E=mc2 la formula vincente per una nuova #prossimità (e una nuova #GDO)

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La Distribuzione è solita ragionare in base ai volumi e ai metri quadri. Partendo da qui si distinguono i vari format, dai grandi ipermercati, ai supermercati per arrivare alle superette, avendo però difficoltà ad inquadrare fenomeni “ibridi” come i discount o nuovi come i category store, perché nella realtà a volte poco o nulla dicono ai Clienti.

Ma torniamo ai metri quadri, in base ai quali si parla di prossimità per i locali al di sotto dei 450 metri quadri (format che insieme ai supermercati copre oltre la metà dei consumi nel nostro Paese). Tali locali, proprio per le loro dimensioni, risultano poi inseriti in quartieri cittadini o piccoli agglomerati, identificandosi col concetto del “negozio sotto casa”.

Recenti dati diffusi da Nielsen e commentati in diverse sedi (si veda qui ad esempio GDONews http://www.gdonews.it/2015/06/01/la-lenta-ripresa-della-prossimita/) documentano come proprio la prossimità stia registrando una crescita dei fatturati e abbia resistito meglio alla crisi (abbia cioé dimostrato una maggiore resilienza, come si è soliti dire), mentre ipermercati e (inaspettatamente, per qualche distratto) i discount registrano segni negativi.

E’ vero che proprio l’Italia dimostra come i grandi players stranieri (che si muovono mediamente su strutture di medie-grandi dimensioni) abbiano spesso incontrato difficoltà (per tanti versi questo è un eufemismo) nell’affrontare i mercati locali, mentre realtà italiane caratterizzate da una maggiore capillarità territoriale (e format mediamente più piccoli) siano state in grado di raccogliere risultati migliori; migliori, non regalati, e spesso frutto di importanti rinnovamenti intrapresi nelle strategie commerciali e di marketing.

Potrei citare gli esempi di Conad (affermatosi come uno dei più dinamici player nazionali) o Unes che col format U2 ha dimostrato come vi sia spazio per un’intelligente politica di every day low price, che non esaurisce certo la strategia d’insegna, fatta, tra le altre cose, di attenzione al made in italy e all’ambiente, o ancora Crai che ha fatto della prossimità (intesa anche come ridotte superfici) un punto di forza e non un minus.

Molti oggi raccontano questi dati della prossimità come un’ovvietà, sottacendo le enormi difficoltà organizzative e gestionali che i piccoli locali devono affrontare (pensiamo alla logistica ad esempio) in un settore dove i volumi contano e dove la controparte ha il “peso” dell’Industria.

Nello sviluppo della prossimità l’associazionismo ha costituito certamente un importante strumento, in grado di bilanciare il peso dell’Industria e di offrire servizi (logistici e commerciali) a supporto anche di piccoli operatori che avrebbero altrimenti rischiato di non reggere l’impatto con le grandi strutture di vendita.

Per quanto vi siano importanti esempi anche in altri Paesi, penso infatti che l’associazionismo costituisca una delle formule più propriamente italiane nella distribuzione moderna e sono personalmente convinto che non potrà essere la prolungata crisi dei consumi e le tensioni del mercato a metterla in crisi.

Penso però che il punto cruciale per il futuro sia dare un nuovo significato alla parola “prossimità”: questa non dovrà più identificare una collocazione geografica o un parametro dimensionale del negozio, ma descriverne la strategia.

Essere un negozio di prossimità nel 2015 deve significare non essere piccoli, ma essere prossimi alle esigenze dei propri Clienti: conoscerne i bisogni, le caratteristiche e attorno a queste costruire i negozi, gli assortimenti e le politiche commerciali.

Questa attenzione dovrebbe essere nel DNA proprio di un struttura associativa, perché formata da imprenditori che hanno costruito relazioni nei territori coi propri Clienti giorno dopo giorno, condividendone i mutamenti degli stili di consumo e di vita e costruendo attorno a questi la propria offerta (ci si chiede mai quanto sia critico costruire un assortimento efficace quando si hanno pochi metri lineari a disposizione e pochi addetti per far funzionare un negozio?).

Se invece il centro, ovvero il minimo comun denominatore delle strutture di servizio (commerciali e logistiche) diventa più importante della prossimità (come sopra l’ho intesa) ecco che il risultato rischia di essere molto simile a quello che spesso vediamo nei grandi operatori stranieri: ci si focalizza sull’interno, e al contempo aumenta la distanza coi Clienti e, subito dopo, quella dai propri obiettivi di business.

Ecco il senso della formula che propongo per il successo della prossimità (e dell’associazionismo):

E=mc2

L’energia prodotta (ovvero il risultato economico) è pari al quadrato della moltiplicazione della massa (ovvero la struttura centrale o associativa) per la velocità di attenzione strategica al Cliente.

Servono infatti servizi efficienti ed efficaci (m) e una dinamica (e rapida) attenzione al Cliente e ai suoi bisogni (c) da attuarsi anche con un utilizzo evoluto di strumenti come le carte fedeltà e le nuove piattaforme sociali, il tutto basato però su un forte e chiaro posizionamento d’insegna.

Ancora una volta cito Conad e Unes come esempi di strutture (solo una delle quali associativa) che ad esempio nella campagna #prodottodove per l’indicazione dello stabilimento di produzione sulle etichette dei prodotti, dimostrano una particolare attenzione alla richiesta dei propri Clienti di una maggiore trasparenza sul lato dell’offerta; e questa cos’è se non prossimità modernamente intesa?

Dopo averne stravolto la formula più importante e nota, mi permetto in conclusione di citare una frase di Albert Einstein, sostituendo la parola “vita” con l’espressione “fare commercio”:

Fare commercio è come andare in bicicletta: se vuoi restare in equilibrio devi muoverti.”

Oggi più che mai equilibrio non significa immobilismo, ma capacità di muoversi in modo rapido e coordinato. Proprio come accade ai ciclisti, la surplace– ovvero il rimanere immobili nella propria posizione (ovvero idea)- è gesto affascinante per qualche secondo, ma nel commercio rischia ben presto di essere noioso (per i Clienti) e controproducente (per i propri conti economici), soprattutto quando i tuoi avversari scattano.

@danielecazzani

Un nuovo #NONFOOD per un nuovo #RETAIL: riflessioni a margine del 13mo Osservatorio NonFood @GS1Italy

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Lunedì 29 giugno a Milano GS1 (indicod-ecr.it) ha presentato i risultati della tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food che ha evidenziato come questo comparto abbia beneficiato della lieve ripresa nel 2014 dei consumi della famiglie italiane, con un incoraggiante +0,6% (che pone fine ad anni di pesanti flessioni pur lasciando la quota dei consumi non alimentari al di sotto del 15%).

Questo dato è evidentemente la media di situazione molto diverse tra i tanti comparti dell’universo non alimentare ma ciò nondimeno è un segnale positivo in un anno che ha visto una contrazione importante (-7%) nei punti vendita e la crisi aziendale di importanti player, uno dei quali solo due anni fa, proprio in occasione dell’Osservatorio Non Food dichiarava invece di avere individuato una nuova strategia, poi risoltasi in un leggero make-up dei propri punti vendita (evidentemente non apprezzato dai consumatori).

Preso atto dei numeri la domanda fondamentale da porsi a questo punto è però: il non alimentare ha raggiunto questo risultato grazie a nuove strategie e nuovi approcci oppure ha beneficiato della generale (mini)ripresa dei consumi?

Mia opinione è che il risultato sia ascrivibile in buona parte al secondo fattore, perché a fianco di alcune interessanti novità (cito lo svilippo di Ikea e, anche se relativa al 2015, l’arrivo in Italia di Zodio) gli ipermercati e tanti storici retailers specializzati paiono essere ancora in una situazione di stallo decisionale.

