L’equivoco promozionale nel Retail. Promuovere non significa (solo) scontare…

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Quando si parla di pressione promozionale si è soliti pensare all GDO. Dopo tutto, quello della Grande Distribuzione è un settore che negli anni ha conosciuto un forte incremento di questa leva di marketing (una delle famose 4 P di Kotler) arrivando a medie del 30% (con punte anche superiori al 50% in alcune categorie) e con la quale noi tutti da consumatori abbiamo a che fare. Cosa sono, dopo tutto, i volantini promozionali che riceviamo quotidianamente nella nostra cassetta postale, se non una tangibile dimostrazione che le promozioni sono sempre tra di noi?

A ben pensarci, però, il problema della pressione promozionale non è affatto questione della sola GDO.

Il tic dello sconto sempre e comunque interessa tanti altri settori del moderno Retail.

Facciamo un esempio. Avete intenzione di comprarvi un divano? Approfittate della promozione “Metà Prezzo”! Anzi no, attendete ancora una settimana perché parte la promozione “Sotto Costo”!! No, ancora un minuto: forse è meglio approfittare della promozione “Doppi Saldi”.

Qualcuno dirà: “ma i consumatori amano le promozioni!”.

Certamente il prezzo è sempre un driver di scelta importante come dicono tutte le ricerche di mercato (qui l’estratto dell’ultimo Osservatorio Multicanalità di Nielsen e del Politecnico di Milano che da anni seguono i cambiamenti del consumatore Consumatore Multicanale_ Nielsen e PoliMi) e novità quale il dynamic pricing nell’ecommerce (dove il prezzo assume ancora un valore maggiore) vanno sempre in questa direzione, ma altra cosa è dire che il consumatore ami le promozioni tout court.

Quando si parla di “risparmio” per il consumatore possiamo in realtà individuare diverse esigenze: vi è che cerca la promozione di prezzo in quanto tale (cherry pickers), altri (money savers) che hanno un approccio più razionale e più attenti al value for money; altri ancora sono attenti al risparmio di tempo o a componenti di servizio (ad esempio garanzie, servizi post vendita ecc) cui danno valore tanto quanto il prezzo del prodotto acquistato.

Insomma il panorama (del consumatore e del suo rapporto col prezzo) è più complesso di quanto si voglia spesso semplicisticamente rappresentare.

Affidandoci alla Treccani e cercandone l’etimologia, troviamo conferma che dal latino “pro-movere” il termine promuovere dovrebbe significare “andare avanti, fare avanzare, progredire”.

Evidentemente, declinato in ambito retail, possiamo pensare a far progredire le vendite, ma perché non anche la relazione col Cliente?

Personalmente ho molti elementi che mi fanno pensare che buona parte delle promozioni che vediamo quotidianamente dispiegate rispondano a logiche di breve periodo, e siano spesso risposte per obiettivi altrettanto brevi e tattici, oppure altri rispetto a quello di un consolidamento del rapporto col cliente. Ad esempio buona parte delle promozioni nella GDO nascono da esigenze (legittime, ovviamente) dell’Industria e legate a volumi di produzione e obiettivi di sell-out.

Ma così interpretata e gestita la leva prezzo rischia di essere un boomerang, sia perché spesso l’efficacia promozionale (indicatore quanto mai grezzo se si pensa ai soli volumi di vendita, senza invece guardare in modo più ampio al periodo pre e post promozione e al più generale comportamento del consumatore) risulta debole e in calo, sia perché questo approccio mina alle radici il valore dei brand e il suo posizionamento nella mente del consumatore.

Inoltre- e non è annotazione di poco conto- il prezzo è leva facilmente imitabile dai nostri concorrenti. Ma nonostante questa evidenza sia riportata nelle prime pagine di qualsiasi manuale di marketing, ogni giorno viene ignorata.

Paradossalmente la sempre minor efficacia delle promozioni (documentata da più ricerche) ha visto paradossalmente come risposta un incremento della pressione promozionale stessa (incrementando le percentuale o i panieri oggetto di sconto), come se ci si volesse convincere che l’efficacia è correlata all’entità dello sconto. E’ banale dirlo, ma non è così. Purtroppo per quanto banale questa realtà è ancora poco accettata…

Inoltre, senza aprire qui a un tema (il brand positioning) che richiederebbe molto più spazio, mi chiedo, tornando all’esempio dei divani: un divano scontato da 1.000 euro a 500 euro, siamo sicuri che per il cliente valga davvero 1.000 euro? Che senso ha affermare che quello sia il suo prezzo per abbatterlo poi in maniera così consistente?

Le promozioni poi scontano oggi un altro grave difetto: la loro quasi assoluta indistintività. Si tratta infatti normalmente di promozioni (leggasi sconti) mass market, non calibrati sul singolo Cliente, e quindi con appeal diversi in funzione del destinatario.

La disponibilità di dati sul comportamento del Cliente renderebbe invece possibile declinare queste azioni sui singoli, col grande valore aggiunto di definire per ciascun cliente diversi obiettivi (incentivo all’acquisto, aumento dello scontrino, aumento della frequenza d’acquisto per citare solo gli esempi più banali), a tutto vantaggio dell’efficacia di questa (consunta) leva. Ancor meglio le nuove promozioni potrebbero essere finalizzate a incidere sul comportamento del Cliente non solo in negozio ma anche in altri ambiti (pensiamo al passaparola, ad azioni quali il member get member, o ancora alla possibilità di sfruttare l’esperienza del Clienti per costruire panel su nuovi servizi o prodotti in fase di test).

Solo calibrate sul singolo cliente le promozioni (lato sensu intese) potrebbero essere rivitalizzate e divenire strumento davvero efficace per consolidare le strategie dei retailer.

Così in un moderno Retail “promuovere” dovrebbe assurgere a un nuovo significato. Ovvero valorizzare anche tramite la leva prezzo i contenuti di prodotto e di servizio, del bene proposto e acquistato dal cliente.

