IL MIO PENSIERO SULLA SOSTENIBILITÀ E IL POSSIBILE (AUSPICABILE) RUOLO DEL RETAIL (MIO INTERVENTO SUL N.315 DI MARKUP)

Cercate su Google la parola “sostenibilità” e osservate a quali immagini è associata: molto spesso una mano che si prende cura della terra, di una foglia, di una pianta. Verde poi è il colore di questa parola. Una parola positiva, che rassicura e ci fa subito sentire BUONI e in sintonia con tutto il mondo.

Eppure, eppure… la sensazione è che siamo molto MOLTO DISTANTI dal poter dare una patente di sostenibilità alla maggior parte delle nostre azioni, perché abbiamo sempre ottime scuse per rimandare SCELTE che risultano dolorose nella misura in cui il cambiamento è di per sé doloroso (solo a posteriori possiamo, solitamente, apprezzarne i benefici).

Se è oramai chiaro che le modalità con le quali la nostra società ha perseguito lo SVILUPPO- intendo con “nostra” la parte del mondo ricca, non solo l’Occidente che è uso fare mea culpa anche per colpe non solo proprie…- non sono sostenibili per il nostro PIANETA e per le PERSONE che lo abitano, ed è quindi facile capire cosa dovremmo proteggere- appunto la Terra che teniamo amorevolmente in mano- ben più difficile è capire COME dovremmo farlo.

La risposta non può essere certo quella di annullare un paio di millenni di scoperte che hanno portato l’uomo sì ad avere un impatto nefasto sulla Natura, ad esempio accrescendo paurosamente le emissioni di CO2 nell’atmosfera- col conseguente riscaldamento della pianeta con effetti che oramai misuriamo quotidianamente- ma anche ad aumentarne la vita media (e la sua qualità) in tante parti (non tutte, a onor del vero) del mondo, piuttosto che eliminare la “POVERTÀ” (termine troppo generico, me ne rendo conto) per vaste parte della popolazione mondiale.

La realtà è che viviamo (?) vite sempre più VELOCI, consumando il tempo in modo bulimico come se esistesse solo l’oggi e i nostri radar mentali fossero INCAPACI di pensare al domani e, troppo spesso, siamo troppo concentrati su NOI STESSI per accorgerci dell’altro.

Per poter AGIRE in modo sostenibile serve PENSARE in modo sostenibile; pensando cioè al DOMANI e agli ALTRI.

Qui si pone, a mio avviso, il grande problema, ovvero il fatto che le nostre scelte dell’oggi influiranno soprattutto sul futuro degli altri.

Infatti, per quanto siamo tutti pronti a STUPIRICI e a LAMENTARCI per la “bomba d’acqua” vista nel telegiornale serale o al grado in più che ci porta ad accendere i condizionatori anche a settembre (a proposito di sostenibilità…), questi effetti sono nulli rispetto a quelli che si vivono nelle zone più povere del pianeta, come alcuni territori dell’Africa sub-sahariana dove la SICCITÀ ha quasi dimezzato le aree agricole provocando gravi CARESTIE e incentivando i movimenti migratori.

In questo complesso contesto quale può essere, quindi, il ruolo del RETAIL?

Sarebbe irreale, per il Retail, pensare di poter essere da solo un supereroe della sostenibilità sventolando come grandi successi l’utilizzo della carta riciclata per i propri volantini promozionali o l’installazione di pannelli solari sui propri punti vendita.

Il Retail dovrebbe e potrebbe avere un approccio più umile ma, al contempo, molto più efficace sul tema.

Un ruolo fondamentale proprio perché si trova ad essere- ben più dell’industria- a stretto CONTATTO col consumatore finale, ovvero colui che compie le scelte e col quale può instaurare un DIALOGO sui valori della sostenibilità (non solo ambientale ma anche sociale) rifuggendo l’idea di essere lui “educatore” del cliente, anzi sapendo restare in ASCOLTO dei desideri, dei bisogni e dei feedback proprio dei clienti.

Il ruolo del Retail può essere fondamentale anche per la capacità di agire sulle FILIERE produttive, attraverso la selezione dei propri fornitori, e la capacità di guida di quelli verso gli obiettivi di sostenibilità (anche economica, ovvero in grado di garantire la corretta retribuzione a tutti gli anelli della filiera).

Un ruolo cruciale pertanto, ma estremamente difficile da interpretare proprio perché- tornando a quando dicevo sopra- si tratta di fare scelte oggi i cui benefici si vedranno domani.

