Un nuovo #NONFOOD per un nuovo #RETAIL: riflessioni a margine del 13mo Osservatorio NonFood @GS1Italy

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Lunedì 29 giugno a Milano GS1 (indicod-ecr.it) ha presentato i risultati della tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food che ha evidenziato come questo comparto abbia beneficiato della lieve ripresa nel 2014 dei consumi della famiglie italiane, con un incoraggiante +0,6% (che pone fine ad anni di pesanti flessioni pur lasciando la quota dei consumi non alimentari al di sotto del 15%).

Questo dato è evidentemente la media di situazione molto diverse tra i tanti comparti dell’universo non alimentare ma ciò nondimeno è un segnale positivo in un anno che ha visto una contrazione importante (-7%) nei punti vendita e la crisi aziendale di importanti player, uno dei quali solo due anni fa, proprio in occasione dell’Osservatorio Non Food dichiarava invece di avere individuato una nuova strategia, poi risoltasi in un leggero make-up dei propri punti vendita (evidentemente non apprezzato dai consumatori).

Preso atto dei numeri la domanda fondamentale da porsi a questo punto è però: il non alimentare ha raggiunto questo risultato grazie a nuove strategie e nuovi approcci oppure ha beneficiato della generale (mini)ripresa dei consumi?

Mia opinione è che il risultato sia ascrivibile in buona parte al secondo fattore, perché a fianco di alcune interessanti novità (cito lo svilippo di Ikea e, anche se relativa al 2015, l’arrivo in Italia di Zodio) gli ipermercati e tanti storici retailers specializzati paiono essere ancora in una situazione di stallo decisionale.

Pensiamo agli ipermercati che fino a poco tempo fa vedevano nel non food non dico la gallina dalle uova d’oro ma certamente un comparto da sviluppare (pensiamo ad alcuni “gigantismi” testati, con scarso successo, da insegne non italiane) e che ora invece stanno riducendo gli spazi, prendendo così atto che il non food non è affatto un’arena competitiva più facile del food: anche qui servono competenze, risorse umane (bello che se ne sia parlato ampiamente a Milano!) e strategie di medio lungo periodo.

Un altro piccolo esempio su un comparto- quello della GDO- che mi sta sempre a cuore. Avete presenti i settori libri e videogiochi di alcuni ipermercati: spazi dimenticati, dove l’assortimento pare essere stato disegnato dal caso (o dal caos?), con una noncuranza che stride rispetto all’attenzione al display merchandising che giustamente regna negli altri reparti. Mi chiedo: che senso ha destinare metri quadri (e lineari) di vendita a tali merceologie, per poi nella realtà abbandonarle (o come nel caso dei libri, darli in gestione esterna) come fossero corpi estranei. Ecco, la GDO dovrebbe fare questo: smettere di vedere il non food come un corpo estraneo rispetto alla propria anima food. Anche solo dal punto di vista della cultura manageriale sarebbe un gran passo in avanti.

Tornando ai numeri sono molti gli ambiti nei quali il non food è chiamato a fare di più e qui ne citerò solo due.

Ad esempio, in un anno che ha visto l’e-commerce crescere del 17% il risultato del non food, per quanto interessante in alcune categorie (arredamento in primis che ha raddoppiato le vendite) pare essere molto distante dalle sue potenzialità; questa situazione è frutto di una ancora non chiarito rapporto tra store fisico e store digitale. Anzi, proprio questa visione duale è sintomo di un’arretratezza di approccio che pare non considerare come oramai i touch point tra brand e consumatori si siano moltiplicati e approfonditi.

Allo stesso modo- ed eccomi al secondo punto- è proprio l’assenza di una brand strategy che penalizza il comparto non food, i cui punti vendita sono spesso gestiti come come rassemblement di merci: quasi una provocazione in anni in cui un consumatore sempre più attento e informato non chiede solo un prodotto, ma un senso da dare alla propria relazione col retailer. E non si tratta di aggiungere servizi ai prodotti (soprattutto se il servizio- banalmente penso a un’estensione di garanzia di un prodotto hi-tech- è vista come un altro prodotto da vendere…) quanto di analizzare le domande dei Clienti e strutturare i propri store (siano questi fisici o virtuali) affinché siano in grado di dare le risposte migliori, grazie anche al fondamentale contributo delle persone che vi lavorano. Ogni contatto in uno store deve essere vissuto come un incontro, come il primo passo per una relazione, mentre spesso la formazione delle risorse umane è finalizzata a migliorarne le perfomances di vendita, con effetti in realtà controproducenti.

Nuove strategie, nuovi approcci, un nuovo coraggio insomma: ecco ciò che serve al non food per uscire dalle proprie contraddizioni e ritrovare il proprio ruolo in un Retail moderno.

@danielecazzani

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Il #mobile e la nuova socialità immobile: paure e opportunità per #GDO e #Retail

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I retailers nostrani (e in particolare la #GDO) hanno coscienza di quale mutamento del Consumatore sia in atto grazie (anche) alla diffusione del mobile e alle nuove possibilità tecnologiche di connessione e interazione che i nuovi device abilitano?

Ma prima di dare una mia risposta (ovviamente opinabile) faccio un passo indietro. Non avrei che l’imbarazzo delle scelta nel proporre i più recenti dati sullo sviluppo del mobile nel nostro Paese, attingendo ai dati dell’Osservatorio Mobile & Marketing (www.osservatori,net) del Politecnico di Milano (www.polimi.it) piuttosto che ai dati Audiweb o di altri Istituti di Ricerca.

I mobile device infatti sono oramai parte integrante della nostra vita (a breve l’accesso al web dal mobile supererà quello dal PC…) e ci permettono una connessione continua (anche nei momenti interstiziali, un tempo vuoti di contatti, come, ad esempio, una poco piacevole coda in autostrada) e quindi un potenzialità di relazione prima inimmaginabile.