Pensiamo agli ipermercati che fino a poco tempo fa vedevano nel non food non dico la gallina dalle uova d’oro ma certamente un comparto da sviluppare (pensiamo ad alcuni “gigantismi” testati, con scarso successo, da insegne non italiane) e che ora invece stanno riducendo gli spazi, prendendo così atto che il non food non è affatto un’arena competitiva più facile del food: anche qui servono competenze, risorse umane (bello che se ne sia parlato ampiamente a Milano!) e strategie di medio lungo periodo.

Un altro piccolo esempio su un comparto- quello della GDO- che mi sta sempre a cuore. Avete presenti i settori libri e videogiochi di alcuni ipermercati: spazi dimenticati, dove l’assortimento pare essere stato disegnato dal caso (o dal caos?), con una noncuranza che stride rispetto all’attenzione al display merchandising che giustamente regna negli altri reparti. Mi chiedo: che senso ha destinare metri quadri (e lineari) di vendita a tali merceologie, per poi nella realtà abbandonarle (o come nel caso dei libri, darli in gestione esterna) come fossero corpi estranei. Ecco, la GDO dovrebbe fare questo: smettere di vedere il non food come un corpo estraneo rispetto alla propria anima food. Anche solo dal punto di vista della cultura manageriale sarebbe un gran passo in avanti.

Tornando ai numeri sono molti gli ambiti nei quali il non food è chiamato a fare di più e qui ne citerò solo due.

Ad esempio, in un anno che ha visto l’e-commerce crescere del 17% il risultato del non food, per quanto interessante in alcune categorie (arredamento in primis che ha raddoppiato le vendite) pare essere molto distante dalle sue potenzialità; questa situazione è frutto di una ancora non chiarito rapporto tra store fisico e store digitale. Anzi, proprio questa visione duale è sintomo di un’arretratezza di approccio che pare non considerare come oramai i touch point tra brand e consumatori si siano moltiplicati e approfonditi.

Allo stesso modo- ed eccomi al secondo punto- è proprio l’assenza di una brand strategy che penalizza il comparto non food, i cui punti vendita sono spesso gestiti come come rassemblement di merci: quasi una provocazione in anni in cui un consumatore sempre più attento e informato non chiede solo un prodotto, ma un senso da dare alla propria relazione col retailer. E non si tratta di aggiungere servizi ai prodotti (soprattutto se il servizio- banalmente penso a un’estensione di garanzia di un prodotto hi-tech- è vista come un altro prodotto da vendere…) quanto di analizzare le domande dei Clienti e strutturare i propri store (siano questi fisici o virtuali) affinché siano in grado di dare le risposte migliori, grazie anche al fondamentale contributo delle persone che vi lavorano. Ogni contatto in uno store deve essere vissuto come un incontro, come il primo passo per una relazione, mentre spesso la formazione delle risorse umane è finalizzata a migliorarne le perfomances di vendita, con effetti in realtà controproducenti.

Nuove strategie, nuovi approcci, un nuovo coraggio insomma: ecco ciò che serve al non food per uscire dalle proprie contraddizioni e ritrovare il proprio ruolo in un Retail moderno.

@danielecazzani

PER ACQUISTARE UNA COPIA DELLA RICERCA > OSSERVATORI.INDICOD-ECR.IT

La matematica di Fido e Fuffi: strategie per il #petcare e il #petfood nella #GDO

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Quel segno “più” nel fatturato 2014 dei comparti petfood e petcare della GDO risaltano come due rigogliose oasi in un deserto costellato di “meno” e dove l’arsura della crisi inizia a far vedere pericolosi miraggi a tanti operatori, che sembrano avere smarrito la via (e la speranza) di rivedere la ripresa dei volumi.

I dati sulla presenza di animali domestici in Italia sono piuttosto noti, con oltre 60 milioni di animali- praticamente in rapporto 1:1 con la popolazione- tra i quali oltre 14 milioni tra gatti (in leggera maggioranza) e cani. Il 50% delle famiglie possiede infatti un cane o un gatto, il che significa che un Cliente su due di un qualsivoglia punto vendita della GDO è un proprietario di pet: un dato di cui tenere conto. Tra i principali aspetti del rapporto uomo-animale di compagnia- oltre al fatto di considerarlo “di famiglia” ed avere un effetto benefico sulla tenuta della famiglia, la riduzione dei litigi e dello stress, l’aiuto alla socializzazione ecc- è importante registrare (in base a recenti ricerche Eurisko e IRI) come oltre il 96% delle persone proprietarie di cani e gatti si dichiari molto attento alla salute del proprio animale domestico. Questo aspetto impatta fortemente sulle scelte di acquisto e quindi sui dati della categoria. Torniamo infatti ai numeri. Pur a fronte di una contrazione dei volumi (che molti imputano anche alla sempre maggiore presenza di animali di piccola taglia nelle famiglie italiane) l’incremento dei fatturati degli ultimi anni è stato determinato da due distinte tendenze:

  1. una sempre maggiore attenzione al benessere degli animali, che si concretizza nella ricerca di prodotti di fascia premium superpremium, e
  2. una sempre maggiore attenzione alla riduzione degli sprechi, che premia packacing più piccoli, monoporzione, e per questo di prezzo maggiore rispetto a confezioni di maggiore grammatura.

Qualità/benessere e servizio sono quindi stati i driver della crescita e dell’evoluzione degli assortimenti sia nei canali tradizionali che nella citata GDO, dove l’evoluzione è stata caratterizzata, tra le altre cose, da una forte presenza dei prodotti a marchio- dapprima a coprire le funzioni base, poi sviluppatosi anche nei servizi, accessori e nelle fasce premium– tant’è che oggi le private labels in questa categoria coprono circa il 50% dei volumi e più del 30% del valore (ben superiore quindi al 18% medio delle PL nel totale del largo consumo confezionato). In questo mercato la GDO assorbe buona parte del volume/valore delle vendite (con una quota pari a circa il 60%) ma è ancora forte il peso dei petshop tradizionali (33%) e delle catene che stanno registrando incoraggianti tassi di crescita a due cifre nelle vendite. La GDO dovrebbe chiedersi se la decrescita del canale tradizionale debba ineluttabilmente avvenire a favore delle catene, col rischio di trovarsi nella condizione di subire nel breve-medio periodo una riduzione dei fatturati anche in un comparto/mercato in crescita, così come è avvenuto in passato nelle categorie della detergenza, igiene e pulizia casa che ha visto l’affermarsi degli specialisti drugstore che negli ultimi anni segnano tassi di crescita straordinari soprattutto se paragonati all’agonico stallo di ipermercati (e, in minor misura, supermercati),  avendo acquisito un ruolo di vero e proprio category killer di diverse categorie. A caratterizzare i petshop tradizionali e le catene è una maggiore ampiezza e profondità degli assortimenti rispetto alla GDO che presenta mediamente 450 referenze a fronte delle oltre 1200 dei primi e le quasi 1800 delle catene.

In tale contesto la GDO potrebbe pertanto pensare che la strada più agevole per intromettersi nella guerra sempre più cruenta tra negozi tradizionali e nuove catene passi, più che da un incremento nell’utilizzo della leva promozionale, attraverso un arricchimento dell’assortimento. In questa direzione si è mosso recentemente un importante operatore della GDO attraverso lo spin-off del reparto petfood e la creazione di uno store dedicato in cui è in grado di offrire un assortimento assolutamente in linea con quelle delle più note catene. A parte ovvie considerazioni sulle reali disponibilità di spazio (metri quadri e metri lineari) nei propri locali, ritengo che la GDO così facendo perderebbe l’opportunità di sfruttare il proprio status di punto di vendita “olistico” per il consumatore che non è solo un proprietario di animale domestico e il cui rapporto col proprio cane o gatto non si limita all’acquisto del sacco di crocchette o della scatoletta di carne. Insomma, solamente ampliando lo sguardo sui propri Clienti, sarebbe possibile individuare importanti spazi per offrire servizi ed esperienze in grado di contrastare in modo efficace i negozi tradizionali e le catene, che, pur con diverse accezioni, risultano ancora fortemente concentrati sull’offerta di prodotto, caratterizzandosi spesso, né più né meno che come supermercati del petfood.