Un passaggio certamente non facile e che mette in forse tante consuetudini ancora diffuse- che dovrebbero essere in crisi anche solo guardando i risultati delle odierne promozioni- ma quanto mai necessario per garantire sostenibilità ai conti economici e una base solida a strategie che abbiano orizzonti più ambiziose del solo “oggi”.

@danielecazzani

LA PROMESSA SMARRITA DELLA #LOYALTY E L’INSEGNAMENTO DELLA GOLCONDA DI #MAGRITTE PER UN NUOVO #CRM

Quanti retailer sono veramente interessati a conoscere il proprio cliente? E quanti tra questi possono dire di conoscerlo veramente? All’apparenza si tratta di due domande molto semplici ma che nascondono pericolose insidie.

Andiamo però con ordine.

Per quanto la conoscenza del proprio cliente dovrebbe costituire un patrimonio fondamentale per il retail, spesso l’enorme mole di dati sui cui questi letteralmente siedono non è divenuta patrimonio comune e non è riuscita a influenzare le scelte strategiche, di posizionamento e commerciali degli stessi.

Ecco perché parlo di promessa smarrita, o peggio ancora persa; perché non valorizzando quella conoscenza il retailer hanno di fatto rinunciato a dialogare coi propri clienti.

Nascono così progetti loyalty che iniziano e finiscono in un pezzo di plastica, frettolosamente consegnatoci alla cassa e di cui spesso ignoriamo i vantaggi. Oppure programmi loyalty fotocopia l’uno dell’altro- con le medesime meccaniche di accumulo e conversione punti ad esempio- mere cornici per collection o cataloghi sempre più poveri e stanchi.

E pensare che la possibilità che il cliente concede al retailer di accedere ai propri dati e transazioni si dovrebbe basare su un patto semplice e chiaro, un moderno do ut des: il cliente acconsente alla lettura dei propri dati per ricevere in cambio valore, servizi, vantaggi. Invece questa promessa viene spesso, troppo spesso, non rispettata (e non certo da parte del cliente, che spesso inconsapevolmente, fornisce al retail una serie impressionante di dati su di sé e le proprie abitudini di consumo).

Per questo sono convinto che il retail debba ridisegnare il rapporto col proprio cliente. Col singolo cliente. Partendo da Magritte e da uno dei suoi quadri più famosi: Golconda

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Osserviamo il dipinto. In apparenza una pioggia di uomini identici l’uno all’altro. Ciascuno vestito nel medesimo modo, con la classica bombetta. Tutti uguali proprio come i clienti si potrebbe dire. Eppure…

Eppure, tutti quegli uomini sono diversi: ciascuno si trova in una posizione diversa, chi rivolto verso di noi chi no, e in una diversa relazione spaziale rispetto agli altri. Attenzione quindi a considerare tutti i clienti uguali!

La sfida per il retail è avvincente. Portare a valore i dati quantitativi (generati dalle transazioni di acquisto) e arricchirli con dati qualitativi che possano misurare, ad esempio, la shopping experience dei clienti, o ancora la loro capacità di divenire ambassador per il propri prodotti o servizi, piuttosto che l’interazione col brand sul web e i social e via dicendo.

Quando parliamo di trasformare in quantitativi elementi qualitativi in molti penseranno al  famoso Net Promoter Score. Ma, aggiungo provocatoriamente, una nota: se ci ricordiamo che questo indice nasce negli anni Settanta è evidente che sia molta la strada da fare per arrivare a costruire nuove metriche per il nuovo cliente/consumatore omnichannel.

Per fare questo percorso non esistono kit pronti all’uso.

Ciascun retailer deve essere capace di costruire dei propri strumenti perché il proprio cliente è unico, così come lo è quella relazione che un moderno CRM e una Loyalty finalmente al centro delle strategie aziendali, potranno costruire e rafforzare.

@danielecazzani

#Occhiali duepuntozero: un nuovo #marketing per il #retail dell’occhiale

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Riprendo con piacere un mio vecchio articolo di quasi quattro anni fa (era il lontano 12 marzo 2013…) in cui parlavo del retail nel settore dell’ottica, visto che il mio percorso professionale mi ha portato oggi a lavorare proprio nell’azienda leader di questo settore in Italia, e da poco entrata a far parte del più grande gruppo mondiale del settore.

Certo, rispetto al momento della prima redazione, le premesse sono fortunatamente cambiate- il mercato non è in sofferenza e la maggiore forza del retail ha permesso a molti operatori di coglierne le tante opportunità di crescita- ma restano forti i margini per un ulteriore crescita in un mercato estremamente frammentato, in cui l’integrazione verticale dalla produzione al consumatore pare essere oramai strada segnata (per chi avrà forza e capacità per percorrerla) con strategie che vedano al centro il cliente e i suoi bisogni.

Proprio perché convinto degli spunti allora proposti, ho deciso di riproporre oggi quell’articolo- scritto allora, lo ammetto, da outsider rispetto al settore- senza ritoccarne nemmeno una parola per quanto alcune delle semplificazioni (in parte obbligate per lo spazio a disposizione) oggi, mi rendo conto, potrebbero sembrare fin troppo forzate…

Ecco l’articolo.

 

I retailers del settore dell’occhialeria stanno registrando performances negative sia in termini di volumi che di valore- sia nel comparto “vista” che “sole”- in funzione di due tendenze:

  1. nel comparto delle montature, un aumento dell’incidenza degli home brands a danno della quota dei luxury brands, e
  2. un allungamento del tempi di sostituzione degli occhiali (oramai superiore ai 3 anni).

Mi permetto di semplificare il contesto (evitando fini distinzioni tra lenti e montature, tra occhiali e lenti a contatto, e via dicendo) ed evidenziare quelli che a mio avviso sono due forti elementi di debolezza:

  1. la indistintività dell’offerta commerciale tra le diverse insegne, e la conseguente forte dipendenza dall’industria dell’occhiale che, come sappiamo, è fortemente concentrata nelle mani di alcuni players nazionali;
  2. l’aumento della pressione promozionale per sostenere i volumi di vendita.