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Fatte salve alcune rare eccezioni, finora la reazione a questo mutamento di paradigma è stata la PAURA: paura di vedere svuotati i proprio negozi fisici a favore dei negozi virtuali (magari della concorrenza) tanto che showrooming è diventata una parola in grado di far rabbrividire tanti manager (senza che ne capiscano bene il motivo a onor del vero…). Tale timore dimostra, a mio avviso, un drammatico ritardo da parte di tanti retailers, innanzi tutto perché in realtà web e mobile non significano solo ecommerce, i cui tassi di crescita sono sì promettenti, ma la cui quota sui consumi reali, perlomeno di beni fisici- pensiamo al grocery- sono ancora fermi allo zerovirgola. Inoltre la moltiplicazione delle possibilità di relazione coi propri Clienti (o più genericamente Consumatori) dovrebbe essere visto con favore da parte di tanti operatori che per anni si sono riempiti la bocca dicendo che al centro delle proprie strategie v’erano appunto i Clienti, mentre in realtà l’ombelico strategico era cosa riservata alla funzioni Acquisti e Vendite e non certo al Marketing. Pensiamo solo alla GDO e al suo rapporto con l’IDM: v’è forse traccia del Cliente/Consumatore (e delle sue esigenze) nel paradigma organizzativo e commerciale con cui approcciano il mercato? O non è forse la sola pressione sui volumi di vendita a guidare le loro scelte (ecchissenefrega – mi si perdoni l’inglesismo- se il Cliente non chiede volumi ma solo un chiaro contenuto di qualità ai giusti prezzi)?

Lo sviluppo del mobile non è quindi una minaccia, anzi è un’incredibile opportunità. Ma NON un’opportunità per veicolare al consumatore altra pubblicità: anche in questo caso i dati di sviluppo del mobile advertising sono interessanti, ma infinitesimali rispetto al valore della pubblicità nel suo complesso. Lo smartphone e il tablet non sono altri schermi per spot di dubbia efficaci, ma piattaforme relazionali.

Relazioni che assumono una valenza ancora più forte se inquadrati nel più generico fenomeno dello sviluppo dei social network, che vede nel mobile il device preferito proprio perché SEMPRE al proprio fianco e- altro elemento assolutamente fondamentale- del tutto PERSONALE.

La nuova socialità aiutata e incentivata dal mobile è però una socialità immobile: è possibile restare in contatto con la propria cerchia di amici, partecipare ad eventi, commentare trasmissioni TV o Radio senza muoversi dal proprio divano. Questo aspetto, spesso sottovalutato a mio avviso, è fondamentale per i retailers che continuavano a vedere i propri store come naturali centri di aggregazione. Tale funzione non sarà certo cancellata dal social mobile ma gli store fisici potranno aggregare solo se saranno in grado di offrire ai propri Clienti ESPERIENZE e VALORI; in caso contrario la virtualità sarà sempre più premiata dai Consumatori, proprio perché li lascerà più liberi di definire i tempi delle Relazione. Ci vorranno certamente degli anni per erodere le quote del commercio tradizionale fisico, ma l’erosione sarà tanto più veloce quanto più i retailers saranno lenti nel capire come sia cambiato l’ambiente sociale in cui si muovono e come i Consumatori siano nuovi, non tanto per il naturale (fisiologico) cambiamento di gusti e tendenze, quanto per le nuove possibilità di approccio e confronto che i web prima e il mobile oggi mettono loro a disposizione.

Da questo punto di vista la #GDO si trova in una posizione ancora più critica, proprio perché spesso priva di contenuti sul fronte dell’Esperienza e dei Valori fruibili dai proprio Clienti nel punto vendita fisico: un’ennesima sfida per un settore che da tanti, troppi, anni sta rimandando il confronto coi propri errori e limiti, sperando inutilmente che una ripresa dei consumi (solamente attesa finora) permetta di rimandare a un lontano futuro un salto evolutivo nella propria organizzazione.

Nota finale: ho scritto questo post seduto sul divano, twittando di tanto in tanto in risposta ad amici che come me stanno seguendo una trasmissione TV, e interagendo con la mia pagina Facebook; ad un certo punto ho interrotto la stesura del testo per aprire la porta all’addetto che mi ha portato a casa la spesa ordinata online.

Non sono multiscreen, non sono multichannel: smettiamola di etichettare i Clienti/Consumatori con neologismi degni del miglior Asimov: continuiamo a chiamarli Carlo, Roberta, Marco… Persone insomma. Loro sono cambiate raccogliendo la sfida e le opportunità dei nuovi device e dei nuovi media. Retailers  e GDO possono dire altrettanto?

@danielecazzani

Le #banche, le false lacrime, lo #spot divertente e un #customerservice inesistente!

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Gli spot tv e radio della mia Banca sono davvero divertenti e simpatici: dopo tutto il testimonial è un noto comico e attore italiano e la trama è simpatica (vuoi che i protagonisti siano giovani bancari o, altrettanto giovani e ancor più sorridenti clienti…). Meno divertente e simpatico il modo in cui la mia Banca (ma sono in procinto di dire ex Banca) tratta i propri clienti. Il fatto che brevemente racconterò è molto, molto illuminante su quanto la crisi del sistema bancario tradizionale sia frutto di una totale mancanza di attenzione verso i propri clienti che, non c’è da stupirsi, sempre più facilmente optano per soluzione di internet e mobile banking…

Cos’è successo quindi. Una semplice comunicazione nella casella di posta del servizio di internet banking (lo confesso: causa lavoro, mi reco in filiale al massimo due o tre volte all’anno; ma la frequenza potrebbe essere maggiore se la filiale non rispettasse orari da anni settanta e fosse aperta anche il sabato (mamma mia, che dico!?). L’oggetto della comunicazione era “cambio iban”. Appena ho letto l’oggetto ho pensato “che seccatura, dovrò comunicarlo al mio datore di lavoro e a chi altro???”.

