e la comunicazione pubblicitaria riveste un ruolo ancora più importante.

Ma se davvero l’acquisto di un occhiale branded è per il consumatore un modo per entrare nel mondo dei luxury goods, mi chiedo, provocatoriamente, per quale motivo i retailers non investano nella shopping experience del cliente, che risulta invece estremamente povera e indistinta nelle principali catene. Senza con questo negare la componente “tecnica” e “medicale” del mondo dell’occhiale, i negozi dovrebbe superare l’aspetto normalmente freddo e ambulatoriale, ispirandosi a brand del settore moda: l’acquisto di un occhiale (correttivo o meno che sia) potrebbe essere decisamente più emozionale, vivace, interessante, sociale. Per fare questo i retailers dovrebbero iniziare dall’analisi della shopping journey del cliente multicanale e disegnare percorsi flessibili di avvicinamento al punto vendita fisico, con servizi di personalizzazione delle offerte, ed enfatizzando la componente social (condivisione) dell’acquisto.

Anche gli assortimenti dovrebbero essere più narrati e meno caotici: per quanto alcuni negozi abbiano provato ad organizzare l’offerta inventandosi cluster sinceramente opinabili (penso alla suddivisione in “stile”, “eleganza”, “colori” e via dicendo di uno dei leader del settore) la sensazione che vive il cliente è quella spesso dello spaesamento e dell’eccesso di offerta, che, come insegna il Prof.Lugli dell’Università di Parma in altri contesti, può portare alla paralisi, e all’ansia (e quindi al non consumo). E’ prioritario migliorare la rappresentazione della scelta.

Pensiamo anche al mondo junior: un altro target cui molti retailers paiono assolutamente indifferenti, mentre molto si potrebbe fare per rendere meno “traumatica” l’esperienza di acquisto per un bambino “costretto” a utilizzare fin da piccolo gli odiati occhiali, e minimizzare la sindrome “Quattrocchi”. Potrebbe divenire un elemento di distinzione per il primo player che vi si applicasse con interesse e intelligenza.

Venendo al secondo punto il rischio è che- come già capitato nella GDO- il progressivo aumento della pressione promozionale porti non tanto a un incremento dei volumi e dei valori, ma a una riduzione dei margini (per tutta la filiera) e a un’alterazione del comportamento d’acquisto dei clienti, trasformati sempre più in soggetti price sensitive, con l’effetto di vanificare gli interventi effettuati sul primo punto.
Almeno finché con un’azione di lobbying gli attori del settore non riusciranno ad imporre una regolamentazione che  preveda un “tagliando” obbligatorio ai propri occhiali correttivi (per quanto gli italiani paiano non prestare molta attenzione alla cura delle proprie lenti, dobbiamo sempre ricordare che si tratta di presidi medici) così da ridurre i tempi di sostituzione (almeno) delle lenti, ritengo che la strada obbligata sia quella di lavorare sugli assortimenti (e la loro architettura e narrazione) e sulla costruzione di una shopping experience più appagante e distintiva, che parta da un ridisegno fisico del punto vendita e da un salto di qualità nel marketing (anche sul fronte della relazione e fidelizzazione del cliente).

Daniele Cazzani @danielecazzani

Una strategia #disruptive per il #turismo in #Italia: dall’abolizione del #Mibact a un moderno #crm

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Il turismo può essere una formidabile opportunità di crescita e sviluppo economico per il nostro Paese, nonché uno strumento di valorizzazione delle nostre eccellenze e tradizioni.

Da anni sentiamo ripetere come un mantra questa frase, ma pur a fronte di un mercato del turismo mondiale in continua crescita (oltre il 4% nel 2015) grazie all’aumento di nuovi turisti (pensiamo ai cinesi) e nel quale l’Europa continua ad assorbire oltre il 50% del traffico, l’Italia sembra non essere ancora in grado di cogliere questa opportunità, trovandosi dietro altri Paesi europei per flusso turistici; e questo nonostante numerose ricerche mondiali la indichino come uno dei luoghi più desiderati e ambiti per le proprie vacanze.

I dati che seguono (fonte UNWTO) fotografano bene la situazione.

Top 10 destinazioni del turismo internazionale

Arrivi internazionali (milioni)

Introiti (miliardi di US$)

var. % moneta locale

graduatoria 2015

2014

2015

var. %

graduatoria 2015

2014

2015

1 Francia

83,7

84,5

0,9

1 USA

177,2

178,3

0,6

2 USA

75,0

n.d.

n.d.

2 Cina

105,4

114,1

8,3

3 Spagna

64,9

68,2

5,0

3 Spagna

65,1

56,5

4,0

4 Cina

55,6

56,9

2,3

4 Francia

57,4

45,9

-5,4

5 Italia

48,6

50,7

4,4

5 Thailandia

38,4

44,6

22,0

6 Turchia

39,8

n.d.

n.d.