In merito al primo punto, non vi è dubbio che gli aspetti della moda e del brand siano ancora molto forti, visto che per molti consumatori l’occhiale è un accessorio fortemente personale, che parla dello stile o del modo di essere di chi lo indossa: anche gli occhiali da vista infatti da mero strumento correttivo di difetti oculistici, sono oramai divenuti uno shopping goods. Tale considerazione è ancor più valida nell’ambito degli occhiali da sole, ove l’acquisto presenta caratteri più impulsivi e la comunicazione pubblicitaria riveste un ruolo ancora più importante.

Ma se davvero l’acquisto di un occhiale branded è per il consumatore un modo per entrare nel mondo dei luxury goods, mi chiedo, provocatoriamente, per quale motivo i retailers non investano nella shopping experience del cliente, che risulta invece estremamente povera e indistinta nelle principali catene. Senza con questo negare la componente “tecnica” e “medicale” del mondo dell’occhiale, i negozi dovrebbe superare l’aspetto normalmente freddo e ambulatoriale, ispirandosi a brand del settore moda: l’acquisto di un occhiale (correttivo o meno che sia) potrebbe essere decisamente più emozionale, vivace, interessante, sociale. Per fare questo i retailers dovrebbero iniziare dall’analisi della shopping journey del cliente multicanale e disegnare percorsi flessibili di avvicinamento al punto vendita fisico, con servizi di personalizzazione delle offerte, ed enfatizzando la componente social (condivisione) dell’acquisto.

Anche gli assortimenti dovrebbero essere più narrati e meno caotici: per quanto alcuni negozi abbiano provato ad organizzare l’offerta inventandosi cluster sinceramente opinabili (penso alla suddivisione in “stile”, “eleganza”, “colori” e via dicendo di uno dei leader del settore) la sensazione che vive il cliente è quella spesso dello spaesamento e dell’eccesso di offerta, che, come insegna il Prof.Lugli dell’Università di Parma in altri contesti, può portare alla paralisi, e all’ansia (e quindi al non consumo). E’ prioritario migliorare la rappresentazione della scelta.

Pensiamo anche al mondo junior: un altro target cui molti retailers paiono assolutamente indifferenti, mentre molto si potrebbe fare per rendere meno “traumatica” l’esperienza di acquisto per un bambino “costretto” a utilizzare fin da piccolo gli odiati occhiali, e minimizzare la sindrome “Quattrocchi”. Potrebbe divenire un elemento di distinzione per il primo player che vi si applicasse con interesse e intelligenza.

Venendo al secondo punto il rischio è che- come già capitato nella GDO- il progressivo aumento della pressione promozionale porti non tanto a un incremento dei volumi e dei valori, ma a una riduzione dei margini (per tutta la filiera) e a un’alterazione del comportamento d’acquisto dei clienti, trasformati sempre più in soggetti price sensitive, con l’effetto di vanificare gli interventi effettuati sul primo punto.
Almeno finché con un’azione di lobbying gli attori del settore non riusciranno ad imporre una regolamentazione che  preveda un “tagliando” obbligatorio ai propri occhiali correttivi (per quanto gli italiani paiano non prestare molta attenzione alla cura delle proprie lenti, dobbiamo sempre ricordare che si tratta di presidi medici) così da ridurre i tempi di sostituzione (almeno) delle lenti, ritengo che la strada obbligata sia quella di lavorare sugli assortimenti (e la loro architettura e narrazione) e sulla costruzione di una shopping experience più appagante e distintiva, che parta da un ridisegno fisico del punto vendita e da un salto di qualità nel marketing (anche sul fronte della relazione e fidelizzazione del cliente).

Daniele Cazzani @danielecazzani

#Disabilità e #retail: quante barriere a una strategia inclusiva?

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Sabato 3 dicembre è stata la Giornata Internazionale delle Disabilità. Vorrei qui condividere una mia brevissima riflessione su come il retail potrebbe e dovrebbe affrontare questo tema, partendo da un semplice dato: in Italia sono circa 3 milioni le persone con forme di disabilità.

Quello delle barriere architettoniche è tema noto ai più, ma spesso si pensa che queste siano costituite solo dai gradini sui marciapiedi, o dalle strade dissestate; o ancora che il problema principale sia la mancanza di posti auto dedicati alle persone con disabilità o la presenza di dislivelli agli ingressi di un negozio… Certo quelle citate sono vere e proprie barriere per le persone con disabilità motorie, ma l’elenco delle difficoltà che un disabile deve affrontare all’interno di un negozio è ahimè molto più ricco.

E’ infatti indubbio che anche i negozi moderni siano spesso dei labirinti di trappole e strettoie ostiche per chi non abbia la piena libertà di muoversi o abbia altre disabilità (all’udito, alla vista…).

Pensiamo a un supermercato.

L’altezza degli scaffali- con la connessa impossibilità di raggiungere i prodotti esposti- o di alcune attrezzature di aree a libero servizio (le ceste e le bilance dell’ortofrutta), o ad altri elementi di servizio (come i terminali pos alle casse), la larghezza stessa dei corridoi casse, o la spesso caotica comunicazione di prezzo (talvolta di dimensioni così minime da mettere in difficoltà chiunque), unita al disordine che spesso regna nelle corsie- con scatole abbandonate ai piedi degli scaffali- possono rendere il fare la spesa una sfida quasi impossibile alle persone con disabilità.

Se pensiamo che “fare la spesa” dovrebbe costituire un diritto “minimo” per un disabile, possiamo forse immaginare (solo immaginare) quanto il vedersi preclusa questa possibilità possa costituire una ferita alla dignità della persona.

Personalmente ritengo che quella preclusione dovrebbe essere ritenuta una ferita anche per un retail moderno.

L’e-commerce da questo punto di vista è privo di barriere e i servizi che è in grado di offrire- pensiamo alla consegna a domicilio- rappresentano a tutta evidenza una risposta efficace ai problemi della disabilità.