Apro la comunicazione e scopro che il tema non è il cambio dell’IBAN ma addirittura la CHIUSURA DELLA MIA FILIALE! Come, chiude la mia filiale e la Banca che mi tampina con lettere di vario tono durante l’anno per approfittare di questo o quel finanziamento non si degna di inviarmi alcuna comunicazione scritta o email- magari con un avviso sul bancomat in occasione di uno dei miei prelievi, ma mi rendo conto di chiedere troppa intelligenza!- confidando che fortunosamente pochi giorni prima della chiusura io apra la posta tramite l’internet banking per apprendere la lieta novella. Gentilmente la Banca mi avvisa che il conto è stato trasferito presso altra filiale in una vicina città. Non hanno nemmeno pensato di propormi la scelta tra più filiali: caso vuole ce ne sarebbe una a pochi metri dall’ufficio di mia moglie, ma, no, sarebbe troppo facile così; molto meglio farmi percorrere chilometri per recarmi in un quartiere sempre al di fuori dei miei tragitti…

La sensazione è quella di essere un pacco (e un numero) nelle mani del peggior fattorino, senza alcuna voce in capitolo… Devo ammetterlo: non è una bella sensazione soprattutto considerando che a trattarmi così è l’Istituto cui ho affidato i miei risparmi…

Non ho intenzione di approfondire il caso specifico, ma la riflessione è naturale: chiudere una filiale senza avere l’accortezza di avvisare in modo tempestivo ed efficace i propri Clienti è un’assurdità che non può essere coperta nemmeno dallo spot tv più divertente e simpatico. La fiducia dei Clienti si costruisce nel tempo, non in trenta secondi sui principali network. La domanda è se quella Banca abbia un Marketing, un Customer Service o qualche funzione che tra i propri obiettivi abbia il Cliente (e non intendo con questo la “spremitura” del Cliente!). La risposta che mi sono dato è evidente, ma è per me altrettanto evidente come le lacrime sulla crisi di tanti istituti bancari (talvolta, sia ben inteso, lacrime da coccodrillo) siano in prima battuta causati dalla totale assenza di cultura del Cliente non tanto dei vari CEO o Board, ma, più prosaicamente, di un Management chiuso in torri di cristallo e uffici di marmo e legno pregiato che non hanno mai incrociato lo sguardo di un Cliente in cerca solo di sicurezza, chiarezza, rispetto e una relazione che vada al di là dell’estratto conto mensile.

Vi sono praterie di opportunità ancora non colte nel settore bancario… ma bisogna avere il coraggio di uscire dalla proprie tenute per conquistare nuove terre. Purtroppo il sistema bancario italiano sembra davvero troppo pigro e immobile come i mattoni d’epoca delle proprie prestigiose sedi per avere il coraggio di mettere davvero al centro delle strategie i propri Clienti (anche nella realtà, oltre che nei titoli dei tanti convegni).

@danielecazzani

Al #retail italiano non serve uno psicanalista ma un progetto di sistema. @retailsumm_it: alcune considerazioni a margine

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Il palco del Retail Summit 2013 in alcuni momenti sembrava un lettino da psicanalista con amministratori delegati e manager che elencavano le quotidiane frustrazioni (ben comprese dalla platea) del “fare retail” in Italia per colpa di quei mali che affliggono  il nostro Paese, come la scarsa liberalizzazione in alcuni settori strategici, l’eccessiva burocrazia, l’elevato costo del lavoro, ecc.

Psicanalisi a parte, l’incontro è stato comunque estremamente ricco in termini di spunti di riflessione.

Innanzi tutto è parso ai più evidente come l’eccessiva frammentazione della rappresentanza del mondo Retail- troppe associazioni, troppo divise- sia un ostacolo alla capacità di farsi ascoltare da parte di una delle componenti più importanti del PIL italiano. Il caso dell’IVA ne è un esempio: le tante proteste dai vari settori avanzate in modo scoordinato, non hanno inciso sulla scellerata scelta finale di confermare l’aumento dell’aliquota. Ed è ancora più assurdo, kafkiano direi, ascoltare i rappresentanti di uno dei settori che più investe in pubblicità dire che la Distribuzione pecca in comunicazione: i distributori hanno l’indubbio privilegio di poter parlare ogni giorno, all’interno dei propri negozi, con milioni di Italiani, ma per far sentire la propria flebile voce, si affidano solo a sterili comunicati stampa… mentre altre associazioni (penso a Coldiretti) hanno la forza di mobilitare il Paese per le proprie campagne (a proposito: qualcuno si ricorda di una campagna, una, di Federdistribuzione?) garantendosi un’invidiabile copertura mediatica e un positivo ritorno d’immagine.

Mi è parso altrettanto evidente come il concetto di “filiera” sia ancora ben lungi dal radicarsi, vista la diffidenza con cui ancora si parlano troppo spesso IDM e Distribuzione (il siparietto tra Coop e Carlsberg su chi avesse perso più margini in questi anni è a suo modo istruttivo). Acquisire una visione di sistema è, invece, a mio avviso un passaggio necessario per superare inefficienze e rigidità che inficiano le performances su entrambi i lati, partendo magari dall’organizzazione delle Centrali d’Acquisto o quantomeno da una semplificazione della contrattualistica (arrivando in futuro a una condivisione dei dati loyalty) che a cascata potrebbe impattare positivamente anche sulla gestione del momento promozionale, che in tanti casi ora pare fuori controllo (e sempre meno efficace).

A proposito di “fare sistema”, la testimonianza dei player della Logistica col progetto Delivering, ha dimostrato come, superando ostacoli burocratici e tecnici- la condivisione delle competenze sia in grado portare notevoli miglioramenti alle filiere, alle organizzazioni e, non ultimo, ai conti economici.