In conclusione quella del petfood e del petcare è un’opportunità che ad oggi la GDO ha saputo sfruttare solo in parte, mentre nei prossimi anni la crescente maturità del settore e una sempre maggiore tensione concorrenziale comporterà scelte importanti che potranno trasformarsi in segni “più” ancora più rassicuranti o in nuovi e conosciuti segni “meno”.

@danielecazzani

NOTA METODOLOGICA– I principali dati citati nel presente articolo sono tratti da una ricerca IRI commissionato da Assalco nel 2014.

L’ERA GLACIALE DEI #CONSUMI E I T-REX NELLA #DISTRIBUZIONE

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Circa 66 milioni di anni fa nel Cretaceo un evento inatteso- l’impatto di un meteorite o l’eruzione di contemporanea di aree vulcaniche- comportò la scomparsa di oltre il 70% delle specie viventi, causando cioè gli stessi devastanti effetti di una grande glaciazione. Senza che vi sia stato bisogno di meteoriti, il crollo del consumi registrato dal 2007 sta profondamente cambiando il contesto in cui si muovono i grandi e piccoli operatori della Distribuzione, che, verosimilmente, auspicano di non fare la fine dei temibili e apparentemente invincibili T-Rex.

Poche cifre (che traggo liberamente dal sempre utile Rapporto Coop 2014) ci aiutano a ricordare i contorni di quanti accaduto.

Il reddito disponibile dal 2007 al 2013 è calato di oltre l’11%, con una identica perdita del potere d’acquisto reale, come effetto combinato dell’aumento delle tasse (dalla casa all0IVA) e delle tariffe dei servizi pubblici, aggravate da una sostanziale stabilità del livello dei salari. Guardando ai consumi il calo è stato del 5% tra il 2007 e il 2012, ma anche nei successivi due anni il calo è stato del 2,5% . Questo calo si è tradotto in una forzosa rimodulazione dei consumi che hanno visto crescere la quota di quelli legati all’abitazione dal 18 al 24% e scendere dal 15 al 14,5% quelli per consumi alimentari. Per quanto uno zerovirgola possa apparire poca cosa, chi lavoro nel settore della Distribuzione sa bene che impatto devastante abbia avuto tale riduzione sui fatturati e gli equilibri di bilancio delle principali insegne.

Di fronte a un mutamento così importante della Società, non tanto e non solo dei consumi, buona parte della Distribuzione ha risposto in modi diversi, talvolta utilizzando una sola leva, talvolta mixando più strumenti. Quasi tutta la Distribuzione ha innanzi tutto risposto con le armi della tradizione, ovvero con un aumento della pressione promozionale, affiancando la spinta di un’Industria preoccupata di mantenere i volumi di produzione. Non si è però lavorato solo sulla leva prezzo, ma anche sull’assortimento, dapprima ampliandolo al di fuori dei canonici confini per coprire altre fasce di consumo nel tentativo di cogliere quell’85% dei consumi non alimentari: in questo senso vanno intese le avventure (non sempre fortunate) di alcune insegne nella vendita di contratti di utility luce e gas, finanza o telefonia, piuttosto che le specializzazioni in alcuni comparti quali l’elettronica di consumo, l’arredo casa e via dicendo.

Nel contempo però è emerso come l’ipertrofia degli assortimenti fosse a sua volta uno dei principali problemi del settore: da qui riduzioni di superfici di vendita–  con tutti i limiti dati da rigidità strutture e vincoli di natura immobiliare e contrattuale-soprattutto a danno del non food, che certamente più del grocery ha risentito dell’accresciuta multicanalità del consumatore e dell’avvento del e-commerce. Ma vi è stato anche chi ha pensato fosse sufficiente procedere a un re-naming (con vere e proprie rottamazioni di insegne storiche nel panorama distributivo del nostro Paese), oppure a un restyling di punti vendita (spesso guidati dall’estro degli architetti più che dalla ragione del marketing e dei numeri). Numerosi anche i movimenti nel mondo delle attività loyalty, con l’avvento di coalition, la scomparsa di cataloghi e concorsi a premio, l’avvento delle special promotion e via dicendo.

In sintesi, non si può certo dire che la Distribuzione sia rimasta a guardare quanto stava accadendo, ma è altrettanto forte la sensazione che spesso e volentieri si sia trattato di risposte tattiche, pensate per tamponare situazioni contingenti (difficoltà a raggiungere e controcifre nei budget, piuttosto che riduzioni di traffico clienti), e non scelte strutturali, come se vi fosse la convinzione che la tempesta sarebbe ben presto passata, e che per non vederla fosse sufficiente ripararsi nella stiva della nave, piuttosto che prendere atto della necessità di profondi cambiamenti di rotta.

Eppure è oramai patrimonio comune il concetto di società fluida, che, a dire il vero, affonda le proprie origini nel panta rei di Eraclito: tutto scorre, nulla si ripete, nulla può essere più come prima.

Calato nel nostro contesto: è inutile vagheggiare su un ritorno dei consumi ai livelli pre-crisi. Sempre più operatori a parole paiono convinti di questo, ma dal dire al fare. La grande attenzione ai numeri dei propri bilanci dovrebbe andare di pari passo con la conoscenza dei numeri della Società: se non conosciamo il terreno sul quale dobbiamo muoverci, qualsiasi strategia e direzione risulterà fallace. Serve quindi intervenire su numerosi format che sono in realtà rimasti ancorati a paradigmi- del consumo e della società- validi anni or sono ma che ora paiono sbiadite foto di un tempo che fu. Ma va detto che un format non è costituito solo da un contenitore (un layout) e un contenuto (un assortimento e un posizionamento di prezzo) ma ha un’anima più profonda che deve affondare le radici nella conoscenza dei propri Clienti per arrivare a proporre a essi una visioneche permetta di condividere un percorso quotidiano.

Queste possono sembrare parole da sociologia da bar- certo non voglio imbeccare strategie a mezzo articolo- ma nella realtà se ben guardiamo, il mercato oggi ci dice che a reagire meglio alla “grande glaciazione” sono stati retailers molto diversi che hanno saputo però leggere il momento e disegnare una propria strategia. Da chi ha coraggiosamente sposato l’every day low price(politica alquanto faticosa) unito a tante attenzioni al Cliente, a chi ha saputo andare oltre le cose, a discounter che non hanno disconosciuto il proprio nome ma che continuano a muoversi nel coerentemente con la promessa di offrire risparmio, a chi non si è fatto tentare dal gigantismo degli ipermercati ma ha continuato a coltivare quel fantastico vivaio di relazioni coi Clienti dato dal vicinato. Evito ovviamente di citare nomi e insegne, ma abbiamo in Italia numerose case history da studiare e- non è un caso- non si tratta mai di operatori stranieri, che hanno dimostrato spesso un approccio distante dalla realtà italiana, tanto quanto lo sono stati i risultati ottenuti rispetto alle attese (e ai faraonici investimenti).

La grande glaciazione è forse agli sgoccioli- almeno questo è l’auspico dei più- ma gli anni di stenti hanno stremato numerose organizzazioni: sarebbe per queste illusorio pensare “finalmente è finita” e abbandonarsi fiduciosi alla debole ripresa. Serve coraggio e visione. Oggi più che mai.

Daniele Cazzani @danielecazzani

 

L’EMOZIONE E’ #PROMOZIONE: UNA STRATEGIA PER IL #MADEINITALY #AGROALIMENTARE E LA #GDO NELL’ANNO DI #EXPO2015

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C’è ancora chi, soprattutto nel nostro Paese, pensa che per promuovere un prodotto agroalimentare o un territorio sia sufficiente realizzare un bel marchio (anzi, chiamiamolo brand che fa più… worldwide) trascurando tutte le conseguenti implicazioni, prima fra tutte le scelte strategiche di posizionamento, la comunicazione, la pubblicità, la distribuzione e via dicendo.