Una scelta strategica, in sintesi, in un Retail troppo spesso votato alla tattica…

Daniele Cazzani

#HUMANRETAIL

Non è più tempo per ALIBI (nonostante ve ne sarebbero molti in questo periodo..).

È tempo che il Retail si focalizzi sui propri CLIENTI- ricordandosi l’errore fatto negli anni passati in cui ha lasciato questo vantaggio competitivo ai player dell’online- non ascoltando chi dice che la “CUSTOMER CENTRICITY” sia una chimera (affermazione che sembra una versione moderna della favola del lupo e dell’uva di Esopo).

Il Retail deve concentrarsi anche sulle sue PERSONE, tra le quali si nascondono TALENTI e passioni che non attendono altro che di essere ascoltati e attivati.

La Distribuzione si trova di fronte a un bivio importante che richiede scelte e CORAGGIO: non è più tempo di tattici 3×2 o sottocosto ma di una profonda INNOVAZIONE, non tanto digitale quanto nei propri manager e nelle proprie STRATEGIE.

Nel video le mie considerazioni al termine del Marketing & Retail Summit di Milano che,come sempre, è stato un ricchissimo di spunti e stimoli.

@danielecazzani

UN MESSAGGIO PER I CEO DELLA GDO: ASCOLTATE EINSTEIN

“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose […] La crisi porta progressi […] E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà […] dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza”.

Non sono solito sfruttare frasi di altri- ritengo il vezzo del citazionismo il car sharing del pensiero- ma questa frase di  Albert Einstein è, mio avviso, perfetta per sintetizzare lo stato dell’arte della distribuzione italiana.

Questa amara constatazione sorge dopo avere seguito- come sempre a distanza- i lavori de Linkontro 2022 organizzato da NielsenIQ in cui ho visto molta attenzione sul tema dell’inflazione- tema pressante ma contingente- delle filiere, della sostenibilità, della transizione digitale. Beninteso si tratta di temi certamente fondamentali dell’oggi e del domani ma quello che mi è parso mancare è una seria riflessione su cosa si debba cambiare per vincere le nuove sfide.

Questa domanda, tra l’altro, andrebbe posta mettendosi nei panni del cliente. Pensiamoci: che differenza sostanziale c’è nella politica promozionale e commerciale del 2022 rispetto a quella di 20 anni fa? Sempre volantini… Anche le logiche che guidano gli assortimenti e il rapporto con l’Industria non sono poi cambiate (fatta eccezione per l’affermazione delle pl, che sono ben lungi dall’essere la soluzione di tutti i mali però). Idem dicasi per gli schemi dei programmi loyalty. E potrei continuare… 

Gattopardescamente si realizzano negozi sempre più belli e high tech ma il cuore non cambia.

Serve coraggio e inventiva per cambiare i paradigmi. Ne parliamo al prossimo meeting?

@danielecazzani

C’ERA UNA VOLTA UN NUMERO VERDE…

DAL N.310 DI MARK-UP

A quanti non è capitato di scontrarsi con infiniti tempi di attesa dopo avere chiamato un numero verde o, peggio ancora, di sentirsi come frustrati Indiana Jones, alla disperata ricerca di un riferimento del customer service su un sito web?

Inutile nasconderselo: il customer service solitamente non è nelle priorità dei CEO del retail; anzi, è vissuto come un obbligo piuttosto che un’opportunità.

Ad aggravare questa (erronea) sensazione negli ultimi anni i touchpoints del customer service si sono moltiplicati: un tempo bastava avere un indirizzo di posta, poi sono arrivati i numeri verdi, quindi le e-mail e ora i canali social, whatsapp…

La moltiplicazione dei canali di contatto ha moltiplicato i costi e spinto tanti retailers ad esternalizzare il servizio col solo obiettivo di ridurli. Il punto non è se questa scelta sia a prescindere giusta o sbagliata ma ricordarsi quali sono i fattori chiave del customer service: le persone (che devono essere costantemente formate e ingaggiate), le tecnologie che queste usano e, ancor più una cultura aziendale che ne riconosca il ruolo.

Inoltre è necessario dotare il customer service di metriche. Queste solitamente sono di tipo transazionale- quali la percentuale di chiamate gestite su quelle in entrata, il tempo medio di risposta, il tempo di risoluzione…- anche se negli ultimi anni si sono aggiunte metriche relative alla soddisfazione del cliente sull’assistenza ricevuta.

Il passo successivo sarebbe aggiungere nuove metriche che misurino impatto del customer service sui risultati del business in termini non solo, o non tanto, di vendite quanto di retention dei clienti e aumento del loro valore.