Gli interventi di Augusto Cremonini e di Stefano Beraldo hanno ricordato ai più come fare management significhi non solo occuparsi delle grandi strategie (memo: è essenziale avere piani strategici a più anni, evitando di vivere alla giornata…) ma anche intervenire su quelli che a prima vista possono sembrare aspetti trascurabili del nostro business- come i costi di una lampadina in un negozio…- ma che nella realtà nascondono potenzialità di crescita: ogni riga del conto economico, ogni funzione aziendale, ogni business unit deve mirare sempre al proprio miglioramento. Restare fermi, oggi, significa indietreggiare.

Da numerosi speakers è stato detto che il cliente non è più multichannel, ma omnichannel. Non commento il “simpatico” proliferare di termini in ambito marketing [appartengo alla categoria dei marketer quindi non vorrei inimicarmi troppi colleghi], ma ricordo come più che sull’aggettivo sia importante concentrarsi sul sostantivo: CLIENTE. Il cliente deve essere davvero (finalmente) posto alla base delle strategie aziendali, se vogliamo incrociarne i nuovi desiderata che parlano sempre più di una ricerca spasmodica del rapporto qualità-prezzo e di una maggiore consapevolezza delle (e nelle) proprie scelte d’acquisto. Sta forse scomparendo l’epoca della pubblicità tradizionale a favore della relazione (in questo aiutati, o costretti, dal proliferare dei device mobili), quindi è necessario per le aziende attrezzarsi per l’ascolto dei clienti, avendo nel contempo il coraggio di ridisegnare anche la propria organizzazione su questi nuovi paradigmi.

Pugliese di Conad ha infine riportato al centro dell’attenzione un attore, spesso considerato come terzo, ma che a tutto tondo deve essere considerato come facente parte del sistema Retail: ovvero il credito. Non è possibile parlare di rapporti IDM e Distribuzione lasciando fuori dalla porta questa cruciale componente, né si può parlare di investimenti o internazionalizzazione senza prendere atto di come sia essenziale nel nostro Paese porre come questione cruciale un nuovo disegno dei rapporti tra mondo finanziario-bancario e mondo Retail (ma non solo).

Se il Retail italiano saprà affrontare da sè queste sfide- partendo, auspicabilmente dall’indire quegli Stati Generali del Retail cui si è accennato nel corso del Summit- allora è possibile che possa crescere e pensare in modo più concreto a uno sviluppo internazionale- finora debole come testimoniato dal Fondo Strategico Italiano, nonostante l’indubbia potenzialità di tanti nostri brand- e affrontare in modo più efficace i mutamenti degli stili di consumo, sia quelli di oggi che quelli di domani.

 

Daniele Cazzani @danielecazzani

Un nuovo marketing per i centri commerciali: un menù à la carte (non la solita minestra…)

La sempre maggiore concorrenza tra centri commerciali, la liberalizzazione (o meglio standardizzazione) delle aperture straordinarie, e la debole differenziazione merceologica dei mall- in termini di insegne presenti e di merchandising mix- costituiscono ostacoli che debbono essere affrontati da chi si ponga l’obiettivo della creazione di traffico a favore dei retailers presenti nelle gallerie, e soprattutto di valorizzazione del proprio asset immobiliare.
Diviene pertanto prioritaria la creazione di un’identità per i centri commerciali, al fine di differenziarli dalla concorrenza, creare valore aggiunto per la propria clientela e conseguire gli obiettivi di business dei tenants e della proprietà immobiliare.
Negli ultimi anni si è focalizzata molto l’attenzione sulla progettazione delle food court, pensando che queste fossero sufficienti a caratterizzare il centro commerciale, divenendone il vero elemento distintivo, ricoprendo oltre ad una funzione di servizio anche il ruolo di magnete in grado di creare traffico a favore di tutto il centro commerciale. Ma è piuttosto evidente come non possa certo essere assegnato alla sola food court il compito di definire l’identità di un centro commerciale. E’ invece possibile individuare nuove strade e definire nuove strategie.
Partendo da queste considerazioni, l’elaborazione di un piano di marketing per un centro commerciale deve muovere i primi passi, oltre che dagli obiettivi di marketing, dalla disamina del contesto competitivo, da un’analisi della clientela e dalle risorse a disposizione. Invece nella realtà è facile notare come spesso la formulazione dei piani di marketing elaborati dalle società di gestione a supporto delle gallerie commerciali siano estremamente standardizzati, col risultato che alla sostanziale omogeneità nell’offerta merceologica dei mall si unisce spesso una altrettanto paradossale omogeneità nell’elaborazione delle strategie di marketing.
A onor del vero un corretto piano di marketing per i centri commerciali non può certamente ritenersi risolto nella definizione di un calendario di eventi e di un correlato piano media: il vecchio “piano promo-pubblicitario” è un arnese del passato, forse efficace quando la concorrenza tra centri commerciali era bassa (in alcuni casi nulla) e bastava organizzare un concorso o qualche evento per vedere la propria galleria riempirsi di clientela e registrare record nei corrispettivi dei negozi…
La migliore ricetta per il successo di un centro commerciale non è certamente data dalla ripresentazione di piatti già “cucinati” in altre strutture, quanto dalla preparazione di un menù à la carte progettato per le specifiche esigenze del “palato” dei propri clienti e dello specifico bacino.
Ciò detto, un efficace piano di marketing per un centro commerciale dovrebbe quindi fondarsi su 5 punti principali:
1. la valorizzazione di sinergie tra ancora alimentare e negozi;
2. la fidelizzazione della clientela;
3. la collaborazione col territorio;
4. la gestione strategica della comunicazione;
5. un palinsesto di eventi unici.

1. Attivare sinergie tra galleria e ancora alimentare.
Il forte peso delle ancore alimentari all’interno dei centri commerciali rende prioritario l’attivazione di sinergie, per attivare lo scambio di clientela tra l’ipermercato e le altre attività della galleria. Una ricerca presentata presso IlSole24Ore [“Lo stato dell’arte dei centri commerciali” by Sincron Inova] evidenziava infatti come, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nei centri commerciali non vi è affatto un automatico scambio di clientela tra ancora alimentare e negozi della galleria.