Risposte e servizi spesso non disponibili ovunque né per tutte le categorie di spesa e con costi talvolta superiori a quelli del retail tradizionale. Così che all’assenza di barriere “tecniche” si sostituisce la presenza di barriere economiche.

Quella degli spazi fisici è certamente solo uno degli ambiti di intervento per il retail sul tema della disabilità, senza con questo precludere interventi in altri campi (penso ad esempio alla formazione del personale per una corretta gestione relazionale della clientela con disabilità).

Progettare i negozi pensando a tutta la propria clientela, è certamente una sfida importante per il retail di oggi e di domani.

La capacità di coglierla e vincerla sarà a mio avviso segno di una visione capace di mettere davvero al centro il cliente e di una strategia pienamente inclusiva e non esclusiva.

In conclusione mi piace immaginare che le associazioni di categoria e i principali attori del retail italiano, sappiano farsi attori protagonisti di questo percorso, magari fissando a un anno da oggi un momento di incontro per fare il punto sui passi avanti compiuti e le sfide ancora da cogliere. Insieme. A beneficio di tutti i propri clienti.

Grazie per l’attenzione.

@danielecazzani

#bigdata, #bigfoot e… #bigbubble. La conoscenza del cliente nel #loyalty #retail

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In tanti dicono di averli visti, ma in pochi nella realtà ne saprebbero documentare la reale conoscenza…

Il destino del bigfoot sembra stranamente assomigliare a quello dei bigdata, di cui si parla molto- soprattutto in convegni, ricerche e workshop- e nel quale la maggior parte delle aziende retail giura di credere. E di investire sempre di più come testimoniano ricerche recenti (vedi http://www.techweekeurope.it/data-storage/forrester-crescono-gli-investimenti-in-big-data-98697), pur rappresentando ancora una quota minima degli investimenti IT.

Prima però di vedere quanto viene investito in questa “nuova frontiera”, la domanda da porsi è perché lo si faccia, o meglio ancora, quali siano gli obiettivi che attraverso i bigdata si possano conseguire.

E’ infatti piuttosto evidente che l’interconnessione tra diversi sistemi attraverso i quali transitano i dati delle transazioni e dei profili dei clienti, unita alla multicanalità del consumatore, siano dei fantastici generatori di dati, di fronte alla cui mole però la reazione può essere paradossalmente di stallo.

Partiamo da due (mai troppo banali) considerazioni preliminari:

  1. la conoscenza del Cliente è un patrimonio inestimabile per il Retail

  2. la carta fedeltà è lo strumento centrale della strategia di relazione e conoscenza col Cliente

Se la prima asserzione troverebbe tutti d’accordo, nella realtà dobbiamo registrare come in tanti casi la situazione sia ancora ferma, con retailer che dimostrano di considerare il cliente un unico soggetto, senza attività specifiche per distinti target; e senza che le analisi dei comportamenti d’acquisto (o non acquisto) incidano sulle scelte commerciali, promozionali, di assortimento ecc.

Lo testimoniano i grandi investimenti in campagne promozionali e media mass market, e l’ancora ridotto peso degli investimenti nel CRM.

La carta fedeltà, a sua volta, è ancora troppo spesso un’appendice delle strategie aziendali: un qualcosa che si deve avere in una short list degli strumenti di marketing da spuntare, ma della cui reale utilità molti paiono dubitare…

Quello che manca è talvolta la consapevolezza che alla base di un programma loyalty vi deve essere un semplice patto col Cliente, un sorta di moderno do ut des. Il Cliente permette di analizzare il proprio comportamento d’acquisto se in cambio di questa analisi, il retailer si dimostra in grado di offrire una migliore esperienza d’acquisto fatta ad esempio di promozioni più efficaci e servizi dedicati.

Altrimenti il rapporto risulta sbilanciato e, nell’epoca del prosumerismo, i clienti non sono più disposti a premiare chi li consideri dei semplici numeri.

La conoscenza del cliente può aiutare i retailer nella definizione delle proprie strategie e soprattutto nello sviluppo dei propri programmi loyalty, ma affinché ciò avvenga sono necessari tre elementi:

  • una chiara definizione degli obiettivi. Navigare nel mare magnum dei dati può essere oltremodo faticoso e oneroso, se non si hanno chiari quali siano i dati rilevanti per il proprio business…

  • la costruzione di metriche/kpi’s che permettano di misurare le perfomances delle diverse attività. Bisogna andare oltre le valutazioni manageriali di pancia e avere il coraggio di leggere e analizzare dati, anche quando, come uno specchio di mattina, non ci restituiscono l’immagine dei nostri sogni…

  • la condivisione di una cultura aziendale del dato e della loyalty che parta dal CEO e arrivi fino a tutto il personale del negozio. Senza il supporto delle persone, nessuna infrastruttura IT può essere in grado di dare vita a un efficace programma di loyalty.

E tutto questo senza più confini tra negozio fisico, piattaforme social, sito di e-commerce.

Sono confidente che questi e altri temi emergeranno venerdì 21 a Parma nel corso dell’annuale convegno dell’Osservatorio Fedeltà promosso dall’Università di Parma (www.osservatoriofedelta.it) perché la sfida è cruciale per disegnare il futuro del loyalty management: evitare che i bigdata si trasformino nell’ennesima… bigbubble senza cioè mai trasformarsi in driver dei processi manageriali, è l’ambizioso obiettivo che, prima ancora dei propri fornitori di soluzioni IT, i retailer più avveduti oggi si devono dare.

@danielecazzani

Il #volantino promozionale e il punto vendita: dicotomie e schizofrenie della #GDO

La pressione promozionale è prossima al 30% ma le più recenti analisi dimostrano che la sua efficacia si è andata via via riducendo… Cerchiamo di vedere le cose dal lato di un Cliente, tralasciando per un attimo le determinanti nel rapporto Industria e Distribuzione che hanno portato a questa situazione.

Nelle proprie cassette postali un consumatore riceve quasi quotidianamente almeno un volantino promozionale.