Stiamo vivendo una stagione caratterizzata da una contrazione dei consumi alimentari, ma in cui, nel contempo, la qualità dei prodotti è sempre più elemento determinante nella scelta dei consumatori. E questo è valido sia nel nostro Paese quanto in Europa e, seppure con sfumature diverse, nel resto del Mondo.

Sembrerebbe quindi il momento ideale per i prodotti di qualità italiani, di cui siamo giustamente orgogliosi, ma la realtà è che pur essendo il Paese col maggior numero di prodotti DOP, IGP e STG registrati in Europa (circa un quinto del totale pari a oltre 1200 prodotti) la penetrazione di questi prodotti nel mercato domestico e internazionale è spesso di fatto marginale.

Prima di addentrarci nelle valutazioni, alcuni numeri dei prodotti con denominazione di origine o DO (fonte Ismea) ci aiuteranno a inquadrare la situazione.

Innanzi tutto il fatturato delle DO (in crescita oer effetto di incrementi di volumi e prezzi, pur con differenze tra comporti e comparti) pari a oltre 6 miliardi di euro è nella realtà generato per oltre l’80% da dieci prodotti; in particolare il podio è nell’ordine presidiato da Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Prosciutto di Parma.

L’export– pari a oltre 2 miliardi di euro- è per il 60% concentrato in Europa.

I canali di vendita vedono primeggiare la distribuzione (GDO, grossisti e dettaglio) con poco meno del 90%, mentre la vendita diretta è pari solo al 4% (in epoca di e-commerce il dato è certamente migliorabile) e poco meglio fa il canale ho.re.ca.

L’accesso ai mercati si pone pertanto come tema fondamentale per questi prodotti. Pensiamo alla GDO: per quanto questo canale permetta il contatto con l’ampio pubblico, la realtà è che spesso gli operatori della GDO non sono grado di proporlo in modo corretto al consumatore, sia per la sempre maggiore pressione promozionale proposta proprio dai principali attori del settore- che rischia di compromettere in modo drammatico le possibilità di resistere sugli scaffali per i piccoli e medi produttori di DOP, IGP e STG- sia per la scarsa o nulla capacità (o volontà) di tanti retailers i “raccontare” la storia e la qualità di questi prodotti. Per quanto vi siano nel nostro Paese esempi di brand a ciò dedicati- penso a Terre d’Italia in Carrefour e Iper e a Sapori & Dintorni di Conad- nella realtà spesso gli spazi assegnati all’interno dei punti vendita sono sacrificati, la comunicazione lacunosa, la promozione (non di prezzo) nulla: l’effetto finale è che il consumatore vede prodotti a scaffale o sui banchi serviti con prezzi maggiori dei brand di riferimento senza capirne la ragione e, con ciò, optando per altre scelte di consumo.

Tornando solo un attimo sulla pressione promozionale, pensiamo al caso dell’olio d’oliva e allo spread tra prezzi dei prodotti DO e quelli industriali sempre in offerta che altera il posizionamento prezzi della categoria nella mente del consumatore e penalizza la produzione di qualità dei primi (se posso comprare un olio extravergine di oliva in offerta a 3 euro, per quale motivo spenderne 9 per un olio di un produttore di cui non ho mai sentito parlare?).

Se poi guardiamo alle ricerche di mercato che indagano su chi sia il consumatore di prodotti DO, scopriremmo che vi è una forte concentrazione degli acquisti: vi è cioè una quota di circa il 10/15% delle famiglie che assorbe la quota maggioritaria dei consumi.

Tante, troppe, famiglie non conoscono e non comprano prodotti DO. Su questo dato influiscono certamente due aspetti: la forte attenzione al prezzo (importante per oltre il 90% delle famiglie) e il fatto che l’Italia è il Paese dove la marca (industriale) è importante ancora per circa il 70% dei consumatori (valore doppio rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna).

E’ evidente quindi che oltre ai problemi connessi al canale distributivo vi è uno spread di conoscenza che i prodotti DO devono colmare. Però se analizziamo gli investimenti pubblicitari scopriamo che (dati 2012) sono stati pari a solo 40 milioni di euro (l’80% dei quali concentrati nei consorzi Grana Padano, Parmigiano Reggiano e Prosciutto di Parma): un dato che impallidisce di fronte agli investimenti dell’industria (e della GDO).

A questo panorama si deve poi aggiungere l’italica “fantasia” (spesso simile all’anarchia) che ha portato alla nascita di una miriade di piccoli brand territoriali, che pur ponendosi il coraggioso (ma dovrei dire velleitario) obiettivo di promuovere le specialità di un determinato territorio (tra le quali tante DOP, IGP e STG), nella realtà hanno spesso e volentieri ottenuto l’unico effetto di finanziare agenzie creative e garantire qualche uscita stampa all’associazione, consorzio, ente o politico che ne sono stati fautori.

A mio avviso infatti, la nascita di questi piccoli brand è ben poco d’aiuto alla “causa” dei prodotti DO e più in generale del made in Italy agroalimentare, perché ben difficilmente avranno le risorse per farsi conoscere dal consumatore- abbiamo già detto dei limitati investimenti pubblicitari dei prodotti più famosi…- e arrivare sugli scaffali dei punti vendita, o, meglio ancora, sulla tavola degli Italiani (e dei consumatori di tutto il Mondo).

Ma la causa è tutt’altro che persa.

Vi è infatti un aspetto estremamente importante che caratterizza i nostri prodotti di qualità: la prossimità al consumatore. Grana Padano, Prosciutto San Daniele, Mozzarella di Bufala Campana (solo per citare alcuni esempi) nascono a pochi metri dalle nostre case, sono la nostra storia. I prodotti DO sono vicini ai consumatori molto più di un brand industriale che arriva nelle case attraverso la televisione o altri media.

O, meglio, lo sono potenzialmente. Perché per essere realmente vicini non basta la scarsa distanza geografica, serve il contatto col consumatore, la trasparenza, l’apertura dei luoghi di coltivazione e produzione, il contatto con le giovani generazioni. Serve cioè un nuovo approccio: non più basato sul presupposto di essere migliori per definizione- che spesso comporta la scarsa attitudine a sporcarsi le mani nell’agone del mercato- ma sul coraggio di creare momenti di contatto per trasferire emozioni ai consumatori, in modo più forte e vero di quanto possano fare i brand industriali, che da anni hanno capito come questa sia la leva per entrare nella mente e nel cuore delle persone.

Entrate ad esempio in una cantina di stagionatura del culatello di Zibello: il profumo che vi inebrierà vi dirà molto di più della migliore pubblicità…

Il contatto crea emozione; l’emozione è promozione.

Allo stesso modo è auspicabile la capacità (il coraggio) per definire un nuovo approccio alla distribuzione, finora vista come un interlocutore (controparte) ostile, seppure necessario, per fare dare uno sbocco alle proprie produzioni.

E’ evidente però che questo nuovo approccio non deve essere richiesto solo ai produttori, ma anche, soprattutto, alla distribuzione stessa che deve avere la visione e la capacità di dedicare risorse e professionalità specifiche per questi prodotti che, pur a fronte di volumi e spesso marginalità inferiori rispetto ai prodotti industriali potrebbero (dovrebbero) essere la base per un nuovo contratto di qualità tra retailer e Clienti/Consumatori.

Ciò che serve è quindi un patto tra made in Italy agroalimentare di qualità e GDO: promuovere infatti i prodotti del territorio vuol dire promuovere e arricchire i territori che proprio le insegne della GDO presidiano coi propri punti vendita. Significa mantenere viva e forte l’economia di un territorio e con essa la capacità di spesa delle famiglie. 

Sulla stessa base anche lo sviluppo all’estero del made in Italy agroalimentare dovrebbe essere perseguito attraverso un maggiore e migliore presidio dei canali distributivi, mentre ora ci si affida soprattutto ai grossisti e alle grandi catene, ma senza poi curarsi della reale qualità degli sbocchi dei propri prodotti.