Indagini di mercato commissionate da diversi centri commerciali, evidenziano però come “il principale motivo di frequentazione è la spesa alimentare”. Quindi è necessario tenere conto nell’elaborazione del piano di marketing da questo imprescindibile assunto: il principale driver di visita è costituito dall’ipermercato.
Partendo da questa considerazione e dal fatto che il gestore della galleria non ha modo di manovrare la leva commerciale e promozionale dell’ancora alimentare, è evidente che l’attività della galleria dovrà perlomeno essere coordinata al “momento promozionale” dell’ipermercato (ed eventualmente delle altre ancore presenti nel mall) per creare le più efficaci sinergie, evitando di “parlare a troppe voci” creando un effetto cacofonico.
Per quanto anche questo assunto paia di assoluto buon senso non è difficile notare come, in tanti casi, mall e ancora alimentare lavorino su due “spartiti” diversi, con l’unico effetto certo di disperdere risorse e non ottimizzare la capacità di richiamo del centro commerciale, con evidente danno per i tenants.

2. La fidelizzazione della clientela del centro commerciale
Il numero di carte fedeltà nei nostri portafogli è andato negli anni crescendo, depotenziandone spesso il valore percepito da parte dei consumatori, visto che spesso i retailers emittenti e, cosa ancora più grave, i clienti paiono non sapere quale sia il reale valore (e contenuto) di quel pezzo di plastica…
Da questo punto di vista il contenuto più importante che i consumatori richiedono alle carte fedeltà è la possibilità di accedere a sconti e promozioni, come evidenziato anche dal rapporto “Convenienza subito!” dell’Osservatorio Carte Fedeltà dell’Università di Parma (www.osservatoriofedelta.it).
Scartando a priori l’ipotesi di una semplicistica convenzione dei negozi con la carta fedeltà del nuovo ipermercato (così facendo non si avrebbe alcun controllo sulla gestione dei clienti e i relativi dati) la scelta se dotarsi o meno di una propria carta fedeltà diviene strategica (senza che ciò significhi che la risposta sia obbligata).
Qualora si decidesse di percorrere tale strada, e dotarsi così di una strategia di customer relationship management, diverrebbe prioritario costruire attorno alla nuova carta fedeltà un programma di convenzioni coi negozi della galleria, che offra ai clienti benefici tangibili e immediati; ma sarebbe altrettanto importante uscire dai confini del centro commerciale per costruire un network di opportunità- strutturato come un progetto di coalition marketing– che arricchisca l’offerta della galleria, con sconti su servizi non presenti nel mall.
Qualora tali obiettivi non fossero (o non si ritenessero) raggiungibili per vincoli interni o di natura tecnico ed organizzativa, sarebbe meglio per il centro commerciale non avviare alcun progetto di loyalty…

3. Il centro commerciale come “hub territoriale”
Un moderno centro commerciale, costituendo una potenziale vetrina per tutto ciò che avviene nel territorio oltre che un incredibile punto d’incontro, deve ambire a divenire un vero e proprio hub territoriale.
Questo significa andare oltre il ruolo di semplice sponsor di eventi o manifestazioni territoriali, per divenire partner organizzativo e catalizzatore delle migliori energie locali, mettendo a disposizione i propri spazi, il proprio know-how, i propri media e capacità di comunicare.

4. Il palinsesto degli eventi: creare una shopping experience unica e memorabile
La costruzione di un qualsiasi palinsesto degli eventi deve basarsi sulla scelta di dare spazio ad attività uniche, distintive, con forte carattere sociale, aggregativo e promozionale.
Nella realtà dei fatti, vuoi per la standardizzazione cui accennavo nelle prime righe, vuoi per una gestione non corretta dei budget in termine di allocazione delle risorse, la costruzione del palinsesto di eventi è spesso frutto di mere operazioni “copia e incolla” e non di una reale programmazione basata su una corretta strategia di marketing.
Solo un calendario di iniziative che abbia nella continuità e nella coerenza i propri punti di forza può mirare a costruire una brand identity forte e distintiva.
In tale contesto l’altro fattore fondamentale deve essere la valorizzazione della shopping experience del cliente: creare eventi che possano essere ricordati dai clienti per la capacità che hanno avuto di coinvolgerli.
Un altro tema spesso sottovalutato è dato dai servizi per la clientela: anche in questo ambito è necessario andare oltre l’ABC (spazio bimbi, nursery, ecc.) per dotare il centro commerciale di innovativi servizi a supporto della spesa o della visita nella galleria in grado di migliorare la shopping experience.

5. La comunicazione: la voce del centro commerciale nel territorio
E’ facile riscontrare come spesso i budget delle gallerie commerciali siano sbilanciati o verso i costi organizzativi dell’evento o verso i costi di comunicazione, con gli effetti opposti di organizzare eventi molto complessi senza avere poi risorse per pubblicizzarli correttamente o attuare importanti campagne media a supporto di eventi di bassa qualità.
Un bilanciamento tra le due voci è quindi assolutamente necessaria, così com’è cruciale la definizione di un corretto media mix a sostegno delle singole iniziative.
Il mercato dei media sta subendo una profonda ristrutturazione, con forte perdite di quota da parte della carta stampata e delle affissioni, ma nonostante questa evidenza, quotidiani (locali) e affissioni continuano a essere meccanicamente utilizzati dalla maggior parte dei centri commerciali, spesso semplicemente in ottica tattica e di risposta al concorrente di turno.
E’ invece necessario innovare il media mix evitando la dispersione delle risorse su troppi mezzi e individuando anche mezzi territoriali e non convenzionali (ovvero non gestiti dalle usuali concessionarie pubblicitarie); ma anche uno strumento come il volantino da molti ritenuto prematuramente obsoleto a causa dei suoi numerosi limiti (pensiamo alla distribuzione), se opportunamente reinterpretato quale magazine del centro commerciale, potrebbe divenire un media assolutamente efficace, proprio per la sua capacità di dare profondità al racconto del centro commerciale.
Il classico sito Internet deve essere affiancato da una piattaforma mobile integrata con attività sui social network, con l’obiettivo di creare una community che non può che essere una conseguenza della dimensione sociale del centro commerciale fisico. Bisogna anche in questo caso andare al di là di un mero approccio “estetico” (avere una pagina Facebook con qualche fan e like, o un profilo Twitter): l’obiettivo deve essere creare uno spazio dove possano essere rivissute, enfatizzate e viralizzate le emozioni vissute all’interno del centro commerciale.
E’ importante infatti ricordare che l’obiettivo è portare i clienti nel Centro Commerciale per ottimizzare le revenues dei retailers presenti nel mall e garantire la migliore valorizzazione dell’immobile.