Apriamo quindi la cassetta postale. Vi sono manager della GDO che hanno paragonato la distribuzione door to door dei volantini a un delicata bussata alle porte dei consumatori. Immagine quasi bucolica, se non fosse che nella realtà la sequenza di bussate a lungo andare diviene tutt’altro che piacevole, generando un effetto di rigetto automatico. A quanti è capitato che un vicino di casa, un condomino, decidesse di default di svuotare una cassetta postale condominiale straboccante di carta?

Questo è anche determinato dal fatto che spesso riceviamo nella cassetta più volantini della stessa insegna e che le date di consegna variano così come variano le durate delle singole promozioni, che spesso si sovrappongono, senza un apparente ordine così che la possibilità di azzeccare la prossima data di consegna è pari a quella di fare “sei” al superenalotto. Può sembrare una banalità ma sarebbe così assurdo dare date certe alla ricezione del volantino, così da trasformarlo in un momento di incontro programmato se non addirittura atteso da parte del Cliente fedele (o perlomeno attento) alle promozioni di una particolare insegna?

Pesiamo ora il volantino. La numerica delle pagine è andata via via aumentando, così che spesso quello che ci si trova tra le mani assomiglia a una versione moderna di un vecchio catalogo postalmarket.

Osserviamo il volantino. Normalmente il titolo è gridato e promette “convenienza” e “risparmi” da non perdere: proprio come la nota catena di divani che ogni settimana ci invita ad approfittare dell’offerta imperdibile dell’anno, salvo poi, la settimana successiva, ripresentarsi con un nuovo spot tv che lancia una nuova offerta ancora più imperdibile, confidando evidentemente nella scarsa memoria a breve termine dei consumatori.

Sfogliamo il volantino. La sequenza dei reparti varia da volantino a volantino, e per evidenti motivi non è in grado di seguire il personalissimo percorso merceologico del Cliente all’interno di un qualsivoglia punto vendita. Così a volte la sequenza dei reparti prevede freschi-scatolame-nonfood mentre altre volte le prime pagine sono dedicati a offerte non alimentari e via variando (il calcolo combinatorio piace agli uffici marketing). A volte le offerte della medesima categoria merceologica sono polverizzate in più pagine: alcune nella normale pagina di categoria, altre nell’inserto di un determinato fornitore, altre ancora nella pagina riservata agli sconti per i titolari della carta fedeltà etc.

Già questa prima rapidissima descrizione del percorso che si chiede al Cliente di compiere per leggere il volantino, dovrebbe indicarci quanti e quali spazi di miglioramento vi siano. A guidare il racconto dell’offerta dovrebbe essere la consapevolezza delle esigenze del Cliente non il (talvolta astruso) risultato di un braccio di ferro tra uffici marketing, comunicazione e commerciale.

Ma poniamo caso che il Cliente decida, volantino alla mano (sappiamo bene quanto il volantino aiuti nella costruzione della lista della spesa), di recarsi nel nostro punto vendita.

Una volta arrivato il dilemma sarà dove trovare i prodotti in promozione. In un’area promozionale? Nella corsia e sullo scaffale dove sono normalmente esposti? Normalmente qui e là. Dopo tutto a tutti piace rivivere l’emozione di una caccia al tesoro, no?

Battute a parte- ma nessuno legge le ricerche di mercato che dicono quanto sia importante il fattore tempo nel fare la spesa?- capita spesso di non trovare un fil rouge tra volantino promozionale e punto vendita che spesso vivono di una comunicazione “fatta in casa” dove i codici colore della promozione saltano; dove quello che sul volantino si chiama “offerta” ed è scritto in rosso, sul locale di volta in volta si chiama “promozione” o “prezzo speciale” e cambia colore più di un camaleonte di corsia in corsia.

Sappiamo bene tutti come un punto vendita sia ricco di sollecitazioni per l’occhio e la mente del Cliente- a partire dal packaging dei prodotti- quindi potrebbe essere già un ottimo risultato lavorare con attenzione sulla comunicazione promozionale, identificando forme, colori e parole che permettano al Cliente tra gli scaffali un agile matching tra la promessa del volantino e la realtà dello scaffale.

Questa situazione, che di primo acchito potrebbe sembrare una distrazione o un difetto di coordinamento, denuncia a mio avviso una mancata centralità del Cliente nelle visione del retailer. Si chiede infatti proprio al Cliente di adattarsi alle variazioni sul campo della comunicazione, della disposizione della merce, anziché cercare di migliorarne la shopping experience che non è fatta di parole e promesse, e non è titolo da convegno, ma si compone più banalmente (!?) di attenzioni e servizi sul punto vendita.

Un altro elemento che abbatte l’efficacia promozionale è poi dato dalla schizofrenia promozionale della GDO.

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Vediamo questa foto. Un sabato pomeriggio in un ipermercato. Alla ricerca di scatolette di tonno incontro a poca distanza l’una dall’altra 3 offerte per formati identici o comunque simili!? Eppoi vorremmo misurare l’efficacia della leva promozionale!? Perlomeno dovremmo evitare scelte di auto-cannibalizzazione tra identiche offerte che nulla aggiungono al Cliente (tre proposte per rispondere sempre al medesimo bisogno!) e inficiano gli sforzi di marginalità di Industria e Distributore.

Si tratta a tutta evidenza di un mero esempio, ma la mia conclusione è che per migliorare le vendite, e l’efficacia della promozione, la strada da seguire non è tanto quella di aumentarne ancora l’intensità, quanto quella di eliminarne le schizofrenie e progettarle sforzandosi di vederle con gli occhi del Cliente partendo dai fondamentali: la promozione deve essere rilevante (deve esserne comprensibile il beneficio), efficacemente comunicata a volantino e nel punto vendita, evitando che questi due parlino linguaggi diversi, visto che l’interlocutore (il Cliente) è sempre lo stesso.