6 Regno Unito

46,6

42,4

-2,0

7 Germania

33,0

35,0

6,0

7 Italia

50,5

39,4

3,8

8 Regno Unito

32,6

n.d.

n.d.

8 Germania

43,3

36,9

1,9

9 Messico

29,3

32,1

9,5

9 Hong Kong (Cina)

38,4

35,9

-6,6

10 Russia

29,8

31,3

5,0

10 Macao (Cina)

42,6

31,3

-26,5

Fonti: UNWTO World Tourism Barometer, vol.14 – July 2016

A fronte di un 2015 che ha registrato una crescita del turismo nel nostro Paese (grazie anche all’effetto Expo), il primo semestre del 2016 evidenzia purtroppo un segno negativo (-3,3% arrivi, -1,3% presenze) secondo i dati diffusi dall’Enit.

Un segno non positivo che cozza con le parole di ottimismo che sentiamo spesso spendere sulle magnifiche sorti e progressive che attenderebbero il turismo per il nostro Paese.

La composizione dei turisti (dati Istat) per provenienza fotografa inoltre come buona parte dei turisti in Italia sia costituita da cittadini europei (un’utile riflessione per i detrattori della moneta unica) ma allo stesso tempo evidenzia la potenzialità costituita da Paesi quali Cina il cui numero di turisti sta rapidamente aumentando, grazie alla crescita delle economie domestiche.

I principali 15 mercati di provenienza (in ordine decrescente di arrivi 2015)

 

2015

Variazioni % 2014/2015

Quota % su totale 2015

Rank

Paesi

Arrivi

Presenze

Arrivi

Presenze

Arrivi

Presenze

1

Germania

10.858.540

53.294967

3,1

1,4

20,4

28,1

2

Stati Uniti

4.531.141

11.657.085

-4,2

-3,1

9,2

6,4

3

Francia

4.331.623

13.010.397

11,0

9,5

7,6

6,4

4

Cina

3.338.040

5.378.298

45,3

54,5

4,4

1,9

5

Regno Unito

3.316.921

12.482.716

6,7

5,2

6,0

6,4

6

Svizzera

2.691.106

10.046.878

12,0

7,8

4,7

5,0

7

Austria

2.320.615

8.807.043

4,9

2,2

4,3

4,6

8

Paesi Bassi

1.941.555

10.218.449

1,4

-3,1

3,7

5,6

9

Spagna

1.779.258

4.582.106

3,9

-3,1

3,3

2,5

10

Polonia

1.203.526

4.688.076

8,9

8,5

2,1

2,3

11

Russia

1.194.656

4.417.359

-33,1

-35,2

3,5

3,7

12

Belgio

1.177.933

4.749.500

5,3

1,4

2,2

2,5

13

Giappone

1.109.491

2.303.854

-15,3

-10,7

2,5

1,4

14

Australia

906.224

2.428.671

4,6

7,5

1,7

1,2

15

Brasile

872.736

2.196.001

14,4

16,9

1,5

1,0

Fonte: Istat

In questo contesto di chiaroscuri (crescita del turismo mondiale, ma nostra difficoltà nel coglierne le opportunità) sono numerosi i motivi che possono spiegare il ritardo italiano, e sarebbe troppo impegnativo volerli citare tutti.

Tra i più citati vi è la mancanza di infrastrutture.

Si tratta certamente di un deficit che rallenta tanti settori, ma nel caso del turismo, una delle risposta che si è voluta dare, ovvero la moltiplicazione di aeroporti a livello provinciale- con fisiologici conti in profondo rosso e mantenuti in vita solo grazie ai generosi contributi dei soci pubblici- ha dimostrato la profonda ignoranza dei fondamentali del turismo e una inversamente proporzionale conoscenza della gestione dei rapporti politici locali.

Rapporti che vedono come attori una pluralità di soggetti che si occupano di promozione turistica. E questa pluralità costituisce un altro minus del nostro sistema. Facciamone un elenco (certamente non esaustivo):

  • Ministero del Turismo

  • Regione

  • Provincia (o città metropolitane)

  • Camera di Commercio

  • Coldiretti

  • Federalberghi

  • Confesercenti

  • Ascom

  • Unione Agricoltori

  • Università

  • Aziende agrituristiche e relative associazioni

  • Sistemi museali

  • Comunità Montane

  • Associazioni e Consorzi per la promozione di prodotti tipici del territorio

  • Associazione Albergatori

  • Aziende agroalimentari e vinicole

  • e via elencando…

Una moltitudine di soggetti il cui effetto è un cacofonico insieme di iniziative ed eventi spesso non in grado di andare oltre i confini del territorio in cui nascono, senza raggiungere alcun target di potenziali turisti.

Ma se questa è una (opinabilissima e rapidissima) diagnosi, quale potrebbe essere la cura?