Se per certi versi il percorso delineato pare rispondere al semplice buon senso, nella realtà si tratta di una rivoluzione per un settore per tanti versi ancora non maturo, dove la standardizzazione del servizio fino a ieri poteva (forse) essere accettata, ma dove oggi l’aumentata pressione concorrenziale, le difficoltà del mercato immobiliare e la riduzione delle risorse, rendono assolutamente necessario un nuovo approccio di marketing per la valorizzazione dei propri asset.

La storia di #Carosello e un #Carosello (reloaded!?) che non passerà alla storia…

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La RAI ha recentemente lanciato un format/contenitore pubblicitario inopinatamente chiamato Carosello Reloaded. Dico inopinatamente perché Carosello è stato un programma che ha fatto la storia del costume italiano e perché il nuovo contenitore di “reloaded” pare avere davvero poco, vista la qualità degli spot trasmessi (trattasi di riciclo di spot già on air da tempo…), almeno in occasione della prima puntata.

Partendo da questo stato d’animo mi piace ripercorrere brevemente la storia del primo Carosello: sarà così facile capire quanti e quali siano le differenze rispetto alla recente versione…

GLI ESORDI DI CAROSELLO

Carosello nasce il 3 febbraio 1957 alle 20.50. Ogni scenetta doveva essere approvata da una speciale commissione della Sacis (sentite odore di censura?), dovevano tutte essere in bianco e nero e in 35 millimetri.
I limiti pubblicitari imponevano che su due minuti e quindici secondi di ogni Carosello, la reclame del prodotto durasse al massimo 35 SECONDI: il famoso “codino”, che faceva impazzire i pubblicitari che cercavano di fondere armoniosamente scenetta e richiamo pubblicitario rispettando i vincoli di una censura che vietava di usare una certa terminologia e imponeva un numero massimo di citazioni del nome del prodotto anche nel codino. Alcuni esempi di “censura”? Si poteva dire “aquila” o “piccione”, ma non “uccello” o “passera”; non si poteva utilizzare la parola “intestino” né “il buon sapore della natura”…
Ma perché Carosello fu strutturato così (scenetta + reclame)? Il vero motivo è che la RAI godeva già del canone e temeva critiche per la scelta di fare anche pubblicità; inoltre temeva la lobby degli editori della carta stampata (preoccupati della potenziale concorrenza della pubblicità televisiva). Il Carosello, con spot mascherati da intrattenimento, fu, bisogna ammetterlo, una tipica soluzione all’italiana…

Quando i primi quattro episodi di Carosello andarono in onda, gli abbonati alla televisione erano 3.666.161.
Il titolo del programma rievocava un celebre film musicale da poco uscito (“Carosello napoletano”), il teatrino era costruito sul modello di quelli napoletani. La musica di Raffaele Gervasio riadattava una vecchia melodia popolare napoletana di autore sconosciuto- I pagliacci- a cui si aggiunsero un rullo di tamburi e una bella tarantella.

I NUMERI DI CAROSELLO

Carosello divenne il breve il programma più seguito della RAI. Nel 1961 l’ascolto di Carosello, nonostante la nascita di altri programmi di intrattenimento, era arrivato a quasi otto milioni di spettatori.

Col passare degli anni e l’aumento degli inserzionisti pubblicitari Carosello diventò sempre più corto: nel 1974 ogni scenetta durava un minuto e quaranta secondi mentre il costo per realizzarlo si aggirava dai 3 ai 5 milioni di lire.

Il primo gennaio 1976 andò in onda l’ultimo Carosello: una Raffaella Carrà commossa recitava l’addio al programma brindando con lo Stock e ringraziando tutti quelli che vi avevano lavorato.
Gli ultimi ascolti di Carosello parlavano di 19 milioni di italiani, fra cui 9 milioni di bambini.
Ufficialmente, la decisione di sospendere il programma fu della Commissione parlamentare di vigilanza della Rai, che tendeva a ridurre la pubblicità ai vari prodotti nelle ore di maggior ascolto.
Complessivamente in 19 anni furono trasmesse oltre 42 mila scenette!

I PERSONAGGI DI CAROSELLO

Durante i vent’anni in cui é andato in onda, Carosello coinvolse tutto il mondo del cinema e dello spettacolo italiano, nel ruolo di attori-testimonial: da Giorgio Albertazzi ad Alberto Lionello e Pippo Franco, da Nino Besozzi a Gianfranco D’Angelo, da Mario Soldati a Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Ma come non ricordare Aldo Fabrizi, Totò, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi…
Ma ci furono anche i registi Leone Pompucci e Carlo Verdone e attori ancora bambini come Diego Abatantuono, Teo Teocoli, Renzo Arbore, Alba Parietti.