@danielecazzani

Un nuovo #NONFOOD per un nuovo #RETAIL: riflessioni a margine del 13mo Osservatorio NonFood @GS1Italy

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Lunedì 29 giugno a Milano GS1 (indicod-ecr.it) ha presentato i risultati della tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food che ha evidenziato come questo comparto abbia beneficiato della lieve ripresa nel 2014 dei consumi della famiglie italiane, con un incoraggiante +0,6% (che pone fine ad anni di pesanti flessioni pur lasciando la quota dei consumi non alimentari al di sotto del 15%).

Questo dato è evidentemente la media di situazione molto diverse tra i tanti comparti dell’universo non alimentare ma ciò nondimeno è un segnale positivo in un anno che ha visto una contrazione importante (-7%) nei punti vendita e la crisi aziendale di importanti player, uno dei quali solo due anni fa, proprio in occasione dell’Osservatorio Non Food dichiarava invece di avere individuato una nuova strategia, poi risoltasi in un leggero make-up dei propri punti vendita (evidentemente non apprezzato dai consumatori).

Preso atto dei numeri la domanda fondamentale da porsi a questo punto è però: il non alimentare ha raggiunto questo risultato grazie a nuove strategie e nuovi approcci oppure ha beneficiato della generale (mini)ripresa dei consumi?

Mia opinione è che il risultato sia ascrivibile in buona parte al secondo fattore, perché a fianco di alcune interessanti novità (cito lo svilippo di Ikea e, anche se relativa al 2015, l’arrivo in Italia di Zodio) gli ipermercati e tanti storici retailers specializzati paiono essere ancora in una situazione di stallo decisionale.

Pensiamo agli ipermercati che fino a poco tempo fa vedevano nel non food non dico la gallina dalle uova d’oro ma certamente un comparto da sviluppare (pensiamo ad alcuni “gigantismi” testati, con scarso successo, da insegne non italiane) e che ora invece stanno riducendo gli spazi, prendendo così atto che il non food non è affatto un’arena competitiva più facile del food: anche qui servono competenze, risorse umane (bello che se ne sia parlato ampiamente a Milano!) e strategie di medio lungo periodo.

Un altro piccolo esempio su un comparto- quello della GDO- che mi sta sempre a cuore. Avete presenti i settori libri e videogiochi di alcuni ipermercati: spazi dimenticati, dove l’assortimento pare essere stato disegnato dal caso (o dal caos?), con una noncuranza che stride rispetto all’attenzione al display merchandising che giustamente regna negli altri reparti. Mi chiedo: che senso ha destinare metri quadri (e lineari) di vendita a tali merceologie, per poi nella realtà abbandonarle (o come nel caso dei libri, darli in gestione esterna) come fossero corpi estranei. Ecco, la GDO dovrebbe fare questo: smettere di vedere il non food come un corpo estraneo rispetto alla propria anima food. Anche solo dal punto di vista della cultura manageriale sarebbe un gran passo in avanti.

Tornando ai numeri sono molti gli ambiti nei quali il non food è chiamato a fare di più e qui ne citerò solo due.

Ad esempio, in un anno che ha visto l’e-commerce crescere del 17% il risultato del non food, per quanto interessante in alcune categorie (arredamento in primis che ha raddoppiato le vendite) pare essere molto distante dalle sue potenzialità; questa situazione è frutto di una ancora non chiarito rapporto tra store fisico e store digitale. Anzi, proprio questa visione duale è sintomo di un’arretratezza di approccio che pare non considerare come oramai i touch point tra brand e consumatori si siano moltiplicati e approfonditi.

Allo stesso modo- ed eccomi al secondo punto- è proprio l’assenza di una brand strategy che penalizza il comparto non food, i cui punti vendita sono spesso gestiti come come rassemblement di merci: quasi una provocazione in anni in cui un consumatore sempre più attento e informato non chiede solo un prodotto, ma un senso da dare alla propria relazione col retailer. E non si tratta di aggiungere servizi ai prodotti (soprattutto se il servizio- banalmente penso a un’estensione di garanzia di un prodotto hi-tech- è vista come un altro prodotto da vendere…) quanto di analizzare le domande dei Clienti e strutturare i propri store (siano questi fisici o virtuali) affinché siano in grado di dare le risposte migliori, grazie anche al fondamentale contributo delle persone che vi lavorano. Ogni contatto in uno store deve essere vissuto come un incontro, come il primo passo per una relazione, mentre spesso la formazione delle risorse umane è finalizzata a migliorarne le perfomances di vendita, con effetti in realtà controproducenti.

Nuove strategie, nuovi approcci, un nuovo coraggio insomma: ecco ciò che serve al non food per uscire dalle proprie contraddizioni e ritrovare il proprio ruolo in un Retail moderno.

@danielecazzani

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Il #mobile e la nuova socialità immobile: paure e opportunità per #GDO e #Retail

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I retailers nostrani (e in particolare la #GDO) hanno coscienza di quale mutamento del Consumatore sia in atto grazie (anche) alla diffusione del mobile e alle nuove possibilità tecnologiche di connessione e interazione che i nuovi device abilitano?

Ma prima di dare una mia risposta (ovviamente opinabile) faccio un passo indietro. Non avrei che l’imbarazzo delle scelta nel proporre i più recenti dati sullo sviluppo del mobile nel nostro Paese, attingendo ai dati dell’Osservatorio Mobile & Marketing (www.osservatori,net) del Politecnico di Milano (www.polimi.it) piuttosto che ai dati Audiweb o di altri Istituti di Ricerca.

I mobile device infatti sono oramai parte integrante della nostra vita (a breve l’accesso al web dal mobile supererà quello dal PC…) e ci permettono una connessione continua (anche nei momenti interstiziali, un tempo vuoti di contatti, come, ad esempio, una poco piacevole coda in autostrada) e quindi un potenzialità di relazione prima inimmaginabile.