In conclusione c’è ancora molto da fare prima che il metaverso ponga nuove sfide anche su questo fronte.

@danielecazzani

UNA VECCHIA CABINA TELEFONICA E L’E-COMMERCE GROCERY

DA MARK-UP N. 309

Negli ultimi anni, sopraffatta dalla crisi del non food assediato dall’avanzata dell’e-commerce, buona parte della grande distribuzione si è rifugiata nel mondo del grocery e dei freschi- con puntate perfino nella ristorazione- sperando di trovare in quello spazio un’oasi di tranquillità al riparo da Amazon & c.

Un comportamento umano- troppo umano, direbbe Nietzsche- che avevamo visto in passato in altri settori. 

Pensiamo a quanto accaduto nelle tlc dove l’avvento della telefonia mobile ha sconquassato un settore che si considerava intoccabile, trasformando in pochi anni le cabine telefoniche in un prematuro esempio di archeologia industriale.

Oppure pensiamo alle banche che- molte ancora oggi- guardano con distacco il mondo delle web-bank pensando sia destinato a rimanere una nicchia, mentre fra non molti anni le filiali bancarie- già sotto scacco per le fusioni nel settore- saranno immobili da convertire a kebab (o quant’altro) e poco dopo toccherà ai bancomat…

La mia raccomandazione alla GDO quindi è di aprire gli occhi prima che sia troppo tardi, evitando di pensare che vi siano oasi tranquille.

Beninteso, non dico affatto che tutto sia ineluttabile, ma nascondere la testa sotto la sabbia non aiuta certo ad affrontare il futuro per il quale servirebbe rivedere lo stesso paradigma della distribuzione così come oggi la intendiamo. C’è forse qualcuno che si sente di affermare che il settore abbia conosciuto importanti innovazioni negli ultimi anni? Basterebbe guardare la propria cassetta postale zeppa di volantini promozionali o un ipermercato per avere seri dubbi sulla fondatezza di una tale affermazione.

@danielecazzani

UN NUOVO LESSICO PER IL RETAIL

MIA OPINIONE SUL N. 306 DI MARKUP

E’ risaputo che il Retail tenda a innamorarsi facilmente delle nuove parole con una velocità che ha spesso ritmi parossistici. Solo per fare un esempio non ci si era ancora abituati al concetto di “multichannel” che ecco comparire “omnichannel”…

Le parole nel Retail hanno spesso un’indubitabile fascino. Pensiamo a “customer centricity” che raccoglie unanimi consensi tra tanti addetti del settore salvo poi scoprire che in pochi sanno come tradurlo in realtà limitandosi a inserirlo in qualche slide.

Altro vezzo del Retail è l’utilizzo di parole anglosassoni talvolta meno efficaci dei cari vecchi termini del dizionario Garzanti.

Pensiamo alla parola “store” che ha soppiantato il termine “negozio”.

A onor del vero il termine negozio- dal latino “nec-otium” ovvero non oziare, fare- è molto più corretto vista la sempre maggiore centralità della rel-azione nelle scelte dei consumatori, rispetto al termine inglese (“store”) che rimanda più a una mera funzione di stoccaggio dei prodotti.

Anche l’avvento del CRM ha reso familiari parole come target, cluster, personas ma ci ha fatto perdere di vista la “persona” pensando che solo i dati potessero darci una rappresentazione dell’universo dei nostri clienti, che invece è molto più complesso.

Per molti potrà sembrare superfluo discettare di questa o quella parola, eppure dovremmo ricordarci di Lucrezio che, nel I secolo a.C., scrivendo il suo poema sulla natura confessava di creare, durante veglie stellate, quelle parole che lo potevano aiutare a diffondere nuove idee.

Anche al Retail serve forse ripensare a un nuovo lessico che abbia però il coraggio di attingere anche al suo passato.

@danielecazzani

IL RETAIL E IL SACRO GRAAL (L’ENNESIMO) DELLA GENERAZIONE Z

Ipsilon, Millennials, Zeta, Alpha… Alzi la mano chi di fronte al fiorire dei nomi delle nuove generazioni non avverte spesso una sensazione di spaesamento.

Soprattutto in questi ultimi anni il retail si è concentrato sulle ultime arrivate di questa lunga (infinita) lista, nel tentativo di diventarne interlocutore e conquistarne fiducia e portafoglio.