Non va dimenticata la grande produzione di cartoni animati che caratterizzò Carosello.
I primi furono del 1958: Angelino per il detersivo Supertrim e l’Omino coi baffi per la caffettiera Bialetti, entrambi creazioni di Paul Campani.
L’anno seguente fu la volta del Vigile e il Foresto per il brodo Lombardi e Ulisse e l’Ombra per il caffé Hag, ideati da Roberto e Gino Gavioli.
Nei primi anni ’60, Svanitella Svanité fece dire a tutti “Come se niente fudesse”.
Poi arrivarono Unca Dunca, di Bozzetto, Olivella e Mariarosa (olio Bertolli, 1962 -75), Capitan Trinchetto e, nel 1970, I Cavalieri della Tavola Rotonda, inventati da Marco Biassoni.
Contemporaneamente, nascevano in Carosello i pupazzi animati.
Cominciò TOPO GIGIO, che esordì in pubblicità nel 1961 per i biscotti Pavesini.
Il 1965 fu l’anno di CARMENCITA e il CABALLERO, pupazzi creati da Armando Testa per il caffé Lavazza e che riproponevano l’uso di accenti torinesi e meridionali per la parlata dei personaggi.
Poi arrivò il pulcino CALIMERO, creato dai fratelli Pagot per il detersivo della Mira Lanza e ancora l’ippopotamo PIPPO, JO CONDOR, il GIGANTE BUONO e molti altri…

CAROSELLO FU EFFICACE?

Carosello costituì certamente un importantissimo fenomeno di costume della società italiana, alle prese col boom economico e il cambiamento di stili di vita e di consumo, e che forse non è ancora stato studiato in modo appropriato.

Ma Carosello fu efficace come strumento pubblicitario? Bisogna dire che troppi badarono allo spettacolo e poco al messaggio pubblicitario- accade anche oggi…- per cui molte marche non ne trassero alcun beneficio. Di fatti se ci pensiamo ci ricordiamo tutti (o quasi) del Gigante Amico ma chi si ricorda a quale prodotto era associato? Ma per tornare al quesito possiamo dire in estrema sintesi che la sua efficacia fu per molti anni correlata al fatto che la pubblicità televisiva per molti anni fu possibile solo all’interno del famoso contenitore e che l’ascolto (in regime di monopolio) era da Guinness dei Primati. Ma spesso gli spot non furono utili per affermare la marca o supportare le vendite: ad esempio è opinione diffusa che CALIMERO diede uno scarsissimo contributo a Mira Lanza, le cui vendite erano invece legate solo alle promozioni nei punti vendita (sconti) e alla RACCOLTA DI FIGURINE…

Carosello determinò però l’imprinting degli Italiani alla pubblicità televisiva e quindi, al di là delle (oramai sterili) valutazioni sulla sua reale efficacia, rimarrà indelebilmente nella nostra memoria, soprattutto in questi ultimi anni dove vediamo dilagare pubblicità di scarsa qualità e dopo averne vista questa indecifrabile riproposizione…

@danielecazzani

L’ultimo miglio del #volantino

volantini gdo

Venerdì scorso si è tenuta a Parma la seconda edizione del convegno “Le nuove frontiere del volantino” organizzato da #Nielsen e Università di Parma.

In sintesi alcuni dei dati più interessanti emersi:

  1. la prolungata crisi che stiamo vivendo ha modificato le abitudini di consumo e d’acquisto degli Italiani: si compra meno, solo l’essenziale (senza stoccarsi di prodotti), spostandosi su format di vendita più convenienti (discount e specialisti drugstore) e comprando sempre più prodotti a marchio privato;
  2. la pressione promozionale continua a crescere, arrivando a sfiorare il 30%; questo dato è sostanzialmente identico per leader e follower di categoria e formato di vendita;
  3. cresce fino  al 23,7% anche la pressione promozionale dei prodotti a marchio privato;
  4. per il combinato disposto dei primi 3 punti diminuisce la fedeltà al negozio e alla marca;
  5. le principali aziende del largo consumo nel 2012 hanno disinvestito dall’advertisement e dirottato risorse sulla promozione prodotto/prezzo.

Nonostante l’aumentata pressione promozionale il 2012 ha registrato un calo dei consumi sia a valore (-1%) che a volume (-1,5%), con punte differenziate in funzione del formato (in grande difficoltà gli ipermercati).

Il volantino non è percepito dai clienti/consumatori come strumento di aiuto alla spesa, ma ancora come strumento di spinta al consumo.

Qualche operatore del settore ha detto che il volantino è lo strumento di ingaggio tra insegna e cliente, ma la sensazione è che sia ancora più che altro strumento di ingaggio tra industria e GDO, in base ad arcaici approcci relazionali e commerciali che rischiano di essere sempre più inadatti al nuovo contesto.

La sempre maggiore diffusione dei device mobili e la sempre maggiore propensione dei clienti alla multicanalità dovrebbe comportare uno switch di risorse dalle promozioni mass market a mirate promozioni basate sui dati fidelity, ma anche su questo fronte le resistenze da vincere paiono essere davvero molte…

Sempre parlando del volantino- che assorbe mediamente il 70-80% del budget pubblicitario nella GDO- l’attenzione è stata posta sul tema della qualità della distribuzione porta a porta, cui si affidano tutti gli operatori della GDO, avvalendosi di una delle tante aziende di un settore in cui sono presenti tante, troppe imprese senza struttura e organizzazione e che fanno affidamento solo sulla richiesta/necessità di tante catene di comprimere al massimo i costi del servizio (a fronte di un costo medio di 0,03 euro a copia, vi sono casi in cui il servizio di distribuzione viene offerto a tariffe di 0,015 euro a copia…) senza preoccuparsi della qualità dell’ultimo passaggio, rischiando così di vanificare quell’80% di investimento.

Premesso che il futuro vedrà certamente una sempre maggiore importanza (e centralità) del volantino digitale– che dovrà però offrire contenuti arricchiti rispetto al cartaceo- visto che già oggi almeno il 50% dei consumatori consulta il volantino anche sui siti web o le app delle diverse insegne, è emerso come cruciale il tema della qualità della distribuzione.