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Fatte salve alcune rare eccezioni, finora la reazione a questo mutamento di paradigma è stata la PAURA: paura di vedere svuotati i proprio negozi fisici a favore dei negozi virtuali (magari della concorrenza) tanto che showrooming è diventata una parola in grado di far rabbrividire tanti manager (senza che ne capiscano bene il motivo a onor del vero…). Tale timore dimostra, a mio avviso, un drammatico ritardo da parte di tanti retailers, innanzi tutto perché in realtà web e mobile non significano solo ecommerce, i cui tassi di crescita sono sì promettenti, ma la cui quota sui consumi reali, perlomeno di beni fisici- pensiamo al grocery- sono ancora fermi allo zerovirgola. Inoltre la moltiplicazione delle possibilità di relazione coi propri Clienti (o più genericamente Consumatori) dovrebbe essere visto con favore da parte di tanti operatori che per anni si sono riempiti la bocca dicendo che al centro delle proprie strategie v’erano appunto i Clienti, mentre in realtà l’ombelico strategico era cosa riservata alla funzioni Acquisti e Vendite e non certo al Marketing. Pensiamo solo alla GDO e al suo rapporto con l’IDM: v’è forse traccia del Cliente/Consumatore (e delle sue esigenze) nel paradigma organizzativo e commerciale con cui approcciano il mercato? O non è forse la sola pressione sui volumi di vendita a guidare le loro scelte (ecchissenefrega – mi si perdoni l’inglesismo- se il Cliente non chiede volumi ma solo un chiaro contenuto di qualità ai giusti prezzi)?

Lo sviluppo del mobile non è quindi una minaccia, anzi è un’incredibile opportunità. Ma NON un’opportunità per veicolare al consumatore altra pubblicità: anche in questo caso i dati di sviluppo del mobile advertising sono interessanti, ma infinitesimali rispetto al valore della pubblicità nel suo complesso. Lo smartphone e il tablet non sono altri schermi per spot di dubbia efficaci, ma piattaforme relazionali.

Relazioni che assumono una valenza ancora più forte se inquadrati nel più generico fenomeno dello sviluppo dei social network, che vede nel mobile il device preferito proprio perché SEMPRE al proprio fianco e- altro elemento assolutamente fondamentale- del tutto PERSONALE.

La nuova socialità aiutata e incentivata dal mobile è però una socialità immobile: è possibile restare in contatto con la propria cerchia di amici, partecipare ad eventi, commentare trasmissioni TV o Radio senza muoversi dal proprio divano. Questo aspetto, spesso sottovalutato a mio avviso, è fondamentale per i retailers che continuavano a vedere i propri store come naturali centri di aggregazione. Tale funzione non sarà certo cancellata dal social mobile ma gli store fisici potranno aggregare solo se saranno in grado di offrire ai propri Clienti ESPERIENZE e VALORI; in caso contrario la virtualità sarà sempre più premiata dai Consumatori, proprio perché li lascerà più liberi di definire i tempi delle Relazione. Ci vorranno certamente degli anni per erodere le quote del commercio tradizionale fisico, ma l’erosione sarà tanto più veloce quanto più i retailers saranno lenti nel capire come sia cambiato l’ambiente sociale in cui si muovono e come i Consumatori siano nuovi, non tanto per il naturale (fisiologico) cambiamento di gusti e tendenze, quanto per le nuove possibilità di approccio e confronto che i web prima e il mobile oggi mettono loro a disposizione.

Da questo punto di vista la #GDO si trova in una posizione ancora più critica, proprio perché spesso priva di contenuti sul fronte dell’Esperienza e dei Valori fruibili dai proprio Clienti nel punto vendita fisico: un’ennesima sfida per un settore che da tanti, troppi, anni sta rimandando il confronto coi propri errori e limiti, sperando inutilmente che una ripresa dei consumi (solamente attesa finora) permetta di rimandare a un lontano futuro un salto evolutivo nella propria organizzazione.

Nota finale: ho scritto questo post seduto sul divano, twittando di tanto in tanto in risposta ad amici che come me stanno seguendo una trasmissione TV, e interagendo con la mia pagina Facebook; ad un certo punto ho interrotto la stesura del testo per aprire la porta all’addetto che mi ha portato a casa la spesa ordinata online.

Non sono multiscreen, non sono multichannel: smettiamola di etichettare i Clienti/Consumatori con neologismi degni del miglior Asimov: continuiamo a chiamarli Carlo, Roberta, Marco… Persone insomma. Loro sono cambiate raccogliendo la sfida e le opportunità dei nuovi device e dei nuovi media. Retailers  e GDO possono dire altrettanto?

@danielecazzani

Il #futuro del #retail partirà dall’Oman? yOuRs: un’ #eataly in salsa araba?

 

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Il futuro del retail potrebbe passare dall’Oman? Nel Sultanato che, anche in virtù di un forte retaggio storico, si sta con più prudenza ma progressivamente aprendo al Mondo, potrebbe aprire entro la metà del 2015 – nella periferia più moderna di Muscat- un nuovo concept che potremmo vedere come una versione evoluta della nostra Eataly, senza poterne però vantare il ricco assortimento enograstronomico.

Lo store, la cui insegna dovrebbe essere l’acronimo di your Omani unique Relation store, si rivolgerebbe alla sempre più numerosa classe benestante del Sultanato, riproponendo negli oltre 12.000 mq di superficie di vendita (su tre livelli) il meglio della produzione mondiale nel comparto grocery (fatta eccezione che per la categoria dei vini e degli alcolici) sapientemente mixato con la migliore produzione locale, al cui approvvigionamento provvederà un network di produttori locali.

Ma il punto di forza del nuovo concept, come dichiarato proprio dall’insegna, dovrebbe essere la RELAZIONE. L’accesso a yOuRs infatti sarà riservato ai soli clienti titolari di una particolare card- la Ycard- virtualizzata in versione app mobile, che garantirà ai clienti una serie di servizi evoluti oltre a più classiche opportunità commerciali, quali sconti e promozioni.