Gli studi sociologici su queste ultime generazioni per comprendere quali siano ne siano le caratteristiche valoriali e di approccio al consumo si sprecano. Oltre alla scontata dimestichezza con tutto ciò che è digitale– il sottoscritto, invece, può ancora ricordarsi lo stupore nel giocare a Space Invaders con la prima consolle Atari 2600- gli studi raccontano di come siano molto attenti alla sostenibilità sociale e ambientale, alle esperienze da condividere più che ai consumi da ostentare e naturalmente… social.

Il fatto che si tratti di generazioni con un minore potere d’acquisto- molti sono infatti ancora studenti e dipendenti dalle famiglie- sembra interessare poco il retail che negli anni ha moltiplicato i touchpoints per prendere all’amo questi consumatori e vendere loro qualcosa, trascurando forse troppo la loro ricerca di ascolto e dialogo che i sociologi invece non mancano mai di sottolineare.

Anche in questo caso il retail ha dimostrato spesso di muoversi in base a un riflesso condizionato più tattico che strategico: come nel caso dell’adozione delle nuove tecnologie (quanti siti di e-commerce abbiamo visto nascere senza considerarne i connessi aspetti logistici!?) anche alla parola d’ordine “la generazione z deve essere nostra!” abbiamo registrato una fioritura di iniziative approssimative con brand dalla secolare tradizione tentare goffe e poco credibili virate verso linguaggi e marketing da startupper.

In tutto questo affaccendarsi il retail rischia spesso di perdere di vista uno dei tasselli fondamentali di qualsiasi strategia di marketing che è la definizione del proprio target.  Pensiamo ad esempio alla GDO, per cui la demografia dovrebbe contare davvero poco: nelle corsie di un supermercato si vedono giovani studenti e coppie di anziani, così come single o famiglie con bimbi al seguito. Insomma uno spaccato della nostra società.

Immaginare di parlare solo a una porzione di quei clienti può essere pericoloso così come illudersi che basti personalizzare il linguaggio (anziché il messaggio) in base all’età del cliente: il rischio, in quel caso, sarebbe una cacofonia di difficile interpretazione.

Inoltre dobbiamo considerare come anche le ricerche che prima citavo siano spesso riassunte in fotografie alquanto semplicistiche delle diverse generazioni.

Scorrendo questi riassunti scopriremmo ad esempio come i baby boomers risultino essere persone affezionate ai brand, con reddito medio alto, salvo poi riflettere sul fatto che buona parte sono oggi pensionati (con limitata capacità di spesa)…

Personalmente credo che il retail dovrebbe fare proprio l’approccio di Amartya Sen che (nel suo famoso saggio “Identità e violenza” dall’ancora più profetico sottotitolo “L’illusione del destino”) metteva in guardia dall’applicare semplicistiche etichette a una persona (o a una generazione, nel nostro caso).

Il lockdown ad esempio ha portato a una (forzosa) digitalizzazione anche dei baby boomers che non hanno impiegato molto a trovarsi a loro agio negli spazi dell’e-commerce: anzi, recenti analisi, dicono proprio che una quota importante della crescita dell’online sia imputabile a questi nuovi adopters. In pratica la loro fotografia si è rapidamente modificata.

In conclusione, il retail, questo è il mio modesto suggerimento, dovrebbe capire quanto sia sbagliato concentrarsi solo su una generazione (solitamente l’ultima) o credere ciecamente alle etichette sociologiche: fare retail significa parlare col singolo cliente non con una “generation” quale che sia.

@danielecazzani

DAL NUMERO 305 DI MARK-UP

IL VALORE DELL’EMPATIA E IL CENTRO DI GRAVITA’ PERMANENTE DEL RETAIL

MIO ARTICOLO DA MARK-UP N.304

Il 2020 ha registrato una crescita impetuosa dell’e-commerce soprattutto nei prodotti (anche grocery). Questa crescita- certamente accelerata dal lockdown rispetto ai trend pre pandemia- non ha accennato a diminuire per tutto il 2021: oramai sono consolidate nuove abitudini di acquisto da parte dei consumatori, non solo da parte delle fasce più giovani d’età.

Questa accelerazione ha costretto di fatto moltissimi retail a non considerare più il sito di e-commerce come il canale “cenerentola” della propria strategia commerciale ma, al contrario, come efficace soluzione per compensare le criticità della propria rete fisica, investendo in esso una parte consistente dei budget.

Ora bisogna evitare il rischio che il focus si concentri sull’e-commerce dimenticando il retail brick & mortar che anche le nuove generazioni dicono comunque di preferire per le proprie esperienze di acquisto.

Quello che serve è trasformare anche il retail b&m in un… e-commerce, dove la “e” però stia a significare “empatia”.