Sono oggi disponibili sul mercato società che effettuano (per conto terzi) attività di controllo campionario sulle distribuzioni eseguite da altre società, ma vi sono anche nuovi strumenti che permettono di “certificare” la distribuzione, tramite la tracciatura satellitare e la possibilità di personalizzare il volantino con codici alfanumerici univoci in fase di stampa.

Senza contrapporre il metodo tradizionale alle nuove tecnologie, dobbiamo notare che anche la distribuzione con tracciatura gps- il cui costo è circa il triplo rispetto ai valori sopra indicati- può al massimo certificare l’avvenuta consegna in una certa cassetta postale o condominiale. Ma il vero problema è proprio nella cassetta postale e condominiale: ognuno di noi, quotidianamente, deve fare i conti con la propria cassetta postale invasa da comunicazioni pubblicitarie (negozi alimentari, agenzie immobiliari, negozi di arredamento, offerte di artigiani, ecc) cedendo talvolta alla voglia di sbarazzarsi di tutta quella carta non richiesta. La situazione ovviamente peggiora se pensiamo alle cassette pubblicitarie condominiali, dove basta la volontà e determinazione di un singolo per eliminare in un colpo solo chili di carta (di volantini).

Nulla e nessuno può ad oggi certificare l’avvenuta consegna del volantino nelle mani del nostro cliente (reale o potenziale che sia).

Anche per questi motivi la strada da percorrere sarà quella di personalizzare le offerte, facendo convergere la sempre maggiore attenzione del cliente alla qualità dell’offerta (in termini di prodotto, prezzo e servizi proposti) e la disponibilità di nuove tecnologie- che saranno via via sempre più diffuse e utilizzate- con le strategie degli operatori della GDO.

La sfida sarà mettere al centro delle proprie strategie il cliente per costruire attorno alla sua domanda (di qualità, convenienza e servizi) una coerente offerta (non solo commerciale, ma anche esperienziale e valoriale).

creatività e #newmedia

mediastars-apertura

A novembre 2012 ho avuto il piacere di partecipare in qualità di giurato alla XVII edizione del premio MEDIASTARS per l’area Press&Poster (www.mediastareditore.com). Su Youtube http://www.youtube.com/watch?v=7tYD8MDBrqE è visibile una mia breve intervista sui temi della creatività e dei nuovi media.

La #pubblicità è ancora l’anima del commercio?

Partendo dalla famosa frase attribuita a H.Ford  diamo un’occhiata a cosa è successo al mondo dei media nel 2011 così come fotografato da Nielsen. In sintesi un calo degli investimenti pubblicitari con punte negative soprattutto nei settori più prossimi al consumo finale, ovvero alimentari e bevande, distribuzione; solo il forte peso del settore auto sul media più forte, la tv, che assorbe ancora oltre il 50% degli investimenti pubblicitari, determina una media ponderata (il meno 3,8%) che può trarre in inganno.

Detto ciò, attingendo a una felice definizione del Prof.Ferraresi dello IULM di Milano, potremmo dire che la pubblicità è una forma di comunicazione che produce (o ha l’obiettivo di produrre) un’azione (di consumo o sociale). Per tale motivo deve entrare in sintonia con la propria audience: il consumatore (nel caso di spot commerciali) o il cittadino (nel caso di spot a carattere sociale).

In un momento di forte crisi come quello che stiamo vivendo la capacità di relazionarsi o restare in contatto col proprio target dovrebbe essere una priorità, invece i dati sembrerebbero registrare l’aprirsi di una frattura tra industria, retailers e consumatori. Spaventati dalla contrazione dei fatturati e dei margini, una delle prime leve su cui si interviene è spesso e volentieri quella della pubblicità, vissuta più facilmente come un costo piuttosto che come un investimento (nonostante siano disponibili vari strumenti per misurarne il roi).

Spiego subito il motivo del condizionale. La realtà è che la crisi sta rimodulando oltre che i consumi anche le modalità di relazione tra consumatore e le marche, i retailer e l’industria. Il progressivo affermarsi di nuovi territori di relazione– pensiamo ai social network col loro incredibile poter di moltiplicazione dell’audience e intrinseca capacità di endorsement- e il conseguente aumento del dialogo tra i consumatori, sta in alcuni casi marginalizzando il ruolo del tradizionale inserzionista. Si è in parte incrinato il rapporto emittente-ricevente passivo che ancora caratterizza il media televisivo, che a onor del vero registra comunque una perdita non drammatica- grazie alle aggressive campagne commerciali delle concessionarie- e che nel 2012 dovrebbe beneficiare dell’effetto Olimpiadi ed Europei di Calcio.

Per sanare tale frattura molti si stanno lanciando in Internet più o meno convintamente: non per nulla alla voce “internet” si registra un importante aumento di investimenti pubblicitari, per quanto ancora risibile in termini assoluti…

Potremmo dire che la priorità dei prossimi anni sarà quella del dialogo col consumatore: per questo motivo  dovremmo assistere a un cambio di pelle del mondo pubblicitario, senza che ciò si connoti in modo drammatico. Dopo tutto i grandi creativi e le migliori agenzie hanno dimostrato di sapere entrare in contatto con diversi target, manifestando così una grande capacità empatica. Credo pertanto che il passo da compiere sia “solamente” quello di declinare tale sensibilità per trovare nuove piattaforme di dialogo e comunicazione coi consumatori, senza che ciò significhi la fine della pubblicità (di cui si parla inopinatamente da alcuni decenni).

I numeri Nielsen quindi possono essere letti come la fotografia di un mondo che c’è ancora ma che è progressivamente destinato a modificarsi a favore di altre dinamiche, probabilmente più difficili da mettere a fuoco (ma sono convinto che gli amici di Nielsen sapranno proporre nuovi strumenti e outlook anche su questo fronte).

In conclusione possiamo dire che la pubblicità resterà sempre l’anima del commercio nella misura in cui anche il commercio continuerà ad avere un’anima , anima resa manifesta nella capacità di comunicare e dialogare col proprio cliente.

 

Daniele Cazzani