Su questo fronte è certamente necessario un diverso supporto anche da parte dei Ministeri e degli Istituti ed Enti che si occupano dell’export: una migliore concertazione, il coraggio di fare qualche passo indietro e mettere a comun denominatore risorse e capacità potrebbe certamente giocare un ruolo importante nel dare nuovi mercati ai nostri prodotti.

Facendo solo un esempio penso che Eataly New York svolga un ruolo più importante rispetto a seminari, workshop e convegni organizzati negli USA dai tanti enti che si occupano del nostro export: sugli scaffali e ai tavoli di Eataly il consumatore americano può respirare, vivere, gustare e comprare le nostre eccellenze, vivendo un’esperienza di gran lunga più potente e memorabile rispetto a qualsivoglia convegno o advertising. Questo mi spinge a dire che Eataly- e i ristoranti reali interpreti del made in Italy- sono le vere ambasciate italiane negli Stati Uniti: potrà sembrare un’affermazione provocatoria, ma, come per il mercato domestico, sono certo che anche negli altri mercati solo la capacità di generare emozioni può essere di reale supporto alla promozione delle nostre eccellenze.

In caso contrario continueremo ad essere convinti di avere i migliori prodotti del Mondo, ma rischieremo che sulle tavole di miliardi di consumatori i nostri prodotti abbiano una quota sempre più marginale…

Proprio per questi motivi anche il web non può più essere trascurato come finora è colpevolmente avvenuto. La possibilità di costruire relazioni dirette coi consumatori del Mondo, l’attivazione di efficaci strategie di e-commerce non possono non essere nell’agenda di chi ha a cuore lo sviluppo di questo settore.

Non ho la sfera di cristallo per sapere se i miei auspici e suggerimenti si trasformeranno in realtà, ma ho la certezza che questo sia il momento giusto per far compiere un decisivo salto di qualità alle nostre eccellenze agroalimentari. Perderlo non sarebbe colpevole dimenticanza ma dolosa ignoranza.

Daniele Cazzani @danielecazzani

NOTA FINALE: come si potrà notare ho evitato di parlare di Expo2015 (solo accennato nel titolo del post), sia perché viene citato spesso a sproposito, sia perché a questo importantissimo evento (che ricordo tra parentesi non è la fiera dei prodotti italiani, ma un’esposizione mondiale dedicata al tema dell’alimentazione) vedo attribuite aspettative taumaturgiche di rilancio dell’Italia tutta che temo possano essere smentite. Pensiamo sì all’Expo 2015 e facciamo in modo che possa essere una splendida vetrina per i nostri prodotti, ma pensiamo anche al dopo Expo2015 e a quei milioni di consumatori del Mondo che non lo visiteranno…

Quando i #supermercati imitano (male) i #discount che imitano (meglio) i supermercati (e gli #ipermercati)

esse... non fosse buon marketing?

Stamattina ho trovato nella mia cassetta postale un piccolo volantino di una delle più note insegne della GDO italiana, che mi segnala come sia possibile fare la spesa quotidiana con meno di 15 euro. Wow! Wow? Alcune premesse sono necessarie: 1- non faccio la spesa quotidianamente; 2- non saprei cosa farmene, ogni santo giorno, di un detergente piatti o di un litro di sapone liquido (vabbè, l’igiene è importante); 3- non consumo 10 rotoli di carta igienica al giorno (almeno finora non mi è mai capitato!); 4- non bevo 12 litri d’acqua (per quanto i medici dicano che faccia bene…); 5- nè mangio 1 chilo di carote (anche se a ben vedere, potrebbe beneficiarne la mia vista e la mia abbronzatura); e potrei continuare all’infinito… oppure berci una bella birra (ah, no, sono astemio!).

Siamo nel 2013- nell’epoca dei bidgdata, della multicanalità, del loyalty e del mobile marketing- e mi chiedo a cosa servano certe iniziative (proposte non solo dall’insegna citata, sia chiaro), o solo quali obiettivi si pongano. Detto che il paniere proposto è perlomeno risibile e opinabile, se il messaggio voleva essere “rinunciando alle marche più famose (che trovi sui nostri scaffali) e comprando prodotti del tutto anomini, puoi risparmiare un sacco di soldi” credo allora che sia efficace; ma dato che temo che il messaggio volesse essere più semplice, del tipo “anche da noi puoi fare la spesa, spendendo come da un discount”, credo che la via scelta sia quanto meno non felice.

Gli operatori della GDO tradizionale potrebbero raccontare il proprio assortimento nelle corsie dei propri negozi, quando il cliente si trova alla guida del proprio carrello, ponendo l’enfasi sui propri prodotti a marchio oppure sui primi prezzi, per far capire ai clienti quale maggiore libertà di scelta possano offrire rispetto ai classici discount in termini di opportunità di scelta tra marche, private labels, e primi prezzi. Ovviamente anche altri media potrebbero essere utilizzati a tale scopo, ma non voglio perdere il filo del discorso.

Con la soluzione che ho commentato all’inizio, invece, l’effetto è, a mio avviso, quello di un downgrading del messaggio e del posizionamento dell’insegna, ovvero un errore marchiano per chi fa marketing.

Il problema è enfatizzato dal fatto che i discount, dal loro lato, si stanno sforzando per riposizionarsi verso l’alto, migliorando l’appeal dei propri negozi, l’offerta commerciale- con la valorizzazione dei reparti freschi e freschissimi- oltre che la qualità del proprio assortimento, elevando a brand i propri marchi di fantasia (protagonisti anche di spot tv). Insomma, un percorso che, senza poter negare la limitatezza dell’offerta tipica di un discounter [a mio avviso suonano forzati i tentativi di togliersi l’etichetta di discount da parte di alcuni leaders del formato], investe per comunicare ai propri clienti come il proprio assortimento risponda alla domanda di convenienza, ma anche a quella di un corretto value for money.

GDO tradizionale e discount sembrano così percorrere due strade con direzioni diverse. Ovviamente sarà il cliente a scegliere quale strada percorrere (anche di volta in volta, si sa che la fedeltà oggigiorno non è scontata), anche se i dati di vendita periodicamente diffusi da Nielsen o IRI segnalano come solo i discount (tranne qualche rara eccezione nella GDO classica) stanno finora riuscendo, seppure con difficoltà, a reggere l’impatto di questa prolungata crisi.

 

@danielecazzani

 

I #consumi #FMCG caleranno anche nei prossimi anni (@Nielsen dixit). #Discount, #ipermercati e #supermercati ne sono consapevoli?

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Nielsen prevede che i volumi dei consumi Fast Moving Consumer Goods saranno in calo anche nei prossimi due anni (non badiamo troppo ai valori, influenzati dall’inflazione, seppur debole). Discount, Ipermercati e Supermercati ne sono consapevoli? L’impatto sarà probabilmente diverso sui vari canali e differenti dovranno essere le risposte: gli IPERMERCATI dovranno lavorare ancora sull’assortimenti, soprattutto non food (per disegnarne un nuovo ruolo) e dare reale valore ai propri clienti mettendo al centro delle proprie politiche assortimentali (più che promozionali) le private labels; i SUPERMERCATI dovranno ritrovare un’identità di prossimità, dimenticandosi pericolose escursioni in ambiti non alimentari che finora non li hanno mai premiati; i DISCOUNT potranno consolidare le quote e aumentare la propria share of wallets coprendo in modo intelligente nuovi bisogni e nuove categorie, ma migliorando soprattutto sui comparti freschi quale fulcro per il rafforzamento di un rapporto di fedeltà coi propri clienti.

Sono numerose le strade che i distributori potrebbero scegliere per far fronte a questa perdurante situazione di crisi: l’auspicio è quindi che non continuino a percorrere vecchi sentieri (quali l’aumento della pressione promozionale) che si dimostrano sempre più accidentati e poco utili a salvare i bilanci aziendali.