La possibilità di costruire relazioni umane in tempo reale resta il punto di forza del retail fisico: di fatto l’empatia- che qui interpreto come predisposizione all’ascolto e alla scoperta dei desideri e delle necessità del cliente- costituisce la versione umana dell’intelligenza artificiale.

Una persona che entra nel negozio deve diventare in quel momento il centro di gravità dell’intero store. Ogni ingresso è opportunità per un incontro.

Perché ciò accada serve però investire sulle proprie risorse per costruire questa cultura dell’empatia e riscoprire il vero potenziale dei negozi.

Quanto stanno investendo i retailers in questa direzione?

@danielecazzani

LA SEDIA VUOTA

OPINIONE SUL NUMERO 303 DI MARK-UP.

Certamente customer centricity è termine che è risuonato più e più volte all’interno delle meeting room dei board di tante aziende retail. Peccato che solitamente ad ascoltare quella parola d’ordine non vi sia alcun rappresentante dei clienti.

Per capire quale sia il gap da colmare nella cultura del cliente all’interno della vostra azienda vi invito ad analizzare il vostro organigramma aziendale per verificare se- a pari grado rispetto a CMO, CFO e affini- sia prevista una figura dedicata al cliente che, per semplicità, potremmo chiamare Chief Customer Officer.

Una volta verificata la sua presenza provate a capire che potere abbia all’interno dell’organizzazione, che leve possa manovrare, con quale funzioni sia interconnessa: in sintesi che capacità abbia di influire sulle vostre scelte di indirizzo strategico.

Il cliente infatti non è solo la persona che invitiamo a mettere un like a un nostro post sui social o ad effettuare un particolare acquisto: è, o meglio dovrebbe essere, il vero stakeholder del retail.

Lo sappiamo tutti: ascoltare la voce del cliente può essere difficile, fastidioso, urticante. Il cliente è, in fondo, come uno specchio che restituisce la nostra vera immagine, a volte molto distante da quella che pubblicizziamo sui media.

Dicevo, un atto forse fastidioso ma necessario. I nostri clienti oggi ci danno migliaia di feedback, attraverso i loro acquisti, la loro valutazione dell’esperienza d’acquisto (pensiamo a tutto il potenziale, in parte ancora inespresso, del Net Promoter Score), l’interazione col nostro sito o il customer service: un’autentica miniera d’oro cui attingere.

Per questo il retail non può più permettersi che quella sedia resti vuota: anche nelle board room deve arrivare, forte e chiara, la voce del cliente.

@danielecazzani

LA NON ISOLA E I SUOI TESORI (CLIENTI E FILIERE)

CONSIDERAZIONI PER IL RETAIL SUMMIT DEL 22.09.2021 PUBBLICATE SUL NUMERO 302 DI MARKUP MAGAZINE

Citando una frase di J.Donne- resa famosa dallo spot del principale player del settore- potremmo dire che nessun insegna della GDO è un’isola.

Se nello spot si intendeva dire che un supermercato vive in un territorio fatto di persone, passioni, storia e cultura, la mia provocazione vuole essere quella di invitare gli attori della GDO a non immaginarsi come isole autosufficienti.

Il rischio, altrimenti è di bloccare le propria evoluzione come evidenzia il caso degli ipermercati, ieri punta più evoluta del retail, oggi è sempre di più in difficoltà.

Partendo da questa consapevolezza la GDO dovrebbe aprirsi a collaborazioni con soggetti terzi, guardando ad esempio al mercato delle start-up, non tanto per comprare licenze quanto per studiare nuovi approcci al mercato e ai clienti.

Il tutto in ottica omnichannel, senza illudersi che basti un sito di ecommerce o il click&collect  per sentirsi “al passo coi tempi”.

Servono ibridazioni di forma ma, soprattutto, serve disegnare nuovi modelli di business: pensiamo al potenziale della membership economy che potrebbe divenire la chiave di (s)volta per esprimere il grande potenziale delle carte fedeltà della GDO finora rimasto inesplorato (i clienti sono il vero tesoro!).

Allo stesso modo serve una nuova visione anche sul ruolo delle filiere, facendo evolvere il paradigma del fornitore in quella di una moderna partnership che spinga all’innovazione, alla qualità e alla sostenibilità (delle risorse e delle persone).

Il prossimo Retail Summit ci dirà se e quanto questa consapevolezza sia diffusa e le organizzazioni pronte a puntare nell’unica direzione corretta: quella che porta al cliente.

@danielecazzani