Una cura disruptive che abbia il coraggio di cambiare l’approccio al mercato, sia sul lato degli attori, che delle strategie che dovranno essere centrate sul nuovo concetto di turista/ospite.

Iniziamo dall’abolizione del Ministero dei Beni Artistici e Culturali e del Turismo. Che il turismo debba essere abbinato alla tutela dei beni culturali rappresenta una visione limitata, vecchia del turismo. Il turismo non è solo beni culturali; è turismo d’affari, è turismo d’eventi, è turismo enogastronomico ecc.

Serve un nuovo attore, più snello che funga da playmaker nel settore, da facilitatore di connessioni tra gli altri attori in campo, allocando risorse laddove si sappiano costruire network tra enti pubblici e soggetti privati, con la stessa logica che ha dimostrato l’efficacia, in ambito industriale, dei distretti.

Al nostro Paese non servono nuovi loghi o portali turistici il cui unico effetto è arricchire le agenzie che li studiano e progettano, ma che non hanno la forza di divenire brand o raggiungere i clienti finali.

E’ invece necessario prendere atto che la disintermediazione messa in atto dai consumatori alla ricerca del prodotto turistico (pensiamo all’incredibile sviluppo dell’e-commerce in tale ambito) ha cambiato del tutto il paradigma del settore.

Nell’era di Netflix è sempre più il consumatore a costruirsi il proprio palinsesto esperienziale, pertanto perdono di efficacia i pacchetti prefabbricati, mentre diventa fondamentale presidiare tutti i touchpoint che compongono la shopping journey del turista.

L’Italia all’estero non è rappresentata tanto da un buon catalogo turistico, quanto dai propri prodotti (da qui la centralità della tutela del madeinitaly), e da touchpoint esperienziali che possono essere una mostra di pittura, piuttosto che la sede di Eataly a NewYork…

Allo stesso modo deve essere centrale la figura del turista/ospite.

I dati che seguono (elaborazione Enit sui dati della Banca d’Italia) dimostrano che la spesa media giornaliera dei turisti in Italia è superiore a quella degli altri Paesi europei, che invece inseguiamo in termini di traffico.

turismo

Insomma, dobbiamo aumentare il volume dei turisti non certo la nostra capacità di spremerli…

Per questo è fondamentale integrare nelle politiche turistiche un moderno approccio di customer relationship management, che parta innanzi tutto da una conoscenza di chi sia il turista, mettendo a comun denominatore i diversi database e agevolando la condivisione dei dati.

Una volta definitone il profilo, altro obiettivo dovrà essere quello di massimizzare la qualità della journey experience, costruendo metriche che ne misurino la soddisfazione in base a parametri qualitativi e quantitativi.

Poco sopra ho parlato di turista/ospite, non di turista/cliente. Quella che a prima vista potrebbe sembrare un banale distinguo lessicale, nasconde invece una profonda differenza.

Il concetto di ospite prevede un rapporto paritario tra chi ospita e chi viene ospitato.

L’obiettivo primario in questo contesto deve essere quello della retention per mantenere e rafforzare la base di turisti/ospiti, massimizzandone la soddisfazione così che possano essere a loro volta i migliori sponsor dell’Italia una volta rientrati nei propri Paesi.

Mentre sul lato dell’acquisition le risorse devono essere investite per fare in modo di presidiare in modo coerente ed efficace tutti i touchpoint, come sopra accennato.

Come detto non ho certamente toccato tutti i punti critici della nostra attuale offerta turistica, ma il mio obiettivo (forse fin troppo ambizioso) era solo quello di attivare una riflessione su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

E’ certamente più difficile il nuovo contesto del turismo, ma ritirarsi dalla sfida sarebbe il modo migliore per perdere l’ennesima grande opportunità per un Paese, il nostro, alla ricerca del proprio futuro e che dovrebbe trovare la forza di guardare con meno nostalgia e compiacenza al proprio passato, concentrando forze ed energie sulle sfide dell’oggi e del domani.

@danielecazzani

NOTA FINALE

Parte di questo articolo nasce dalla rilettura di un mio progetto del 2013 sottoposto all’allora Presidente della Camera di Commercio di Pavia, e rimasto inerte in qualche cassetto, mentre una commissione istituita ad hoc studiava le migliori azioni da intraprendere per sfruttare il volano di Expo2015 per lo sviluppo del turismo in una delle province (da questo punto di vista) più arretrate del Nord Italia. E’ inutile dire che Expo2015 è passato e di quelle azioni non se ne è avuta notizia…

Il paradigma #Netflix e una nuova #loyalty per la #GDO

L’arrivo di Netflix nel nostro Paese rischia, dicono gli esperti, di cambiare il panorama della televisione. Una sorte analoga potrebbe capitare alla GDO. Vediamo come e perché.