In questo contesto sarebbe centrale l’obiettivo del ridisegno dei rapporti tra IDM e GDO, ma la sensazione è che anche il prossimo anno si continuerà ad andare in ordine sparso, con l’unico effetto certo che la voce del retail italiano (alimentare, ma non solo) rimarrà sempre debole e non ascoltata…

 

@danielecazzani

Biancaneve e i sette nani, ovvero la #GDO e le sue sette sfide

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Ogni giorno abbiamo modo di leggere dati sempre peggiori pubblicati da Istituti di Ricerca, Osservatori, Organizzazioni, Associazioni, Ministeri, sul crollo dei consumi nel nostro Paese, la progressiva distruzione del PIL e l’aumento della disoccupazione (con punte drammatiche al Sud e più in generale per i giovani). Contemporaneamente la GDO pare interrogarsi sul calo dei volumi (e dei fatturati) che caratterizzano questa prima metà del 2013 (e che hanno interessato almeno i due anni precedenti) chiedendosene quasi il motivo, quasi non capisse che tale situazione non è altro che il combinato disposto dei componenti della crisi italiana sopra accennati.

E’ però vero che, pur in questo contesto, all’interno della GDO vi sono realtà che stanno registrando comunque delle crescite o, perlomeno, dimostrano una migliore resilienza (per usare un termine proprio della Psicologia tanto in voga oggi).

La domanda da cui parto è quindi molto semplice: la GDO ha la possibilità di affrontare tale contesto in maniera meno passiva, sapendo trovare la forza per ripensare le proprie strategie, evitando di attendere soluzioni miracolistiche e magari facendo “sistema” per rappresentare in modo più forte le istanze di un settore importante dell’economia del nostro Paese? La mia risposta è ovviamente SI’ e per argomentarla ho deciso di elaborare un parallelo con la fiaba di Biancaneve e i sette nani, dove la dolce Biancaneve (la GDO) fugge dalla perfida Regina (la crisi) e si nasconde in una casa, abitata da sette nani (le sfide della GDO) trovando insieme a loro la via per la felicità (il Principe quale metafora della ripresa), nonostante cadute e momenti di difficoltà (la mela avvelenata).

Facciamo quindi conoscenza dei sette nani (lo so, c’è chi dice che la sfide della GDO siano ben più numerose…).

 

1-COMPRALO. I dati inerenti l’incremento del numero di referenze trattate negli ipermercati- IRI certifica una media di oltre 16 mila referenze solo nel comparto LCC- dimostrano come l’esplosione di prodotti sugli scaffali solo parzialmente sia andata di pari passo con l’aumento della quota di questo canale di vendita.

Più in generale, nel tentativo di incrementare la propria share of wallet a danno dei canali tradizionali, la GDO ha via via aumentato il numero di prodotti in assortimento, lavorando spesso più sull’asse della profondità che su quello dell’ampiezza, ma senza sembrare avere un’idea chiara sulla direzione da seguire, soprattutto nel canale ipermercati.

E’ altrettanto vero che certi gigantismi– che hanno portato a costruire ipermercati di tali dimensioni da apparire come “pianeti” senza ossigeno- hanno dimostrato la difficoltà di estendere oltre certi limiti la capacità di gestione degli assortimenti, come se le insegne della GDO che su tali strade si sono avventurate non fossero state in grado di riempire quegli spazi di contenuti rilevanti per la propria clientela. Abbiamo così visto nascere reparti non food “dopati” come vaghi tentativi di imitazione del category killers di turno, senza però averne il know how, né tantomeno essere in grado di raccontare al cliente questa loro nuova dimensione (per essere credibile come specialista dell’elettronica, ad esempio, non è sufficiente imitare l’assortimento del leader di mercato e realizzare un negozio nel negozio, dotato di propri spazi e strutture ad hoc).

Ora il problema non è, tout court, ridurre la numerica dei prodotti sugli scaffali quanto attuare una gestione attiva e strategica dell’assortimento, anziché attuare periodiche revisioni assortimentali che spesso si limitano a de-listing funzionali all’accaparramento di ulteriori listing fee… Detta così parrebbe un’ovvietà, ma la verità è che basta dare un’occhiata agli scaffali per rendersi conto di come concetti semplici come la costruzione di una scala prezzi leggibile per il cliente sia spesso un’illusione e quanto i negozi siano ancora pieni di vecchie “glorie del passato” che si trovano a fianco delle new entry annualmente proposte dall’Industria.

Ma quanto vi sia ancora da fare nell’ambito di una corretta strategia di manutenzione dei propri scaffali è dimostrato dal fatto che vi siano iniziative quali “Prodotto dell’Anno” che dichiarano l’obiettivo di proporre annualmente le innovazioni di prodotto migliori cui dare spazio sui propri scaffali. Pur essendo vero che la prima vittima di tale illusione è la stessa IDM, è altrettanto evidente che la maggior parte delle innovazioni nella realtà non sono tali (almeno agli occhi del vero giudice: il cliente) e che la maggior parte dei lanci non si traducono in successi. Provocatoriamente inoltre potrei dire che per conoscere il vero “prodotto dell’anno” sarebbe sufficiente leggere i dati di venduto alla casse dei propri punti vendita.

Infine un breve accenno alle private labels, da taluni viste come “fate turchine” in grado di miracolare margini e fatturati. Al di là di avere sbagliato fiaba- mi si conceda la battuta…- il rischio concreto è quello di attribuire a tali prodotti un ruolo non proprio e troppo ambizioso. A mio avviso la crescita che le PL stanno registrando negli ultimi anni- per quanto la quota italiana, prossima al 20%, sia ancora lontana dalla media europea del 35%- deve essere vista soprattutto come efficace risposta alla domanda del cliente di prodotti di buona qualità ma che non debbano scontare nel prezzo la brand value dei prodotti dell’IDM e, soprattutto dal lato della GDO, come tassello cruciale per rafforzare il rapporto che lega il retailer al proprio singolo cliente.

Ciò che spesso manca su questo fronte è però un’attività di scouting finalizzata alla ricerca di fornitori e prodotti, che si ponga l’obiettivo dell’innovazione di prodotto/servizio a favore del cliente, facendo sì che la GDO esca dalla logica da follower dell’IDM nella selezione dei prodotti e dai più banali “mee too” anche sul fronte dei packaging.

Il lavoro di Compralo è certamente tra i più pesanti e critici, e proprio per questo, senza sminuirne la centralità, sarà certamente uno degli aspetti sui quali Biancaneve dovrà lavorare maggiormente.

2-ESPONILO. Nonostante siano numerose le ricerche e i contributi che parlano del punto vendita quale “media”, nelle realtà i supermercati e gli ipermercati di oggi sono non molto dissimili da come si presentavano anni fa. Certo, vi sono state evoluzioni nelle attrezzature (penso ai passi in avanti, soprattutto nell’ambito del risparmio energetico, sulle attrezzature dei freschi e sull’ambientazione di alcuni reparti), ma al di là di alcune chimere- come il digital signage– penso si possa dire che negli ultimi anni le novità principali si siano concentrate soprattutto nell’area del barriera casse (prima con l’introduzione di soluzioni di self scanning e più recentemente self checkout), anche se mi chiedo con quale reale valore per il cliente che si vede sempre più gravato di attività… Pur essendo evidente come l’organizzazione spaziale di un punto vendita parta sempre e comunque dal prodotto e servizi contenuti e non essendovi layout ottimali in assoluto, sono convinto che tanti operatori della GDO farebbero meglio a girare i propri punti vendita dotati di carrello per capirne le tante “forzature” e “anomalie”: scoprirebbero così corridoi troppo stretti, categorie merceologiche distribuite in ogni qual dove nel punto vendita, assenza di spazi di “respiro”- dove poter attendere qualcuno col carrello senza sentirsi come una macchina in panne in mezzo ai via dei Fori Imperiali- o zone antistanti le casse sempre troppo anguste…

Esponilo quindi- oltre a utilizzare i più moderni software per la gestione dello space allocation e il visual merchandising– dovrebbe di tanto in tanto mettersi nei panni del cliente e chiedersi se sia davvero così marginale studiare in modo più attento quanto la GDO sia in grado di aiutare il cliente all’interno del punto vendita, realizzando ad esempio una chiara segnaletica che gli permetta di decifrare gli scaffali, o trovare il prodotto che gli serve nel minor tempo possibile. In caso contrario, ad esempio, i sempre più dispersivi ipermercati avranno ben poco da lamentarsi del fatto che tanti clienti si spostino sempre più verso canali, quali il discount o supermercati di piccole dimensioni, dove la lettura dell’assortimento e la “viabilità” risultano più intuitivi e rapidi.