La card virtuale dovrebbe essere strutturata su tre livelli- Ycard, Ycard cube, Ycard Exxtra- a ciascuno delle quali è associato un fee mensile di adesione che dovrebbe partire dai 250 Rial dell’Oman (equivalenti a circa 500 Euro) fino ai 2.500 Rial dell’Oman per la card premium.

A bilanciare il costo/fee mensile di adesione al programma saranno una serie di opportunità riservate, di valore pari al fee e strutturate grazie a una serie di convenzioni con un network di partner esterni. Si potrebbe partire da servizio più canonici quali delivery a domicilio, per arrivare ad attività esperienziali davvero suggestive, quali la caccia col falco in riserve ospitate in oasi nel del deserto.

La struttura, che dovrebbe essere arricchita da un’area ristorazione di notevoli dimensioni e da una SPA esclusiva, potrebbe poi presentare una caratteristica davvero unica al Mondo: aree denominate Y-store, ovvero reparti disegnati direttamente dai clienti più fedeli (ma sarebbe più corretto dire: maggiormente spendenti) che potranno costruire attorno ai propri gusti, spazi, servizi e assortimenti assecondati dai manager dello store (cui spetterebbe il compito di garantire l’equilibrio economico di questi mini store). Un modo innovativo e interessante per fare ricerca e sviluppo in un’autentica (e coraggiosa) ottica dal basso verso l’alto e di co-generazione delle idee.

Possono certamente essere molte le perplessità attorno ad un simile progetto, ma solo il futuro potrà dirci se questa versione in salsa araba del moderno retail potrebbe davvero tracciare una strada su cui anche altri retailer europei o anglosassoni (normalmente più restii alle evoluzioni) sapranno incamminarsi.

@danielecazzani

 

 

Un antidoto alla #crisi? Il #loyalty #marketing! (considerazioni a margine dell’Osservatorio #Fedeltà 2013)

Come ogni anno anche l’edizione 2013 dell’Osservatorio Fedeltà promosso dall’Università di Parma- www.osservatoriofedelta.it – è stato un momento importante per fare il punto sullo stato di salute del loyalty marketing in Italia e nel Mondo, soprattutto per capirne il ruolo nell’ambito delle politiche dei retailers in risposta alla perdurante crisi dei consumi (nel nostro Paese soprattutto).

Il Prof.Daveri della Bocconi ha provato a rassicurare i partecipanti illustrando alcune deboli cifre (ripresa ordinativi e miglioramento fiducia imprese e consumatori) che parrebbero sostenere la tesi della fine del periodo recessivo. Onestamente però, al di là delle ottimistiche ipotesi sulla crescita del PIL italiano nei prossimi anni (sovrastimate rispetto a quelle dell’IMF), credo che i retailers farebbero meglio a non affidare le proprie sorti a una prossima ripresa, ma a concentrarsi sui propri business mettendo al centro delle proprie strategie i clienti.

Enzo Grassi, direttore generale di Catalina Marketing Italia, dall’alto del proprio punto di osservazione privilegiato ha infatti illustrato alcuni numeri che non avrebbero dovuto stupire i retailers presenti. Nonostante la crisi abbia colpito indistintamente e duramente tutti i consumatori (i consumi italiani sono a livello di 10 anni fa anche perché il reddito reale si è ridotto del 10%) riducendo la spesa media del 6% (per il combinato disposto di una riduzione della frequenza- che ha inciso per il 2%- e una riduzione della spesa in terminid i quantità e prezzi medi dei prodotti in carrello) i dati esposti hanno dimostrato come la fedeltà sia stata in grado di ridurre l’impatto della crisi, dato che i clienti fedeli hanno ridotto meno la frequenza d’acquisto.

E’ pertanto evidente che quei retailers che in passato hanno investito nella costruzione di una relazione di fedeltà coi propri clienti stiano ora subendo meno i colpi della crisi e, cosa ancora più importante, abbiano la possibilità di innescare, proprio grazie a tale relazione privilegiata, efficaci politiche di rilancio incentrate soprattutto sull’analisi dei comportamenti dei propri clienti fedeli.

Big data, multicanalità, experience, saranno di fatto le parole d’ordine per le politiche di loyalty dei prossimi anni (dopo tutto sono almeno due anni che l’Osservatorio Fedeltà ci dice che è giunto oramai il tempo del loyalty “di servizio”).

Concentrarsi sui propri clienti fidelizzati, quindi su attività di retention, anziché di acquisition, è una scelta che sempre più aziende stanno compiendo, avendo capito che un cliente fedele è un patrimonio da valorizzare, anche perché in grado di richiamare altri clienti meglio di altri media più o meno tradizionali (Nielsen ha recentemente ricordato a tutti che il passaparola è sempre lo strumento più potente, che ora si può avvalere dell’ambiente dei social per vedere elevato all’ennesima potenza la propria efficacia).

E però necessario che i retailers siano sempre più generosi nei confronti dei clienti fedeli, arricchendo di contenuti (anche esperienziali) e non solo di promozioni la carta fedeltà, anche per contrastare in modo efficace i nuovi players che si affacciano sul mercato, grazie proprio alle possibilità offerte dalle tecnologie digitali e l’integrazione tra queste e i negozi fisici e alla diffusione di nuovi strumenti di pagamento (pensiamo a Google Wallet) che diverranno sempre più il perno delle attività di loyalty.

Ma il principale pericolo per i retailers è dato dalla disintermediazione che alcune industrie stanno compiendo, dotandosi di strumenti e piattaforme per dialogare direttamente coi propri clienti, potendo fare leva sulla forza dei propri brand (come il caso illustrato da Procter & Gamble ben dimostra).

In conclusione, solo i retailers che sapranno dare centralità al loyalty marketing, dialogando coi propri migliori clienti e valorizzandone l’experience, potranno  reagire in modo efficace alle mutate condizioni ambientali, dato che pare oramai assodato come il consumatore uscirà comunque cambiato da questa lunga crisi, ovvero sarà sempre più attento al valore e al prezzo, più social e interessato a essere coinvolto in modo attivo (dai retailers o dall’industria).