Per anni infatti la nostra vita domestica è stata scandita dal ritmo definito dalla televisione: a tavola alle otto per vedere il tg della sera; tutti sul divano alle nove per vedere insieme il film; domenica pomeriggio tutti incollati per seguire i risultati delle partite con la schedina in mano; e via dicendo.

Il palinsesto era fisso. Uguale per tutti. Immodificabile.

Baumgardner_c1958_Family_in_front_of_TV_set

Lo sviluppo del panorama televisivo ha portato poi alla moltiplicazione dei canali tv: pensiamo alla tv satellitare e digitale coi suoi innumerevoli canali tematici che si rivolgono non più alla massa di telespettatori ma, di volta in volta, agli appassionati di avventura, cucina, arte, sport…

Così facendo l’audience dei singoli canali si è certamente ridotta in termini assoluti, ma gli investitori pubblicitari hanno avuto la possibilità di mirare messaggi su target più definiti (e selezionabili).

Oggi però le nuove tecnologie permettono a ognuno di noi di costruirsi il proprio palinsesto personale. La diffusione del mobile poi ci permette di costruirlo e di fruirne ovunque.

Il prossimo arrivo di Netflix da questo punto di vista non è che l’ultimo passo di un percorso che si preannuncia ancor lungo e ricco di novità.

Fin qui però sembriamo fuori argomento, avendo parlato solo di televisione. Passiamo quindi alla GDO.

C’è un motivo per cui dovremmo pensare che la libertà che le persone hanno conquistato (o, meglio, scoperto) in questo ambito non sia estendibile ad altri comparti, ad altri momenti della giornata, come ad esempio la spesa?

Pensando alla prima televisione, quella col palinsesto unico, viene automatico un parallelo col palinsesto promozionale della GDO, composto da volantini rivolti a tutti i consumatori, con contenuti e date fisse. Tanto per fare alcuni esempi, a tanti sarà capitato di ricevere nella cassetta postale un volantino con offerte per il fai da te pur essendo però assolutamente incapaci di piantare anche un solo chiodo; oppure ricevere un volantino dedicato all’infanzia, peccato che i propri figli siano già all’università…

Negli anni la GDO ha sviluppato programmi di loyalty che attraverso la lettura e l’analisi dei dati relativi al comportamento d’acquisto dei Clienti, hanno permesso di raggruppare i Clienti in cluster in base a un numero via via crescente di parametri partendo dai basici dati di affluenza e importo scontrino (usati quali deboli indicatori della fedeltà all’insegna o al punto vendita).

Ora la numerica di questi dati e la capacità di leggerli è andata aumentando- parliamo di big data, no?- ma senza riuscire a incidere più di tanto sul vecchio approccio promozionale fatto da volantini con offerte pensate per la generalità dei Clienti (mass market è un termine freddo ma rende l’idea).

Il paradosso è che le promozioni, più ancora che i servizi (tasto dolente di tanta Distribuzione), sono uno dei momenti in cui la GDO potrebbe dimostrare maggiore prossimità ai propri Clienti; prossimità intesa come capacità di conoscerne le esigenze e attorno a questa costruire offerte e proposte mirate.

La verità è che questa potenzialità non è stata colta dai più. Vi sono come sempre eccezioni, con insegne che hanno costruito dei cluster di Clienti cui destinare particolari offerte, ma la realtà è che si tratta spesso di attività di scarso impatto e la cui ratio spesso sfugge (vi sono retailers che utilizzano parametri che portano a considerare “premium” quasi il 40% dei propri Clienti, ingannando così se stessi e i Clienti stessi).

Il nuovo paradigma e le nuove tecnologie propongono quindi alla GDO una nuova sfida, ancora più importante: ovvero la possibilità di disegnare un nuovo rapporto coi propri Clienti, in cui questi ultimi siano in grado di costruirsi un proprio palinsesto promozionale, ritagliato in base ai propri desiderata (ovviamente all’interno di regole definite).

I Clienti potrebbero accedere a uno “store promozionale” dal quale attingere a particolari promozioni, già attive o attivabili da particolari comportamenti degli stessi Clienti (determinati acquisti ad esempio).

Questa possibilità- che potrebbe essere riservata ai particolari target di clientela- permetterebbe a tanti operatori di cercare (trovare) una via d’uscita alla sempre minore efficacia promozionale delle attività mass market ora messe in campo.

Affinché ciò avvenga è però necessario che buona parte della GDO si accorga che i propri Clienti la sera non se ne stanno più sul divano in attesa del programma tv, ma sono oramai liberi di scaricarsi un film (scelto da un ampio portfolio) quando e dove vogliono, fruendone in qualsiasi momento delle giornata

Certo si tratta di concedere maggiore libertà ai Clienti e questo spaventa. Ma siamo certi che vi sia un’altra strada?

@danielecazzani