3-PROMOZIONALO. Si tratta certamente del nano più ostico e scorbutico. Negli anni è diventato il vero protagonista della scena, anche per rimediare agli eccessi di Compralo e ai limiti di Esponilo che in effetti hanno riempito (in modo disordinato) gli scaffali di prodotti difficilmente vendibili se non con un sostanzioso taglio prezzo. Come recentemente documentato da Nielsen la pressione promozionale è passata dal 20% nel 2000 al 30% nel 2012 e nel contempo la sua efficacia si è ridotta. Nei libri di marketing- approssimativamente alle pagine due o tre c’è scritto che la leva del prezzo (ci ricordiamo le care, desuete, famose quattro “P”? Product, Price, Promotion, Place?) è la più facile da imitare da parte dei competitors, soprattutto quando questi vendono il nostro medesimo prodotto. E dato che le analisi Nielsen dimostrano come le promozioni riguardino, 365 giorni all’anno, sia i leader che i followers di categoria- oramai anche le private labels!- ecco che abbiamo un elemento che da solo spiega la riduzione dell’efficacia promozionale. Oggigiorno poi vi sono strumenti che permettono ai clienti di comparare i prezzi tra i diversi retailers semplicemente utilizzando uno smartphone e geolocalizzando la ricerca; e poiché i clienti sono oramai divenuti molto bravi a utilizzare questi strumenti (molto più di quanto lo siano certi buyers…) non v’è da stupirsi che la GDO sia riuscita in pochi anni  a formare una classe di cherry pickers seriali.

L’uscita da questo cul de sac non è ovviamente nel semplificatorio passaggio all’every day low price– che è una strategia commerciale ed organizzativa e non una tattica- perché dobbiamo sempre ricordarci che le promozioni hanno risposto alla richiesta di risparmio delle famiglie italiane sempre più forte in questo contesto di prolungata crisi, e sarebbe pertanto sbagliato considerarle un errore. Ma la crescita della pressione promozionale è anche frutto della sempre minore rappresentatività dei prezzi normali di vendita a scaffale dei prodotti: vi sono categorie- l’olio d’oliva, il tonno in scatola solo per citare due esempi- dove la pressione è arrivata a livelli tali da farci chiedere se abbia senso o meno avere il prodotto se non in promozione. Questa situazione è a mio avviso frutto a sua volta delle regole contrattuali in vigore nella gran parte della catene della GDO italiana, dove il gran numero di livelli di sconti e condizioni ha reso via via sempre più complicato la gestione dei prezzi di vendita, con l’effetto ultimo di rendere difficile il controllo dei margini per la GDO e complicare agli occhi del cliente la percezione del reale valore dei prodotti, sminuendo così anche l’efficacia di richiamo della promozione stessa.

Quindi solo lavorando a stretto contatto con Compralo il nostro Promozionalo potrà migliorare la qualità del proprio lavoro, anche nella misura in cui sarà motivato a collaborare con Comunicalo e Conoscilo, i successivi due nani di cui parleremo subito.

4-COMUNICALO. I volantini, la televisione, la radio, la carta stampata, l’outdoor, i nuovi media: non manca nulla al coltellino da lavoro di Comunicalo. Peccato che difficilmente sappia calcolare l’efficacia reale di ciascuno dei media utilizzati e gestirli in modo sinergico. Le funzioni Marketing, oltre a essere talvolta come delle “riserve indiane” all’interno degli organigrammi della GDO, spesso anche al loro interno lavorano prive di una visione d’insieme, come se l’obiettivo fosse quello di fare rumore, anziché quello di parlare (armoniosamente) coi propri potenziali clienti. Non v’è da stupirsi che guardando tale panorama, ad esempio, George Plassat di Carrefour si interroghi sul senso del Marketing (di questo marketing, ribadisco)…

Anche il linguaggio pubblicitario è rimasto ancorato a vecchi slogan e stereotipi: si leggono titoli di volantini forse in grado di suggestionare la mitica casalinga di Voghera, ma ben distanti dalla esigenze dei consumatori moderni che chiedono più chiarezza e meno chiasso.

Una approfondimento merita l’argomento “volantino e volantinaggio”: premesso che il primo è lo specchio del lavoro caotico di Compralo e Promozionalo, possiamo però aggiungere che anche la fase di distribuzione- interamente nelle mani di Comunicalo- nemmeno utilizzando i tanto decantati strumenti di certificazione (abbiamo presente, tutti noi, quanti volantini riceviamo giornalmente nelle cassette postali?) può dirsi pienamente controllata, col rischio che tale inefficacia vanifichi gli impressionanti investimenti fatti dalla GDO proprio nei volantini (che assorbono mediamente il 70% dei budget pubblicitari).

Nonostante ogni anno si stampino in Italia più di 12 miliardi di volantini, e non vi sia un segno di rallentamento, ritengo che sia assolutamente opportuno un ripensamento di questa traiettoria che la GDO pare oggi non essere in grado di interrompere, nonostante risulti sempre più evidente trattarsi di una strada malridotta.

Per compiere reali passi in avanti sarà assolutamente necessario che Comunicalo chiami in suo (e nostro) aiuto il tanto bistrattato Conoscilo.

5-CONOSCILO. “Mettere il cliente al centro” è da anni uno dei must dichiarati dalla GDO ed oggetto di  numerosi workshop e convegni. “Mettere al centro il cliente” dovrebbe significare in primis costruire attorno alle sue esigenze i nostri negozi- in termini di assortimenti, prezzi e servizi- ma nella realtà la tentazione cui tanti retailers non sanno resistere è quella di mettere il cliente al centro… di un fantomatico bersaglio, cercando di colpirlo con promozioni di tutti i tipi, spesso molto distanti dai suoi reali desiderata. L’ambito promozionale è infatti il regno delle attività mass market: pur disponendo di una ricca serie di dati loyalty, la maggior parte degli operatori del settore pare finora non essere stata in grado di valorizzare tale patrimonio di conoscenza dei comportamenti d’acquisto dei clienti.

Sia ben chiaro che non si intende qui sostenere che i soli dati loyalty siano in grado di disegnare un profilo perfetto della clientela, ma è certo che sia molto meglio lavorare perlomeno su aggregati di clienti (profili/cluster), piuttosto che trattare i clienti come fossero una sola cosa. Un cliente alto frequentante, ad esempio, sarà certamente in grado di apprezzare maggiormente attività promozionali nei reparti freschissimi rispetto a un cliente a bassa frequenza e che magari si reca nel punto vendita solo in occasione delle promozioni più aggressive… I dati loyalty permettono anche di verificare il reale appeal delle singole meccaniche promozionali, ma anche in questo caso spesso si preferisce ignorare tali dati per non mettere in discussione quei calendari e quelle dinamiche promozionali che nascono dall’incontro tra GDO e IDM e che ben poco si preoccupano del cliente finale e che raramente effettuano obiettive valutazioni ex post dei risultati (analizzando l’impatto delle promo non solo sul prodotto, ma sull’intera categoria o sul carrello).

Se una reale presa di consapevolezza del valore dei dati loyalty pare paradossalmente ancora lungi dal venire, ecco già che si affermano nuove “illusioni”.

L’ultima è legata la fenomeno “social”: così quasi tutte le insegne delle GDO aprono pagine su Facebook, twittano come il più compulsivo degli adolescenti, ma senza avere ben chiaro, a mio avviso, che la prima dimensione “social” è data dal punto vendita, dalla possibilità di innescare in quel contesto una reale e positiva relazione col cliente, guardandolo negli occhi e rispondendo alle sue domande e gestendone le eventuali lamentele e criticità.

Non sarò certamente io a disconoscere l’importanza delle attività di social marketing, ma questo non significa illudersi che una corretta gestione di tali ambiti sia in grado di colmare lacune o mancanze della propria politica commerciale o del punto vendita.

E’ pertanto necessario dare centralità alle funzioni Marketing rendendole parte attiva delle dinamiche aziendali: solo in questo modo la GDO potrà tornare a parlare alla propria clientela, recuperando anche quella capacità di ascolto che pare essersi persa nel rumore da lei stessa provocato.

6-TRASPORTALO. La logistica è da molti considerata come una “monade” leibniziana, ovvero come un territorio a sé stante, con proprie regole, e per questo motivo i progetti di ottimizzazione nascono e vengono spesso gestiti all’interno delle strette (e alte) mura della medesima funzione. Nella realtà sono convinto che anche l’efficienza ed efficacia della logistica passi, anzi scaturisca, da una corretta gestione degli assortimenti, ovvero da una loro calibratura sulla realtà ( quantitativa e qualitativa) della rete vendita. Fino ad oggi si è provato a ottimizzare tale ambito- addirittura pensando di trasformarlo in una fonte di redditività per chi gestisce affiliazioni…- esternalizzando, o incentivando un proliferare di Cedi e sotto-Cedi della cui singola efficacia mi permetto di dubitare, almeno a giudicare dall’impatto sui conti economici dei costi logistici e dalla numerose criticità che vivono i punti vendita (anche se, a onor del vero, dovremmo aggiungere che l’attività promozionale, fatta di picchi di consegna e successive rimanenze, certamente non aiuta…).

L’argomento meriterebbe certamente più spazio, ad esempio per affrontare il tema dei prodotti freschissimi (pensiamo all’ortofrutta) e alle insidie del “chilometro zero” (difficilmente gestibile in base all’attuale struttura della supply chain nella GDO), ma mi riprometto di tornarne a parlarne in modo più approfondito in futuro.

Ciò che è certo è che Trasportalo non dovrebbe mai lavorare da solo, anzi dovrebbe essere coinvolto in modo più attivo dalle altre funzioni, che farebbero meglio a non vedere la Logistica come un corpo esterno (o addirittura estraneo) al proprio business.

7-MOTIVALO. Il personale dovrebbe essere un protagonista del punto vendita (anche se parliamo di vendita non assistita): per questa ragione Motivalo dovrebbero sempre lavorare a stretto gomito con tutti gli altri compagni. Anche su questo fronte però,  alla grande attenzione per le divise e altri aspetti “estetici” del negozio spesso non corrisponde una reale valorizzazione del personale inteso come terminale di contatto col cliente. Per intenderci: giustamente la maggior parte degli operatori della GDO investe notevoli risorse nella continua formazione professionale del personale, ma la vera lacuna, a mio avviso, è spesso data, dal mancato coinvolgimento delle risorse umane nelle politiche di insegna, spesso subite più che conosciute realmente. Così capita di frequente che il cliente non trovi nel personale di vendita quel supporto che si attende, venendo spesso rimandato ad altri luoghi (come il box informazioni, vero e proprio “ombelico” del negozio), vivendo la medesima sensazione che si prova- a chi non sarà capitato almeno una volta?- di avere fatto la fila di fronte a uno sportello INPS o delle Poste per poi scoprire di doversi rivolgere ad altro sportello o ufficio…

I retailers dovrebbero in questo senso incentivare un approccio bottom-up, ovvero una generazione dal basso di idee e progetti, coinvolgendo maggiormente coloro che vivono in prima persona la realtà del negozio insieme al cliente. Alcune personali esperienze mi danno la certezza che si tratta di un patrimonio ai più sconosciuto, ma che potrebbe rivelarsi quanto mai strategico per la gran parte degli operatori del settore: potrebbero così scoprire che i progetti migliori non nascono da impeccabili presentazioni in PowerPoint ma  da una chiacchierata con un repartista o un addetto al banco taglio o una cassiera.

 

In conclusione: non cerchiamo perfide Regine da incolpare per la situazione attuale e non restiamo in attesa di Principi che ci risveglino. Rimbocchiamoci invece le maniche e iniziamo a vincere le ingannevoli convinzioni di un passato oramai irrecuperabile o di un futuro che non è mai arrivato, riscoprendo l’ABC del commercio, senza andare troppo lontano, scavando magari nella storia delle nostre aziende e guardando negli occhi i nostri clienti: come i sette nani della fiaba saremo così in grado di estrarre ancora pietre preziose dalla pur dura roccia.

 

Ammissione finale:

C’è una forzatura nel parallelo con la fiaba: è evidente a tutti che la GDO non sia bella come Biancaneve 🙂

 

Daniele Cazzani

Responsabile Marketing e Comunicazione – Ipermercati Pellicano – Lombardini Holding S.p.A.

@danielecazzani

Grana Padano e Parmigiano Reggiano: il valore del brand, la filiera, l’export e i consumi interni

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I dati relativi alle esportazioni di GRANA PADANO DOP e PARMIGIANO REGGIANO DOP registrano una costante crescita (data un incremento dei volumi sia sul mercato europeo, che statunitense e nei paesi emergenti soprattutto dell’area asitica).

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GRANA PADANO DOP e PARMIGIANO REGGIANO DOP si confermano pertanto due incredibili ambasciatori del Made in Italy agro-alimentare nel Mondo.

A fronte di questi dati incoraggianti sul fronte interno i consumi- principalmente concentrati nei canali moderni (superette, super e iper)- stanno conoscendo da alcuni anni una flessione.

consumi formaggio duri

Mi chiedo provocatoriamente se tali dati negativi siano in qualche modo imputabili anche alle scelte di advertising dei rispettivi Consorzi. Gli spot televisivi di queste due eccellenze italiane, si sono infatti contraddistinti negli ultimi anni per scelte spesso discutibili: dallo spot “Pa-pa-pa Parmigiano” (basato su una canzone dei Ricchi e Poveri  http://www.youtube.com/watch?v=nfitHk29H4Q) al famoso “Grana Padao” (spot con ragazza brasiliana) o ancora al più recente “non invitare a tavola uno sconosciuto” (http://www.youtube.com/watch?v=UDMJwO-IIwY). Per non parlare degli spot a sostegno del consumo di Grana Padano a supporto delle zone terremotate dell’Emilia: vista l’importanza del messaggio e la gravità della situazione, era certamente possibile realizzare un messaggio più coinvolgente ed empatico (magari con meno protagonismi…).

Non metto certamente in dubbio l’originalità e “simpatia” di alcune di queste idee pubblicitarie, ma mi chiedo come (e se) questi spot siano in grado di portare al consumatore (italiano o straniero che sia) la QUALITA’ e la STORIA che questi due prestigiosi marchi racchiudono e, per converso, quanto gli incoraggianti risultati dell’export siano invece imputabili a una forte riscoperta del made in Italy nel Mondo e a una migliore (più accorta e selezionata) gestione dei canali di vendita.

A tal proposito una nota finale. Nei comunicati dei Consorzi si enfatizzano spesso i risultati conseguiti in termini di aumento di volumi di produzione (ed export, vedi sopra), ma mi sembra vi sia un minore attenzione per la componente “qualitativa” dell’offerta: non è forse vero che la tremenda pressione promozionale che questi due prodotti soffrono all’interno dei canali della distribuzione moderna ne ha nel tempo deteriorato il valore agli occhi del consumatore (almeno in parte)? Sono convinto che le nostre eccellenze debbano essere tutelate preservandole da certi agoni competitivi utili a gonfiare i volumi (ma non sempre i conti economici dei piccoli produttori e allevatori alla base della catena del valore che andrebbero invece tutelati).

Daniele Cazzani